Obbligo di bonifica e proprietario incolpevole

01 Ott 2024 | amministrativo, giurisprudenza

Consiglio di Stato Sez. VI – 14 maggio 2024, n. 4298

Massima 1

Le coordinate esegetiche disegnate dal legislatore europeo e recepite dal legislatore interno si basano su criteri estremamente precisi, chiari e rigorosi nell’attribuzione della responsabilità per danno ambientale, e segnatamente: a) il quadro giuridico europeo risultante dai principi generali del Trattato e dal diritto derivato non esige lo stretto accertamento dell’elemento psicologico e del nesso di causalità fra la condotta di detenzione del rifiuto in ragione della disponibilità dell’area e il rischio ambientale dell’inquinamento; b) la normativa nazionale deve essere interpretata in chiave europea e in maniera compatibile con canoni di assoluto rigore a tutela dell’ambiente; c) la responsabilità dell’autore materiale del fatto originario generatore del danno ambientale non costituisce un’esimente, né elide, tantomeno in via successiva, la responsabilità di coloro che divengono proprietari del bene o che vantano diritti o relazioni di fatto col bene medesimo; d) l’ignoranza delle condizioni oggettive di inquinamento in cui versa il bene non esclude la responsabilità di chi ne è successivamente divenuto proprietario.

Massima 2

Le procedure giudiziarie di liquidazione con cessione totale dei beni, pur differenziandosi sotto il profilo civilistico dalle modalità liquidatorie e degli organi impegnati al riguardo, possiedono analoghi effetti finali: infatti, anche in questo caso, così come nel fallimento, l’impresa cessa la propria attività e pone tutto il suo patrimonio residuo a disposizione dei futuri acquirenti. In ragione di ciò, i principi sopra riportati della sentenza dell’Adunanza plenaria n. 3/2021 si attagliano anche alla procedura di liquidazione con cessione dei beni, per cui i costi da sostenere per porre rimedio alle “esternalità negative” di produzione (sanitarie, ambientali, di pubblica incolumità, etc.) devono ricadere su chi acquista con piena coscienza dell’inquinamento e con preciso comando giudiziale; diversamente opinando, quei costi ricadrebbero sulla collettività incolpevole.

1. Preambolo

Nell’esaminare sentenze rilevanti in materia ecologica, viene pressoché naturale prendere le parti della tutela ambientale, anche alla luce dell’importanza del tema per la collettività e della recente riforma costituzionale che ha espressamente inserito nella Carta fondamentale diversi espliciti richiami alla protezione dell’ambiente[i]. Allo stesso modo, tuttavia, occorre riconoscere che qualsiasi regolamentazione (normativa o giurisprudenziale) deve necessariamente fare i conti con altri diritti costituzionalmente protetti, come, per quanto riguarda il tema ambientale, il diritto al lavoro e quello alla libertà d’impresa. Tanto che la Corte costituzionale – nell’esaminare un caso molto complesso riguardante lo stabilimento Ilva di Taranto – ha ricordato[ii] che nessun diritto può completamente annullarne altri, poiché la Costituzione richiede sempre un’operazione di bilanciamento, in altre parole, non esistono diritti tiranni[iii]

Cercheremo pertanto di adottare, in questo commento, un profilo il più possibile oggettivo, soprattutto attraverso un’analisi rigorosa e analitica del quadro regolatorio e dei precedenti giurisprudenziali. Del resto, la sentenza del Consiglio di Stato in commento si colloca all’intersezione fra due normative molto circoscritte e specialistiche: quella sulla responsabilità ambientale e la contaminazione dei siti e quella riguardante le procedure di fallimento e liquidazione delle società. La prima è molto giovane e solo in parte di derivazione eurounitaria: mentre infatti la responsabilità per danno ambientale è disciplinata, a livello europeo, dalla Direttiva 2004/35/CE, sul tema specifico delle bonifiche in relazione a inquinamenti che non si configurano come danno ambientale non si è sino a questo momento[iv] trovato un accordo per una disciplina europea unitaria, con la conseguenza che ogni Stato ha una regolamentazione nazionale, non raramente difforme da quella degli altri, nelle regole scritte ed ancor più nella loro pratica applicazione[v].

Inoltre, la normativa applicata dal Consiglio di Stato è di difficile e spesso controversa interpretazione perché, non raramente, le fattispecie concrete che si verificano presentano criticità assai complesse da risolvere. Così, ad esempio, una cosa è scrivere in un testo normativo che, se il responsabile della contaminazione non viene individuato o non provvede alla bonifica, questa viene eseguita dal Comune[vi] (o, in caso di fallimento, dal curatore[vii]), altra cosa è gestire l’applicazione pratica di queste regole. Per avanzare solo qualche esempio, si pensi al caso in cui il Sindaco non disponga dei fondi in bilancio che sarebbero necessari, trovandosi così a rischiare il coinvolgimento in un procedimento penale per omessa bonifica[viii]; o si pensi al curatore fallimentare il quale si trovi in analoga situazione di carenza di attivo, o, comunque, sia soggetto alle pressioni dei creditori della massa fallimentare, ovviamente non felici di veder consumare l’attivo dalle spese per il disinquinamento, per non dire del tema, sicuramente molto sentito, degli obblighi che gravano sul proprietario non responsabile.

La complessità del quadro regolatorio è ulteriormente aggravata dal fatto che la disciplina sulle bonifiche viene applicata, con diverse finalità e obiettivi, da tre giurisdizioni: quella amministrativa, quella penale e quella civilistica. Contrasti anche radicali tra gli approcci delle diverse giurisdizioni non sono infrequenti. Così, ad esempio, mentre parte della giurisprudenza amministrativa[ix] sembra addossare al proprietario incolpevole non soltanto le misure di prevenzione (Mipre), ma anche quelle di messa in sicurezza d’emergenza (Mise) e talora persino la bonifica, le sezioni unite della Cassazione civile hanno adottato – in letterale aderenza al testo normativo[x] – la soluzione opposta[xi]. Altro esempio riguarda la possibilità o meno, per chi inizia volontariamente una bonifica, di interrompere il proprio coinvolgimento in corso d’opera, ad esempio dopo aver conosciuto gli esiti della caratterizzazione[xii].

