La normativa europea sul clima: una regolazione strategica o un passo troppo timido?

26 Feb 2022 | green new deal, focus, climate change, articoli, contributi, in evidenza 4

di Dario Bevilacqua

Indice

  1. Introduzione. 1
  2. Il Regolamento n. 1119/2021. 2
  3. Il ruolo di direzione e orientamento svolto dall’UE nell’attuazione degli Accordi di Parigi 4
  4. L’approccio strategico dell’UE: una governance “quasi” vincolante. 4
  5. La “regulation by consultation” del Comitato sul clima. 5
  6. La partecipazione pubblica. 6
  7. Conclusioni 7

1. Introduzione

Il Regolamento (UE) 2021/1119, detto anche “Normativa europea sul clima”, si inserisce nel quadro di riforme legislative per l’attuazione del Green Deal europeo (GDE)[i] e “stabilisce l’obiettivo vincolante della neutralità climatica nell’Unione entro il 2050” (art. 1, par. 2). Si tratta di un testo legislativo direttamente applicabile, vista la scelta del regolamento, che presenta almeno quattro elementi interessanti e con risvolti problematici, che saranno oggetto di indagine nella pagine seguenti.

In primo luogo, come si legge già al primo considerando e poi all’art. 1 del Regolamento, esso mira a dare attuazione all’Accordo di Parigi sul clima[ii] che pur avendo natura vincolante ha scarsa capacità di enforcement[iii]. Di qui, l’Ue intraprende una strategia di governance ben definita, collocandosi in posizione di raccordo tra finalità e obiettivi globali e loro attuazione in ambito domestico. Se, con riferimento ai primi, la Comunità internazionale tende a fissare i traguardi comuni, sono poi gli Stati a darvi attuazione. Nel mezzo, l’Ue si incarica di disegnare la linea, definendo l’orientamento e la strategia, individuando la cornice procedurale, indirizzando gli Stati membri e assicurando il monitoraggio periodico degli strumenti posti in essere da questi ultimi.

In secondo luogo e in collegamento con il punto precedente l’Ue dà avvio a un sistema di regolazione basato su una strategia comune e su una valutazione periodica delle azioni intraprese dagli Stati. Il modello non comporta obblighi definiti e specifici per le autorità domestiche, ma pone quest’ultime in una situazione di soggezione, perché l’orientamento da seguire è stabilito dall’Ue e gli Stati devono comunque fornire un riscontro e adottare i piani di intervento, nonché produrre adeguata motivazione se non seguono le direttive dell’Unione.

In terzo luogo, il Regolamento istituisce il Comitato consultivo scientifico europeo sui cambiamenti climatici. La norma dà così vita a uno strumento di regulation by consultation: fondandosi sul decisivo contributo degli esperti, essa mira a incrementare la neutralità e l’oggettività delle decisioni amministrative che si basano su valutazioni indipendenti e di natura tecnico-scientifica invece che sull’orientamento politico dominante. Con vantaggi e inconvenienti.

Infine, un altro approccio contenuto nel Reg. n. 1119 è quello basato sul dialogo con gli interessati e sulla partecipazione pubblica, con il diretto coinvolgimento di imprese, associazioni e cittadini, in un’ottica di trasparenza, apertura al pluralismo e accountability procedurale.

Come si vedrà, la strada scelta dal legislatore europeo presenta sia elementi positivi, sia punti deboli, rischiando di non essere in grado di incidere abbastanza nel percorso di avvicinamento alla neutralità climatica del continente.

2. Il Regolamento n. 1119/2021

I primi due articoli del Regolamento in esame ne definiscono l’obiettivo, l’oggetto e l’ambito di applicazione.

A tal riguardo, occorre in primo luogo evidenziare che l’obiettivo primario della nuova normativa è l’azzeramento del contributo dell’area europea al surriscaldamento climatico entro il 2050. Questa finalità si inserisce all’interno di un disegno più ampio, definito dall’accordo di Parigi ed esplicitamente richiamato all’art. 1, ossia mantenere “l’aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali e proseguendo l’azione volta a limitare tale aumento a 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali”.

In secondo luogo e in collegamento con il punto precedente, il medesimo art. 1 istituisce un quadro regolatorio finalizzato alla riduzione irreversibile e graduale delle emissioni di gas a effetto serra, all’interno di un sistema di governance più ampio, che oltre a essere collegato alle diverse discipline settoriali che compongono il GDE[iv], è incardinato nel contesto normativo internazionale e dell’Unione per conseguire l’obiettivo della riduzione di tali emissioni fissato per il 2030.