Altre potenziali incongruenze coinvolgono il rapporto fra la giurisdizione amministrativa e quella penale. Infatti, in sede amministrativa la responsabilità per la contaminazione può essere stabilita sulla base di indizi concordanti, secondo lo standard probatorio del più probabile che non[xiii], laddove in sede penale vige la regola probatoria dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Come questo si può conciliare con il fatto che la responsabilità soggettiva per l’inquinamento viene accertata – in ambito amministrativo – attraverso uno standard probatorio significativamente meno rigoroso? Appare evidente la criticità di una contestazione penale fondata sulla mera inottemperanza a un ordine amministrativo che, invece, risulterebbe legittimamente impartito sulla base di semplici presunzioni.

Ciò premesso, nei paragrafi che seguono daremo conto delle interferenze della disciplina sulla bonifica con quella sul risarcimento del danno all’ambiente (par. 2) e con quella sui rifiuti (par. 3), analizzeremo la detenzione (par. 4) e la consapevolezza (par. 5), ragioneremo sulla ratio che sta alla base delle scelte di una parte della giurisprudenza amministrativa (par. 6), per chiudere, infine, con alcune considerazioni anche de jure condendo (par. 7).

2. L’obbligo di risarcire il danno all’ambiente e l’obbligo di bonificare il sito contaminato

Alcune sentenze, come quella in esame[xiv], affrontano il tema dell’obbligo di bonifica prendendo come riferimento la disciplina sul danno ambientale, altre mantengono, invece, i due ambiti nettamente distinti[xv]. Ebbene, l’evoluzione storica della normativa dimostra come la distinzione, presente nella legislazione vigente, non fosse così in origine.

Ed invero, con l’art. 18 della legge n. 349/1986 venne introdotto in Italia l’obbligo di risarcimento del danno all’ambiente (inteso come suolo, sottosuolo, acque, aria) che doveva avvenire, principalmente, in forma specifica attraverso il ripristino dello status quo[xvi] o, in subordine, per equivalente mediante il pagamento di una somma di denaro da quantificare tenendo conto dei costi di ripristino, del vantaggio conseguito dal trasgressore e finanche della gravità della colpa. Di conseguenza, è corretto affermare che l’obbligo di bonifica integrava, quantomeno a partire dal 1986, il risarcimento in forma specifica, in favore dello Stato, del danno arrecato ad una matrice ambientale quale conseguenza di un fatto illecito extracontrattualecommesso con dolo o colpa o in violazione di norme di legge o di provvedimenti adottati in base alla legge[xvii].

Undici anni dopo, con l’art. 17 del D.lgs. n. 22/1997 – e con il D.m. n. 471/1999 che ne diede attuazione – venne delineata una disciplina specifica per la bonifica dei siti contaminati, senza però che questo abbia mai indotto la giurisprudenza a sostenere una abrogazione della legge del 1986, abrogazione che avvenne[xviii] soltanto con il D.lgs. n. 152/2006, segnatamente con la Parte VI che recepì la direttiva 2004/35/Ce specifica sul risarcimento del danno all’ambiente. Restava invece confinata nella Parte IV (sui rifiuti) la disciplina in materia di bonifica che ricalcava, con poche novità ancorché non marginali, quella del 1999.

Ebbene, quando fu chiamato a recepire la direttiva del 2004, il legislatore italiano avrebbe dovuto prendere atto che la disciplina nazionale sulle bonifiche era stata riprodotta, nelle sue linee essenziali e principali, dal legislatore europeo proprio all’interno della direttiva del 2004 sul danno ambientale. Sarebbe stato, dunque, logico e opportuno far confluire nella Parte VI il Titolo V della Parte IV, evitando così di prolungare una coesistenza priva di logica e di vantaggi pratici, ma anzi foriera di equivoci diventati in seguito evidenti al punto tale da costringere il legislatore a introdurre una norma di raccordo sul piano procedurale (l’art. 298-bis, introdotto con la legge n. 97/2013, prevede che i principi in tema di risarcimento del danno ambientale di cui alla Parte VI trovino applicazione nel procedimento di bonifica di cui alla Parte IV, titolo V[xix]).

Ciò non è bastato per superare i disaccordi sostanziali che emergono esaminando i due istituti; ad esempio, se è pacifico che una potenziale contaminazione (data dal superamento di valori limite) non integri necessariamente un danno ambientale, risulta incomprensibile la ragione per la quale l’obbligo di risarcimento del danno (ovvero il fatto più grave) sia sottoposto a prescrizione a norma dell’art. 303 lett. g), mentre invece quello di bonifica (il fatto meno grave) venga ritenuto di fatto imprescrittibile[xx] o comunque non vincolato alla richiamata disposizione[xxi]. Incomprensibile è anche la ragione per la quale, per il fatto più grave, siano previste due forme di responsabilità, una oggettiva connessa ad alcune specifiche attività e una soggettiva – ancorata all’accertamento del dolo o della colpa – per i danni cagionati da attività diverse, laddove invece, quando si tratta di mera contaminazione, l’assenza di chiarezza della normativa impedisce un univoco inquadramento dell’elemento soggettivo[xxii]. Ma soprattutto, guardando ai rimedi concretamente praticabili, non si comprende per quale ragione in caso di danno all’ambiente la legge consenta di intervenire con la riparazione primaria (ovvero la bonifica in senso stretto), in subordine con quella complementare o in via del tutto subordinata attraverso quella compensativa, mentre invece per rimediare a una mera contaminazione non sia previsto l’accesso a queste due pragmatiche riparazioni subordinate.

Ebbene, in un quadro normativo così affastellato[xxiii], non sorprende se la giurisprudenza a volte mantenga gli ambiti separati[xxiv], altre li sovrapponga scegliendo caso per caso quali norme di un istituto applicare all’altro.

3. Rifiuti da rimuovere e smaltire e siti da bonificare

Quella con il risarcimento del danno all’ambiente non è la sola convivenza difficile. Causa gravi equivoci anche quella sui rifiuti. Qui l’incongruenza è – se possibile – ancora più evidente perchè si tratta di situazioni che la legge, questa volta, ha tenuto volutamente e indubbiamente distinte in due disposizioni, speculari, del Testo Unico Ambientale: l’art. 185 a mente del quale la disciplina sui rifiuti non si applica al suolo inquinato non rimosso e l’art. 239 che, aprendo il Titolo V sulla bonifica, esclude l’applicazione della disciplina ivi prevista all’ipotesi di abbandono di rifiuti.