In terzo luogo, l’art. 2, par. 2 del Regolamento prevede che siano le istituzioni dell’Unione e degli Stati membri a conseguire l’obiettivo delineato “tenendo conto dell’importanza di promuovere sia l’equità che la solidarietà tra gli Stati membri nonché l’efficienza in termini di costi nel conseguimento di tale obiettivo”. A tali fini, sono chiamate dalla medesima norma ad adottare “le misure necessarie”, rispettivamente, a livello unionale e nazionale.

In tal caso il legislatore europeo non specifica quali saranno gli interventi regolatori da realizzare, affidando alle amministrazioni ampi poteri discrezionali e interpretativi, giacché la valutazione della necessarietà delle misure dipenderà da una serie di elementi, anche fattuali ed estemporanei. Benché al momento non si possa dire quali politiche pubbliche verranno poste in essere, quali saranno i compiti assegnati, né i poteri e le modalità con cui questi saranno attribuiti per raggiungere l’obiettivo della neutralità climatica, il Reg. 1119 individua due aspetti importanti di tali azioni regolatorie: da un lato specifica che queste saranno sia unionali, sia nazionali, ammettendo quindi due momenti distinti nelle politiche di contrasto al surriscaldamento climatico; dall’altro, definisce il quadro valoriale entro cui esse dovranno essere attuate, che richiama il concetto e la ratio dello sviluppo sostenibile giacché le amministrazioni, oltre alle prerogative ambientali, dovranno tener conto “delle finalità sociali e dell’efficienza in termini di costi”.

L’art. 5 stabilisce che sia la Commissione a decidere la strategia dell’Unione sull’adattamento ai cambiamenti climatici in linea con l’accordo di Parigi, affidando a quest’ultima un ruolo di guida, direzione e orientamento (par. 2). Inoltre, a loro volta, “gli Stati membri adottano e attuano strategie e piani nazionali di adattamento, tenendo conto della strategia dell’Unione sull’adattamento ai cambiamenti climatici di cui al paragrafo 2 del presente articolo e fondati su analisi rigorose in materia di cambiamenti climatici e di vulnerabilità, sulle valutazioni dei progressi compiuti e sugli indicatori, e basandosi sulle migliori e più recenti evidenze scientifiche disponibili” (par. 4). Gli Stati sono quindi liberi di scegliere le misure che ritengono più adatte, ma sempre entro la cornice della strategia stabilita a livello sovranazionale e con i limiti delle valutazioni tecnico-scientifiche su cui basarsi.

La Commissione valuta periodicamente sia le politiche dell’Unione (art. 6), sia quelle nazionali (art. 7). Se quest’ultime non sono coerenti con il conseguimento dell’obiettivo di neutralità climatica o non assicurano progressi in materia di adattamento di cui all’articolo 5, può formulare raccomandazioni che rende disponibili al pubblico. Gli Stati sono chiamati a dare spiegazioni in merito a come intendono “tenere in debita considerazione” le raccomandazioni (art. 7, par. 3, lett. a)) e, se non vi danno seguito, devono motivare tale scelta (art. 7, par. 3, lett. b)). L’intervento concreto per ridurre le emissioni climalteranti non viene definito dal Regolamento n. 1119, che delega tale potere decisionale a Commissione e Stati membri, predisponendo un sistema di governance multilivello che non vincola le autorità chiamate a darvi attuazione, tenute solo a motivare eventuali scelte divergenti da quelle dell’Unione.

L’art. 3 del Reg. n. 1119 descrive e definisce le caratteristiche, le funzioni e le finalità del “Comitato consultivo scientifico europeo sui cambiamenti climatici”. Istituito dall’art. 12 del medesimo testo legislativo mediante l’introduzione dell’art. 10-bis all’interno del Regolamento (CE) n. 401/2009[v], il Comitato svolge attività di analisi e consulenza scientifica sul clima, con specifico riferimento alle misure esistenti e a quelle proposte, di condivisione e diffusione di informazioni, di identificazione delle azioni e opportunità necessarie per conseguire gli obiettivi climatici dell’Ue, di sensibilizzazione e sviluppo della ricerca. Si tratta quindi di un’attività consultiva, con un ruolo di impulso che può avere efficacia regolatoria indiretta: il Comitato non dispone di poteri attuativi o di intervento, ma con la sua attività scientifica incide sul merito delle decisioni che l’Unione e gli stati sono chiamati a prendere in tema di mitigazione climatica e di emissioni inquinanti. Il quarto paragrafo dello stesso art. 3, inoltre, invita gli Stati membri a creare un sistema consultivo analogo e speculare a quello europeo, istituendo organi nazionali con le medesime funzioni e caratteristiche.