È vero che tanto l’obbligo di rimozione dei rifiuti illecitamente abbandonati quanto quello di bonifica del sito contaminato sono dettati in attuazione del medesimo principio generale chi inquina paga, ma valutare il primo istituto alla luce del secondo (o viceversa) non è corretto, non solo perché vi ostano le due norme sopra richiamate che stabiliscono l’ambito di applicazione, ma anche per ragioni di ordine sostanziale non prive di logica.

Infatti, mentre un sito contaminato di proprietà privata deve essere gestito in ultima istanza dal Comune, in caso di abbandono di rifiuti, sempre in un’area privata, con responsabili ignoti o non solvibili e senza concorso alcuno del proprietario, nessun intervento sostitutivo deve essere adottato dalla Pubblica amministrazione.

Ciò, come detto, non è privo di logica; infatti, mentre il sito, inteso come suolo, sottosuolo e acque sotterranee costituisce, a tutti gli effetti, una matrice ambientale in senso stretto e come tale da preservare a prescindere da chi ne abbia oggi la proprietà, i rifiuti abbandonati da terzi in area privata (beninteso, ove non vi sia il pericolo di cagionare danni al terreno o alle acque) riguardano solo il proprietario dell’immobile (se incolpevole) che resta libero di decidere se rimuoverli o no, posto che il Sindaco può/deve agire in danno nei confronti dei soli soggetti obbligati[xxv].

In questo quadro chiaro e logico, destano perplessità le sentenze che, nell’affrontare i casi di abbandono rifiuti, hanno richiamato le norme sulle bonifiche o viceversa[xxvi].

4. Il proprietario e il detentore non responsabili dell’inquinamento

Come anticipato nel preambolo, mentre parte della giurisprudenza amministrativa[xxvii] sembra addossare al proprietario o detentore incolpevole non soltanto le misure di prevenzione (Mipre), ma anche quelle di messa in sicurezza d’emergenza (Mise) e talora persino di bonifica, le sezioni unite della Cassazione civile hanno adottato – in letterale aderenza al testo normativo[xxviii]– la soluzione opposta[xxix].

Anche la sentenza qui in commento valorizza in modo estremo la situazione di “detenzione” dei rifiuti o dell’area dove essi si trovano come fonte di una responsabilità ambientale. Responsabilità che è sostanzialmente oggettiva e anzi persino “di posizione”, se, come affermato dal Consiglio di Stato, «non esige lo stretto accertamento dell’elemento psicologico e del nesso di causalità fra la condotta di detenzione del rifiuto in ragione della disponibilità dell’area e il rischio ambientale dell’inquinamento». Ben raramente nel diritto, per affermare una responsabilità, si prescinde sia dall’accertamento dell’elemento soggettivo (al punto che non sembra occorra nemmeno la conoscenza della situazione di inquinamento[xxx]) che dall’accertamento del nesso causale.

Il forte ruolo attribuito alla detenzione (dei rifiuti e dell’area dove essi insistono) si pone evidentemente come ulteriore sviluppo e irrigidimento dei principi affermati dal Consiglio di Stato nella Decisione dell’Adunanza plenaria n. 3/2021 relativa alla posizione del curatore fallimentare. In tale sede, i giudici di Palazzo Spada sostennero che «la responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore acquisita dal curatore fallimentare non in riferimento ai rifiuti, ma in virtù della detenzione del bene immobile inquinato … su cui i rifiuti insistono».

Lo spostamento dell’attenzione – nella sentenza qui in commento – dalla detenzione dei rifiuti a quella dell’area ove gli stessi insistono consente al Consiglio di Stato di sminuire la portata dell’art. 192, D.Lgs. n. 152/2006, che, per la responsabilità del proprietario in materia di smaltimento dei rifiuti, richiede che tale soggetto versi in una situazione soggettiva di dolo o colpa[xxxi].

Appare tuttavia evidente la tensione che questa operazione interpretativa causa rispetto ai principi costituzionali relativi alla responsabilità, anche ambientale. Non solo si prescinde dal principio chi inquina paga, ma si giunge a non considerare necessaria nemmeno la conoscenza dell’inquinamento (pur se, come vedremo, questa posizione è contraddittoria anche all’interno della sentenza in commento). Ed infine si prescinde persino dal nesso causale, invece ritenuto necessario dalla nota decisione della Corte di Giustizia in materia di bonifiche[xxxii].

Vedremo nelle conclusioni come sia a nostro avviso possibile e opportuno correggere una interpretazione tanto estrema, senza indebolire la doverosa attenzione al risanamento ambientale.

5. La consapevolezza

Secondo il Consiglio di Stato, la responsabilità ambientale presuppone – nelle situazioni in esame – la conoscenza dell’inquinamento? Sul punto la sentenza in commento è contraddittoria. Da un lato infatti al punto 17 si legge (sulla scia di Adunanza Plenaria n. 3/2021[xxxiii]): «l’ignoranza delle condizioni oggettive di inquinamento in cui versa il bene non esclude la responsabilità di chi ne è successivamente divenuto proprietario». Dall’altro, al punto 20, si condiziona il sorgere delle “esternalità negative” al fatto che chi acquista avesse “piena coscienza dell’inquinamento” (e al successivo punto 21 si conferma tale affermazione con riferimento alle specifiche circostanze del caso).

Va detto che la tesi della detenzione come sorgente dell’obbligo dovrebbe logicamente portare, in astratto, alla conclusione del punto 17 della sentenza (conclusione infatti accolta da Ad. Plen. n. 3/2021). Ma ben si comprende la ragione della contraddizione interna alla sentenza; infatti, recuperare un elemento di colpevolezza o almeno consapevolezza (della situazione oggettiva di inquinamento) pare il solo modo per attenuare (pur non eliminandolo) il rischio di incostituzionalità dell’interpretazione proposta. Infatti, in questa direzione si erano orientate altre sentenze della giustizia amministrativa; ad esempio, secondo il Consiglio di Stato, «un soggetto che acquista un terreno conoscendone la situazione di dissesto ambientale non si qualifica come “proprietario incolpevole” e, pertanto, è tenuto in solido con il responsabile alla rimozione dei rifiuti e al ripristino ambientale dell’area, ai sensi dell’art. 192, c. 3 del d.lgs. n. 152/2006» (sentenza n. 6179/2021). Questa sentenza (che affronta anche il tema della responsabilità degli amministratori e dei soci dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese) è stata richiamata a sostegno da altra pronuncia, sempre del Consiglio di Stato, nella quale si dà risalto al fatto che l’acquisto dell’area da parte del nuovo proprietario fosse avvenuto nella piena consapevolezza della situazione ambientale e «dunque … ben conoscendo la situazione giuridico-fattuale del compendio». Con la conseguenza che, secondo il Consiglio di Stato, sull’acquirente gravano gli obblighi di messa in sicurezza ai sensi dei principi generali sulla proprietà previsti dall’articolo 832 del Codice civile (Consiglio di Stato, sentenza n. 6179/2021).

In realtà, a nostro avviso, andrebbe distinta la consapevolezza circa una situazione che costituisce fonte di pericolo (una sorgente attiva) di inquinamento e che impone, di conseguenza, da parte di chi la conosce ed ha la disponibilità del sito, l’adozione di azioni idonee a evitare aggravamenti, dalla consapevolezza rispetto a una contaminazione storica non suscettibile di aggravamento, ad esempio, perché non vi è la presenza di acque sotterranee o perché queste risultano già compromesse senza apporto ulteriore e significativo da parte del sito interessato. Ebbene in questa seconda situazione  non sembra coerente con il principio chi inquina paga attribuire al proprietario, solo perché consapevole dell’inquinamento, quegli stessi obblighi che gravano invece, per legge, su chi ha materialmente inquinato.

Ciò vale, a maggior ragione, nel caso di acquisto inconsapevole dal momento che l’ordinamento non richiede, in linea generale, a un aspirante proprietario, prima di procedere con l’acquisto di un qualunque bene, di verificarne l’assenza di vizi e difetti. Senza contare che, nel caso dei siti contaminati, le due diligence che frequentemente vengono condotte non restituiscono quasi mai una fotografia nitida e completa della reale situazione ambientale.

L’incertezza su un aspetto rilevante come quello della consapevolezza non solo svilisce il principio chi inquina paga, ma costituisce anche un freno alle operazioni di trasferimento dei patrimoni immobiliari e scoraggia l’avvio delle opere di bonifica.

In ultima analisi, la sentenza è certamente condivisibile quando afferma chela normativa nazionale deve essere interpretata in chiave europea, ma, alla luce di quanto sopra osservato, si direbbe che sono proprio i principi fondamentali europei a essere indeboliti nella misura in cui l’inquinatore e il proprietario vengono messi sullo stesso piano, senza nemmeno riconoscere una sussidiarietà o una gerarchia[xxxiv] che la normativa vigente tiene, invece, in considerazione quantomeno ai fini della motivazione del provvedimento[xxxv].

6. L’esigenza di evitare ricadute sulla collettività

Alla base delle sentenze che insistono sugli obblighi del curatore, che enfatizzano la consapevolezza, che equiparano l’inquinatore al proprietario, troviamo un timore comune, esplicitamente dichiarato: i costi per riparare l’inquinamento cagionato dal privato non possono ricadere sulla collettività. Dal che discende, nel caso in cui il responsabile sia ignoto o privo di risorse, l’asseritamente legittima imposizione dell’obbligo in capo a soggetti diversi la cui “colpa” consisterebbe, come detto, nell’aver acquistato o nell’aver detenuto il bene inquinato da altri (o nell’aver avviato spontaneamente la procedura di bonifica[xxxvi]).

A ben vedere, però, il timore non sembra fondato. Il sistema delineato dal legislatore nazionale prevede, infatti, che qualora il responsabile non provveda e non provvedano spontaneamente altri soggetti, la bonifica venga eseguita dal Comune che potrà rivalersi sul proprietario incolpevole nei limiti del valore del fondo una volta bonificato. In altre parole, la soluzione ancorata all’istituto dell’onere reale – e che la Corte di Giustizia ha giudicato non in contrasto con il diritto dell’Unione[xxxvii] – non prevede che i costi restino sulla collettività, ma mette il proprietario nella condizione di scegliere se mantenere la proprietà del bene bonificandolo o restare inerte e perderla, così da consentire alla collettività di recuperare in tutto o almeno in parte (c’è il limite del valore dell’immobile) le spese sostenute. Così dispone infatti l’art. 253 a mente del quale gli interventi di bonifica «costituiscono onere reale sui siti contaminati qualora effettuati d’ufficio dall’autorità competente ai sensi dell’articolo 250».

Del resto, le prime sentenze della giustizia amministrativa avevano perfettamente compreso che «per il proprietario estraneo all’inquinamento, l’esecuzione degli interventi di bonifica prescritti dall’amministrazione è un vero e proprio onere, finalizzato a rimuovere il pregiudizio costituito dall’onere reale e dal connesso privilegio immobiliare gravante sul bene: l’evizione del bene che il proprietario può di fatto subire a causa dell’inerzia dell’inquinatore non costituisce una sanzione per non aver bonificato il sito, ma una conseguenza dell’attività di ripristino ambientale realizzata dall’ente pubblico nell’interesse della collettività, tramite un meccanismo che presenta similitudini più con l’esproprio che con il risarcimento del danno ambientale»[xxxviii].

Ad ogni modo, l’eventualità che i costi per rimediare le conseguenze di un illecito altrui gravino sulla collettività, per quanto si tratti di un’ipotesi indesiderata, è in primo luogo del tutto normale negli Stati che vogliano, comunque, assicurare adeguati servizi e qualità della vita ai propri cittadini (basti pensare all’evasione fiscale e alle sue ricadute sulla collettività). Inoltre, restando all’ambito specifico che qui ci occupa, la “ricaduta” è espressamente prevista nella Parte IV sui rifiuti laddove precisa che i rifiuti illecitamente abbandonati sulla pubblica via si qualificano come urbani e in quanto tali debbono essere raccolti dal Comune, con costi che inevitabilmente, sotto forma di tassa, imposta o tariffa, finiranno poi per gravare su tutti i cittadini. Non ci sono purtroppo alternative, salvo ragionare di soluzioni che per evitare un esborso irrisorio a molti cittadini privi di colpe, lo pretendano enorme da uno solo ancorché egli sia, parimenti, privo di responsabilità.