Il primo periodo dell’art. 9 del Regolamento n. 2021/1119 recita: “la Commissione coinvolge tutte le componenti sociali per offrire loro la possibilità, e investirle della responsabilità, di impegnarsi a favore di una transizione giusta ed equa sul piano sociale verso una società climaticamente neutra e resiliente al clima”. Il resto dell’articolo individua i possibili partecipanti (“parti sociali, il mondo accademico, la comunità imprenditoriale, i cittadini e la società civile”) da coinvolgere nei vari livelli di governance (“nazionale, regionale e locale”) e le finalità (“scambiare le migliori pratiche e individuare le azioni che contribuiscono a conseguire gli obiettivi del presente regolamento”), ma anche in questo caso non entra nel dettaglio degli strumenti o delle regole per consentire, disciplinare e delimitare il momento partecipativo, affidandoli alla Commissione, chiamata a facilitare “processi inclusivi e accessibili”.

Nell’ultima parte del primo paragrafo, tuttavia, la stessa norma prevede che “la Commissione [possa] avvalersi delle consultazioni pubbliche e dei dialoghi multilivello sul clima e sull’energia istituiti dagli Stati membri conformemente agli articoli 10 e 11 del Regolamento (UE) 2018/1999”[vi]. Anche il secondo paragrafo si muove in tal senso, stabilendo che la Commissione utilizzi tutti gli strumenti adeguati per promuovere partecipazione, dialogo e diffusione di informazioni.

3. Il ruolo di direzione e orientamento svolto dall’UE nell’attuazione degli Accordi di Parigi

Il Regolamento 1119 delinea una cornice regolatoria generale – in verità piuttosto vaga – che indica l’obiettivo della regolazione, individua gli attori coinvolti per la sua attuazione, detta la linea da seguire e coincide e va oltre[vii] quanto stabilito in ambito internazionale con l’accordo di Parigi. Il testo in commento non dispone per l’immediato, ma ha uno sguardo programmatico e strategico. L’analisi di questo primo aspetto della normativa sul clima presenta l’Unione europea come un soggetto intermedio all’interno dell’ordinamento extra-nazionale, con compiti di indirizzo, definizione delle politiche e programmazione, e svolgente una triplice attività.

In primo luogo, l’Ue prende parte alle negoziazioni e alle decisioni internazionali contribuendo a stabilire gli obiettivi e le politiche comuni.

In secondo luogo, svolge un ruolo da mediatore perché si fa carico di dare attuazione alle decisioni internazionali, traducendole in programmi, strategie, linee di azione comuni per gli Stati membri, dai quali riceve a sua volta sollecitazioni per i negoziati a livello extra-Ue.

Infine, dà attuazione alle politiche stabilite a livello globale, svolgendo compiti esecutivi sia diretti – mediante il proprio apparato amministrativo – sia indiretti, tramite quello degli Stati.

Quanto a tale ultimo aspetto, nondimeno, si rileva come il momento attuativo delle politiche condivise sia in verità piuttosto debole se si guarda alle istituzioni europee: al di là della scelta del Regolamento come atto legislativo – che come è noto ha forza auto-applicativa ed effetti vincolanti – e a dispetto del fatto che lo stesso preveda una serie di azioni di competenza dell’Unione, si registra una certa timidezza nella definizione delle misure per il contrasto all’aumento climatico, che non sono individuate nello specifico e che vengono affidate alla Commissione e agli Stati membri. In questo senso l’approccio descritto conferma che il Green Deal europeo opera ancora come un nuovo programma politico e teleologico che modifica radicalmente le priorità e le missioni dell’Unione, ma senza fornire strumenti legali o istituzionali per rendere effettivo tale disegno[viii].

4. L’approccio strategico dell’UE: una governance “quasi” vincolante

Il modello di governance descritto negli artt. 5 – 6 del Regolamento in parola disegna un sistema di regolazione extranazionale che si articola e si organizza su più livelli. Se a monte si individuano le generiche finalità dettate dal diritto internazionale e a valle le normali competenze esecutive affidate alle amministrazioni nazionali o subnazionali, nel mezzo si registra un importante ruolo di guida e indirizzo svolto dall’Unione europea. Questo momento della catena di governo è peculiare perché non è meramente politico e direttivo, individuando anche una strategia, delle procedure, delle competenze; e tuttavia non è nemmeno puramente giuridico-amministrativo perché non definisce le misure da adottare. A tal riguardo, il testo del secondo paragrafo dell’art. 5 del Regolamento n. 1119 appare emblematico, giacché affida alla Commissione il compito di adottare e riesaminare periodicamente “una strategia dell’Unione sull’adattamento ai cambiamenti climatici in linea con l’accordo di Parigi” (corsivo aggiunto).