7. Conclusioni

Come detto nel preambolo, la bonifica come risarcimento del danno all’ambiente esiste quantomeno dal 1986 ma, sino agli inizi del 2000, ci sono state poche applicazioni concrete. Lo start vero e proprio si è avuto nel marzo del 2001 con una regolamentazione un po’ aggiornata nel 2006, ma che necessita oggi, avuti presenti i punti di forza e di debolezza, di una profonda riscrittura.

Ciò dovrebbe, innanzitutto, definire in modo inequivocabile gli ambiti, delineando, ove possibile, una disciplina unitaria che contenga puntuali specificazioni in funzione della gravità del fatto, ad esempio, muovendo dall’abbandono di rifiuti inerti, a quello di rifiuti pericolosi, alla mera contaminazione (opportunamente rivedendo anche alcuni illogici valori limite) e infine al danno ambientale vero e proprio, prevedendo la possibilità di intervenire con soluzioni diverse volte a conseguire un effettivo beneficio per l’ambiente, anche su matrici diverse come prevede oggi l’azione di riparazione compensativa.

Meriterebbe maggiore considerazione e rilevanza l’accertamento del momento in cui la violazione è avvenuta, risultando certamente non equiparabili le consapevolezze e la “coscienza ambientale” di chi ha agito mezzo secolo fa, rispetto a chi non rispetta o non ha rispettato negli ultimi trent’anni la normativa. Di conseguenza si potrebbero prevedere, così come avviene in altri Paesi europei certamente non meno evoluti del nostro, discipline diverse per i fatti storici e per quelli recenti[xxxix].

Andrebbero poi considerate e disciplinate quelle situazioni particolari in cui i costi restano da subito sulla collettività, vale a dire la contaminazione di aree pubbliche o di aree private sottoposte a procedure concorsuali, in modo tale che Sindaci, curatori e liquidatori possano assolvere ai loro ruoli e funzioni avendo ben chiari gli obblighi di rilevanza ambientale che la legge pone a loro carico.

Andrebbe anche fatta chiarezza sulla rilevanza di questi temi in caso di cessioni immobiliari o di partecipazioni societarie; infatti, trasferire la proprietà non può mai essere uno strumento per liberarsi di un obbligo, salvo che ciò avvenga in modo lecito e con la piena consapevolezza degli effetti che esso produce.

Restando all’ambito dei rapporti tra privati anche il tema della responsabilità della capogruppo meriterebbe un’attenzione speciale; se di certo non è auspicabile che la controllante resti, sempre e comunque, del tutto indifferente rispetto alle iniziative assunte dalla controllata, sarebbe però parimenti auspicabile descrivere il perimetro e l’ambito della sfera di controllo e ingerenza che è lecito pretendere su alcuni temi di rilevanza ambientale.

Questi esempi di modifiche consentirebbero di intervenire in modo più efficace, ma soprattutto eliminerebbero le incertezze che certamente non giovano all’ambiente, ma portano alla paralisi (ad esempio, delle bonifiche avviate spontaneamente dal mero proprietario o delle transazioni commerciali), o che costringono a cercare altrove i rimedi (ad esempio, la derelizione in ambito fallimentare come riformulata nel codice della crisi), senza alcun concreto beneficio per l’ambiente. Anzi, il contrario.

Come noto, una Commissione di esperti qualificati sta lavorando per presentare al Governo una proposta di riscrittura del testo normativo[xl] ed è quindi ragionevole attendersi un netto miglioramento del quadro.

Ciò nonostante, la situazione resterà “in divenire” se, come ci si attende, verrà emanata la nuova direttiva sul monitoraggio del suolo e resilienza che contiene disposizioni specifiche proprio in relazione ai siti contaminati[xli].

È vero che al momento si tratta solo di una proposta della Commissione – che però il Consiglio ha già approvato con qualche modifica – ma sarebbe auspicabile, nel riscrivere la disciplina nazionale vigente, tenere presenti sin d’ora le linee essenziali di quella che molto probabilmente sarà la futura disciplina europea.

Tale proposta prevede, infatti, da un lato di mantenere la disciplina particolarmente rigorosa della direttiva 2004/35 per i casi di inquinamento che hanno cagionato un danno ambientale, dall’altro, per le situazioni che non si configurano come tali, di ragionare esclusivamente in termini di rischio, prescindendo da valori limite e valutando ogni situazione in modo a sé stante, mettendo sempre in rapporto i costi con i benefici, in puntuale applicazione del principio di proporzionalità espressamente richiamato, al pari del principio chi inquina paga e di quello di precauzione[xlii].

Inoltre, tra le proposte di emendamento suggerite dal Consiglio europeo in vista del prossimo confronto con il Parlamento, appaiono rilevanti quelle che pongono l’accento sull’accertamento della responsabilità, sulla necessità di una precisa gerarchia e sull’opportunità di distinguere fra le contaminazioni storiche e quelle più recenti che impongono invece un maggior rigore, così come sulla possibilità di accedere a forme di finanziamento a livello europeo[xliii].

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Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Giustizia Amministrativa) cliccare sul pdf allegato.

NOTE:

[i] Legge costituzionale n. 1/2022, sulla quale cfr.: su questa rivista, Butti, Costituzione, ambiente e future generazioni; si veda anche Butti, La tutela dell’ambiente nella costituzione, Ambiente&Sicurezza, n. 4/2022.

[ii] Corte costituzionale n. 85/2013.

[iii] Cfr. sull’argomento Butti, Non esistono diritti tiranni. Come orientarsi tra diritti in conflitto, Mimesis, 2023.

[iv]  Di recente, tuttavia, la Commissione Europea ha presentato una proposta di direttiva sul monitoraggio del suolo e sulla resilienza che contiene anche disposizioni specifiche e relativi allegati in materia di bonifica dei siti contaminati; sulla proposta si è espresso il Consiglio Ue in data 17 giugno 2024 in senso favorevole con alcuni emendamenti.

[v] Cfr. Falconi, L’orizzonte dell’Unione europea nel campo dei siti contaminati, in Ingegneria dell’ambiente, vol. 11, n. 2/2024, p. 71, che affronta in particolare gli sforzi in corso per giungere finalmente ad una disciplina europea comune sull’argomento.

[vi] Art. 253 D.lgs. n. 152/2006, a norma del quale il Comune può poi rivalersi sul proprietario, nei limiti del valore del fondo bonificato.

[vii] Consiglio di Stato, Adunanza plenaria n. 3/2021, sulla quale confronta Fabiani e Peres, La posizione del curatore e gli obblighi di ripristino ambientale, Il Fallimento (IPSOA), n. 5/2021.

[viii] Per un difetto di coordinamento fra normative succedutesi, il reato di omessa bonifica è oggi punito da due diverse disposizioni di legge, solo parzialmente differenti nei presupposti. Infatti, secondo l’art. 257 comma 1 del D.lgs. n. 152/2006, «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque cagiona l’inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio è punito con la pena dell’arresto da sei mesi a un anno o con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro, se non provvede alla bonifica in conformità al progetto approvato dall’autorità competente nell’ambito del procedimento di cui agli articoli 242 e seguenti. In caso di mancata effettuazione della comunicazione di cui all’articolo 242, il trasgressore è punito con la pena dell’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da mille euro a ventiseimila euro»; secondo invece l’art. 452-terdecies del Codice penale, introdotto dall’art. 1 comma 1 della legge n. 68/2015, «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, essendovi obbligato per legge, per ordine del giudice ovvero di un’autorità pubblica, non provvede alla bonifica, al ripristino o al recupero dello stato dei luoghi è punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni e con la multa da euro 20.000 a euro 80.000». Si veda su ciò Butti e Peres, Sul nuovo delitto di omessa bonifica ancora tanti i punti da chiarire, in Ambiente&Sicurezza, n. 22/2015.

[ix] Cfr. di recente: Cons. Stato, nn. 3897/2024 e 1110/2024, nonché Tar Roma, n. 5782/2024. In senso contrario v. però Tar Basilicata, n. 87/2024 e Tar Latina, n. 389/2024.

[x] Art. 245 comma 2: «Fatti salvi gli obblighi del responsabile della potenziale contaminazione di cui all’articolo 242, il proprietario o il gestore dell’area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento delle concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla regione, alla provincia ed al comune territorialmente competenti e attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all’articolo 242 (…)». Art. 253, co. 3 e 4 «Il privilegio e la ripetizione delle spese possono essere esercitati, nei confronti del proprietario del sito incolpevole dell’inquinamento o del pericolo di inquinamento, solo a seguito di provvedimento motivato dell’autorità competente che giustifichi, tra l’altro, l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità. 4. In ogni caso, il proprietario non responsabile dell’inquinamento può essere tenuto a rimborsare, sulla base di provvedimento motivato e con l’osservanza delle disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, le spese degli interventi adottati dall’autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi. Nel caso in cui il proprietario non responsabile dell’inquinamento abbia spontaneamente provveduto alla bonifica del sito inquinato, ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell’inquinamento per le spese sostenute e per l’eventuale maggior danno subito».

[xi] V. Peres e Butti, Bonifiche: novità importanti dalla Corte di Cassazione, Ambiente & Sicurezza, n. 4/2023

[xii] Infatti, mentre, secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, l’aver avviato spontaneamente la bonifica (ad esempio eseguendo la sola caratterizzazione) non fa sorgere l’obbligo di completarla (sent. n. 3077/2023), per il Consiglio di Stato, invece, tale obbligo sussisterebbe dovendo la fattispecie inquadrarsi nell’istituto della gestione di affari altrui (sent. n. 1110/2024, v. Peres in questa Rivista Obbligo di bonifica e gestione d’affari altrui).

[xiii] Cfr. Corte di Giustizia, 9 marzo 2010, C-378/08, Tar Lecce n. 204/2024, Cons. Stato n. 5863/2022 e Tar Piemonte n. 1575/2010

[xiv] «Le coordinate esegetiche disegnate dal legislatore europeo e recepite dal legislatore interno si basano su criteri estremamente precisi, chiari e rigorosi nell’attribuzione della responsabilità per danno ambientale …».

[xv] Cons. Stato, n. 1397/2023, che rigetta un motivo d’appello in quanto fondato «sull’erroneo presupposto che il danno ambientale di cui all’art.298 e ss. del codice dell’ambiente e contaminazione di cui agli artt. 239 e ss. del medesimo codice, siano concetti sovrapponibili. La nozione estesa di deterioramento riferibile al primo, infatti, comprende, ma non si esaurisce in, quella di “evento potenzialmente in grado di contaminare il sito”, di cui all’art.242 del D.Lgs. n. 152 del 2006 citato, dal che consegue che non tutta la disciplina in materia di danno ambientale si estende alla diversa tematica delle bonifiche; voler diversamente opinare, nel senso di una totale sovrapponibilità tra i due istituti, significherebbe accettare che, con quella semplice abrogazione della lett. i) dell’art.303 si sarebbe prodotta un’implicita abrogazione dell’intero Titolo V della Parte IV del codice».

[xvi] Art. 18, comma 8, legge n. 349/1986: «Il giudice, nella sentenza di condanna, dispone, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile».

[xvii] Per una approfondita ricostruzione normativa si veda Cassazione penale n. 1997/2020. A ben vedere, però, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha fatto risalire l’obbligo sino all’art. 2043 del codice civile, configurando il danno all’ambiente sempre come ipotesi di fatto illecito extracontrattuale (Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza n. 10/2019). Va, però, dato conto di quanto precisato dalla Cassazione, secondo la quale, se per affermare l’obbligo di tutela dell’ambiente anteriore al D.Lgs. n. 22/1997 (cosiddetto decreto “Ronchi”) viene invocato l’art. 2043, codice civile, si esce dal paradigma della responsabilità oggettiva ex lege introdotta con il richiamato decreto, non sostituibile con dati normativi antecedenti e non suscettibile di applicazione retroattiva (Cassazione civile, sez. III, n. 36651/2021, recentemente richiamata dalla medesima sezione nell’ordinanza n. 6396/2023).