L’Ue si incarica quindi della strategia e della programmazione, affidando tale compito alla Commissione e delegando la regolazione concreta e di dettaglio agli Stati, per poi valutarne l’operato periodicamente. Ma in tale verifica, come visto, gli stati possono discostarsi dalle raccomandazioni sovranazionali, purché lo motivino. Ne consegue una certa debolezza dell’impianto regolatorio definito, sotto il profilo della vincolatività e dell’armonizzazione. La fase del monitoraggio e del controllo si basa su una possibile dialettica tra Commissione e Stati membri, traducendosi in forme di azione basate sulla moral suasion e garantendo quindi un’accountability verticale solamente reputazionale[ix], priva di strumenti sanzionatori efficaci e che lascia un ampio margine di manovra agli stessi Stati.

L’approccio descritto può essere letto in due modi. Secondo una visione più fiduciosa potrebbe essere considerato come una scelta strategica studiata e voluta, spiegabile con i recenti fallimenti delle politiche top-down – che, aspirando a essere vincolanti, non sono riuscite a costringere gli Stati a rispettare i parametri globali per la tutela dell’ambiente. Di qui, il legislatore europeo ha propeso per un modello dialogante e non vincolante, che responsabilizza gli attori dando loro un ruolo attivo, esortando e facilitando – e non imponendo – l’adozione di politiche sul clima.

Viceversa, secondo un’altra interpretazione, più critica, la scelta dell’Ue può essere vista come il portato di una mancanza di coraggio o di volontà: se da un lato l’Ue fa un passo in avanti rispetto al modello internazionale, che sull’ambiente solo di rado è riuscito a superare i confini nazionali, incontrando la resistenza degli Stati nell’attuazione di politiche comuni, dall’altro il passo è corto, perché la stessa Unione europea, con le sue misure condizionali, il coordinamento e la definizione di basi comuni si limita a programmare, a specificare gli obiettivi e a richiedere misure di azione, senza però individuare una regolazione concreta e le attività da adottare e senza stabilire meccanismi giuridici che vincolino gli Stati nazionali. I quali, a loro volta, potrebbero essere portati a scegliere politiche poco coraggiose, innescando fenomeni di race to the bottom della regolazione.

In ogni caso, si ha conferma che a oggi il GND non intende (o non riesce ad) andare oltre la fase della politica strategico-programmatoria: anche nella norma sul clima lo stesso GND si presenta come un progetto, un approccio, da cui derivano interventi regolatori, ma non ancora uno schema legislativo e amministrativo avanzato e sviluppato.

5. La“regulation by consultation” del Comitato sul clima

Il sistema decisionale basato sui pareri tecnico-scientifici che si prevede siano rilasciati dal Comitato sul clima istituito con il Regolamento n. 1119 risponde alla necessità di ricorrere alle valutazioni tecnico scientifiche per adottare decisioni il più possibili oggettive, in grado di gestire la complessità del settore in esame e valevoli per tutta l’area europea, indipendentemente dalla convenienza economica contingente o dall’orientamento politico dei vari Paesi. Questo approccio, nondimeno, presenta sia vantaggi sia rischi.

Da un lato, le valutazioni tecniche hanno la funzione di migliorare l’efficienza e di neutralizzare la regolazione pubblica, scongiurando eventuali forme di arbitrio e rendendo oggettivo il momento istruttorio delle attività amministrative[x].

Dall’altro, poiché tale fase ha carattere tecnico, essa può condizionare il momento propriamente decisorio, riducendone la portata discrezionale e determinandone il contenuto: i pareri scientifici acquisiscono un peso regolatorio notevole, incidendo sulle scelte delle amministrazioni. Di qui, poiché le stesse valutazioni degli esperti possono non essere affidabili – se la scienza è incerta, il tema controverso o il giudizio è condizionato da pressioni di varia natura – esse possono indurre i decisori ad adottare misure non adatte a perseguire l’interesse pubblico.