[xviii] A norma dell’art. 303, lettera g), la nuova tutela prevista dal D.Lgs. n. 152/2006 poteva e può essere fatta valere soltanto in relazione a danni causati da eventi, incidenti, emissioni verificatisi successivamente alla entrata in vigore del decreto. Tre anni dopo è intervenuta una modifica all. art. 303 per effetto della quale le nuove forme di risarcimento (le tre misure) dovevano, da quel momento, essere applicate anche alle richieste relative a eventi occorsi prima del 2006. In altri termini, il legislatore del 2009, da un lato, ha precisato che, per i fatti ante 2006, le domande di risarcimento proposte o da proporre poggiavano sull’art. 18, legge n. 349/1986, mentre, dall’altro, ha consentito, con quelle domande, di invocare l’applicazione delle nuove misure risarcitorie. La norma modificata del 2009 è stata abrogata dalla legge n. 97/2013 che ha modificato l’art. 311 sostituendo il comma 3, confermando la scelta del 2009, ma introducendo qualche differenza. Entrambi gli interventi normativi hanno sancito l’effetto retroattivo del D.Lgs. n. 152/2006 quanto alle misure di riparazione, ma non per i presupposti dell’azione, né per lo strumento con cui esercitarla (questi ultimi, infatti, sono rimasti: l’azione civile ex art. 18, legge n. 349/1986 e/o ex art. 2043, codice civile per i fatti ante 2006 e l’azione civile o l’ordinanza ex parte VI, D.Lgs. n. 152/2006 per quelli post 2006 cfr. Corte di Cassazione civile n. 8662/2017 e n. 8468/2019).

[xix] Nelle linee guida Snpa 7 settembre 2021, n. 33, segnatamente nelle considerazioni conclusive, viene dato atto del difetto di coordinamento tra le due discipline in questi termini: «La connessione tra le due procedure è affrontata nell’art. 298-bis del Dlgs 152/2006, laddove si specifica che gli interventi di ripristino dal danno ambientale relativi alla matrice suolo ed acque sotterranee, ancorché definiti secondo i criteri degli allegati alla parte sesta, restano disciplinati dalla parte quarta. Lo stesso articolo, tuttavia, non definisce le modalità di coordinamento tra la procedura di bonifica e la procedura di riparazione del danno ambientale causato dallo stesso evento, atteso che le due procedure hanno iter amministrativi diversi e, salvo il caso dei SIN, diverse autorità competenti».

[xx] Sovente si è affermato che il soggetto obbligato è tenuto a intervenire anche se la condotta che ha cagionato l’inquinamento è lontana nel tempo (Consiglio di Stato n. 2195/2020).

[xxi] Lo ha affermato il Consiglio di Stato nella sopra richiamata sentenza n. 1397/2023, nel sottolineare la differenza tra la disciplina della bonifica e quella sul risarcimento del danno ambientale.

[xxii] Gli artt. 242 e 244 del D.Lgs. n. 152/2006 infatti, semplicemente impongono al responsabile dell’inquinamento di attivare il procedimento di bonifica, senza tuttavia specificare il titolo di imputazione della responsabilità (se di carattere oggettivo o soggettivo).

[xxiii] Ovviamente, la coincidenza degli obiettivi di tutela non comporta che qualunque intervento di bonifica elimini, solo perché tale, un eventuale danno ambientale. Anche dopo la bonifica, può, infatti, permanere un danno residuo tutte le volte in cui non sia stato possibile ritornare pienamente allo status quo. Lo stesso vale quando si parla di perdite temporanee per i casi in cui, nel tempo necessario per arrivare al pieno ripristino, «le risorse e/o i servizi naturali danneggiati non possono svolgere le loro funzioni ecologiche o fornire i servizi ad altre risorse naturali o al pubblico fino a che le misure primarie o complementari non abbiano avuto effetto» [lettera d), punto 1, allegato 3 alla parte VI, D.Lgs. n. 152/2006]. Anche in queste fattispecie, sebbene la riparazione sia stata piena, una quota di danno ambientale – le perdite temporanee – resta, comunque, da risarcire separatamente. Sulle perdite temporanee e sull’abrogazione della legge n. 349/1986 si è pronunciata anche la corte di Cassazione penale, sez. III, con la sentenza n. 16575/2007: «A giudizio della Corte, le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza di legittimità in tema di risarcimento per danno ambientale, in particolare il superamento della funzione compensativa del risarcimento, vanno ribadite anche dopo l’entrata in vigore delle nuove disposizioni in materia ambientale, di cui al decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, che ha espressamente abrogato l’art. 18 della legge 394 del 1986 (istitutiva del Ministero dell’Ambiente). In particolare, la Corte ha ritenuto che integri il danno ambientale risarcibile anche il danno derivante medio tempore dalla mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta, ovvero le cd. perdite provvisorie, già previste quali componenti del danno risarcibile dalla Direttiva 2004/35/CE».

[xxiv] Ad esempio, secondo la Corte di Cassazione civile, sez. III, n. 1573/2019, l’azione di rivalsa ex art. 253, D.Lgs. n. 152/2006 avrebbe una logica puramente indennitaria che, di conseguenza, la sottrae alla responsabilità da fatto illecito extracontrattuale; secondo questa pronuncia, l’obbligo di bonifica si configurerebbe, dunque, come «responsabilità per pura causalità non riconducibile neanche alla responsabilità civile di tipo oggettivo», trattandosi, invero, non di una responsabilità per danno, ma di una responsabilità dell’evento, dove rileva esclusivamente la causalità materiale (vale a dire la relazione tra condotta ed evento) e non quella giuridica (relazione tra evento e conseguenze dannose).

[xxv] Art. 192 comma 3 « Fatta salva l’applicazione della sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all’esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate» (l’intervento del Sindaco nei confronti dei “soggetti obbligati” presuppone, dunque, che siano individuati gli autori materiali e/o che il proprietario sia in colpa).

[xxvi] Tra tutte, si veda l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 3/2021. Oppure, più di recente, Tar Veneto n. 1903/2024: «Se quindi sussiste la responsabilità degli amministratori persone fisiche rispetto all’abbandono di rifiuti, non si ravvisano ragioni ostative a ritenere sussistente un’analoga responsabilità nel caso di contaminazione delle matrici ambientali, al cui verificarsi trovano applicazione le norme del Titolo Quinto della Parte Quarta in materia di bonifica».

[xxvii] Le prime pronunce avevano escluso obblighi per il proprietario non responsabile (fatta eccezione per la comunicazione e per le misure di prevenzione o Mipre). L’orientamento si era consolidatocon la precisazione, più volte ribadita, che l’assenza di obbligo riguarda non solo la bonifica in senso stretto, ma anche le misure di messa in sicurezza d’emergenza o Mise e il piano della caratterizzazione. Successivamente però alcune sentenze hanno aperto la strada ad un altro orientamento ponendo a carico del proprietario incolpevole anche le Mise qualificandole come misure di correzione dei danni e pertanto da far rientrare nel genus delle precauzioni. Ad oggi il contrasto permane poiché si rinvengono sentenze anche recenti in un senso e nell’altro (sull’obbligo di sole Mipre di recente v. Tar Basilicata, n. 87/2024 e Tar Latina, n. 389/2024; sull’obbligo anche di Mise di recente v. Cons. Stato, nn. 3897/2024 e 5782/2024, nonché Tar Roma, n. 5782/2024).

[xxviii] V. nota x, artt. 245, co. 2, e 253, co. 3 e 4.

[xxix] V. la sentenza delle Sezioni Unite civili n. 3077/2023 che ha confermato come il principio “chi inquina paga” e la normativa ambientale non giustifichino alcun obbligo diretto ed esplicito del proprietario non responsabile ad adottare interventi di Mise, né essi possono genericamente considerarsi misure di precauzione, e ciò anche in considerazione del fatto che le Mise non possono essere in alcun modo equiparate alle Mipre. Inoltre – prosegue la sentenza – la caratterizzazione spontaneamente eseguita dal proprietario non è fonte di un obbligo legale a proseguire con Mise e bonifica.

[xxx] La sentenza in commento precisa infatti: «d) l’ignoranza delle condizioni oggettive di inquinamento in cui versa il bene non esclude la responsabilità di chi ne è successivamente divenuto proprietario

[xxxi] Cfr., per ulteriori riflessioni sul punto, Fabiani e Peres, La posizione del curatore e gli obblighi di ripristino ambientale, Il Fallimento (IPSOA), n. 5/2021, in particolare alle pp. 620 e 621. Sul punto questi autori concludono (p. 621) come segue: «Spostando l’attenzione dai rifiuti all’immobile (superando dunque il dato testuale) e dando rilievo alla responsabilità di chi ha un titolo giuridico che gli consente e impone di amministrare un patrimonio affetto da passività ambientali, l’Adunanza Plenaria attribuisce al curatore gli stessi oneri e gli stessi obblighi ambientali che gravavano sull’imprenditore poi fallito quasi si trattasse di un subentro a seguito di cessione di ramo d’azienda o prodotto per effetto di una fusione per incorporazione ed afferma che rispetto ai rifiuti prodotti dal fallito “il curatore fallimentare è perciò senz’altro obbligato a metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero».

[xxxii] Sentenza 9 marzo 2010, causa C-378/08, che richiedeva, per la responsabilità del proprietario incolpevole, una presunzione “forte” sul nesso causale, desumibile dalla localizzazione dell’impianto e dalle caratteristiche degli inquinanti: «La direttiva 2004/35 non osta a una normativa nazionale che consente all’autorità competente, in sede di esecuzione della citata direttiva, di presumere l’esistenza di un nesso di causalità, anche nell’ipotesi di inquinamento a carattere diffuso, tra determinati operatori e un inquinamento accertato, e ciò in base alla vicinanza dei loro impianti alla zona inquinata. Tuttavia, conformemente al principio «chi inquina paga», per poter presumere secondo tale modalità l’esistenza di un siffatto nesso di causalità detta autorità deve disporre di indizi plausibili in grado di dare fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività».

[xxxiii] Sulla quale si rinvia a Fabiani e Peres, La posizione del curatore e gli obblighi di ripristino ambientale, Il Fallimento (IPSOA), n. 5/2021.

[xxxiv] «La responsabilità dell’autore materiale del fatto originario generatore del danno ambientale non costituisce un’esimente, né elide, tantomeno in via successiva, la responsabilità di coloro che divengono proprietari del bene o che vantano diritti o relazioni di fatto col bene medesimo».

[xxxv] V. nota x artt. 245, co. 2, e 253, co. 3 e 4.

[xxxvi] Alcune sentenze hanno affermato, infatti, che chi avvia la bonifica pur non essendo obbligato (il caso frequente del proprietario incolpevole) sarebbe tenuto a portarla a termine e ciò in quanto la sua iniziativa andrebbe configurata come gestione di affari altrui (v. in questa Rivista Peres Obbligo di bonifica e gestione d’affari altrui).

[xxxvii] La Corte di Giustizia Ue, con la sentenza 4 marzo 2015, ha confermato che il proprietario non responsabile non ha l’obbligo di eseguire la bonifica, atteso, infatti, che «la direttiva 2004/35 deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi».

[xxxviii] Tar Piemonte sentenza n. 2928/2008. Sull’onere reale si vedano anche le sentenze del Tar Liguria n. 56/2018 e della Cassazione civile, sez. II, n. 31005/2017 sul subentro o del Consiglio di Stato (n. 2533/2016) su un caso particolare nel quale il Comune chiedeva al demanio statale il rimborso delle spese spontaneamente sostenute per bonificare un’area di proprietà pubblica, ma in concessione all’ente locale.

[xxxix] Butti, Toniolo, Campigotto, The impact of EU legislation, principles and case law on the national contaminated land regimes, Filodiritto, 2019.

[xl] D.m. 7 novembre 2023, n. 364 e successivo D.m. 25 gennaio 2024, n. 36.

[xli] V. nota iv.

[xlii] «La gestione dei siti potenzialmente contaminati e dei siti contaminati dovrebbe rispettare il principio “chi inquina paga”, il principio di precauzione e quello di proporzionalità».

[xliii] «Gli Stati membri dovrebbero cercare di individuare il responsabile dell’inquinamento e stabilire una gerarchia o una catena decisionale di responsabilità al fine di determinare chi debba sostenere i costi dell’analisi del suolo, della valutazione del rischio e delle misure di riduzione del rischio. Possono decidere di operare un’ulteriore distinzione tra i siti storicamente contaminati e quelli recentemente contaminati e di applicare un approccio più rigoroso per la contaminazione avvenuta dopo una certa data di riferimento. Nel caso di siti contaminati per i quali nessuna parte responsabile può essere individuata o chiamata a rispondere, gli Stati membri dovrebbero poter utilizzare strumenti finanziari e programmi finanziari dell’UE per adempiere agli obblighi in materia di analisi e bonifica del suolo.». Vedi anche le modifiche del Consiglio all’art. 12 paragrafo 1 della proposta di direttiva.

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