L’aspetto maggiormente problematico del modello decisionale incentrato sulla tecnica riguarda il cortocircuito che si può verificare tutte le volte in cui la necessità di garantire l’indipendenza scientifica degli esperti li esclude da meccanismi di controllo, contestazione e responsabilità anche quando i risultati degli studi non sono affidabili e oggettivi. In caso di incertezza scientifica o per scongiurare forme di pressione esterne è necessario che i pareri degli esperti non siano esenti da limiti o verifiche, ancorché meramente formali e di garanzia: se le valutazioni tecnico-scientifiche non sono dotate dei giusti “anticorpi procedurali”, il peso decisionale a queste attribuite rischia di investire anche le valutazioni discrezionali delle amministrazioni, producendo regolazioni potenzialmente arbitrarie e inefficaci, oltre che irresponsabili. Di qui, giacché la predisposizione dei pareri scientifici deve comunque godere di una sua legittimazione, questa è generalmente ricercata nelle garanzie giuridiche e procedurali: di trasparenza, indipendenza, elevata expertise, buon andamento e tutela da condizionamenti esterni.

Tuttavia, sul punto il Reg. n. 1119 adotta poche e insufficienti disposizioni di natura generale: la vaghezza con cui sono stabiliti i compiti del Comitato non permette di dire se essi avranno un peso così decisivo nel condizionare le misure che l’Ue e gli Stati sono chiamati ad adottare in tema di contenimento di emissioni. In attesa di ulteriori norme che specifichino gli assetti organizzativi e le modalità operative del Comitato consultivo, esso costituisce un importante passo in avanti e una scelta ben precisa nelle politiche pubbliche per la mitigazione climatica. Nondimeno, al momento il giudizio su tale aspetto non può essere definitivo: è di fondamentale importanza comprendere come lo stesso sarà organizzato e reso operativo e quali saranno le garanzie fornite in tema di legittimazione formale e procedurale. Intanto si confermano le perplessità in merito all’eccessiva prudenza dell’Ue, che anche su questo tema rinvia a un successivo momento la fase di attuazione concreta delle policy individuate.

6. La partecipazione pubblica

Un ulteriore aspetto importante del Regolamento n. 1119 riguarda il peso affidato alla partecipazione pubblica nell’adozione delle misure di contrasto al surriscaldamento climatico. Sebbene anche in tal caso la scelta degli strumenti e delle regole per coinvolgere cittadini, imprese o associazioni nelle politiche sul clima sia effettuata con un rinvio ad altre norme e posticipata alla fase attuativa della disciplina, la centralità del momento partecipativo appare chiara e inequivoca. Questo aspetto conferma l’importanza di una governance del settore ambientale, con riferimento al Green Deal in particolare, che coinvolga le collettività e non sia meramente istituzionale e calata dall’alto.

I privati, infatti, sono chiamati a partecipare attivamente, a divenire attori del cambiamento e co-regolatori, ad adeguare i propri comportamenti per rendere possibile la transizione ecologica. Specularmente, le pubbliche amministrazioni devono adattare il proprio sistema di intervento, sia sotto il profilo delle attribuzioni dei poteri e dell’organizzazione, sia nelle procedure e modalità di azione.

Si ha la conferma che il problema delle emissioni di gas serra non va affrontato solo a livello istituzionale, giacché in questo modo non si ottiene la necessaria fiducia di coloro che delle emissioni sono responsabili per le azioni che pongono in essere ogni giorno: singoli individui, famiglie, aziende, imprese. Proprio l’Accordo di Parigi sul clima segue una logica analoga, perché prevedendo meccanismi attuativi volontari per ottenere gli obiettivi di riduzione del cambiamento climatico, spinge per soluzioni dal basso, ma aggregate a livello internazionale[xi].

In questo disegno – qui riproposto dalla normativa sul clima, sebbene in termini generici – risiede una sfida importante per la regolazione scaturente dal GND, che deve essere in grado sia di stabilire principi, norme e istituzioni comuni e sovranazionali, sia di coinvolgere, attivare, consultare e includere attori non statali, collettivi e individuali, con un decentramento parziale del potere decisionale e delle conseguenti azioni attuative. Il coinvolgimento dei privati nelle azioni per la riduzione delle emissioni inquinanti avviene sia in una fase attiva, relativa al momento propositivo e attuativo, sia vedendo questi ultimi come interlocutori, con funzioni di controllo diffuso e per la capacità di valutare e condizionare le scelte dei regolatori[xii]. Tuttavia, anche per tale aspetto, il Reg. n. 1119 non entra nel dettaglio delle modalità e dei limiti con cui gestire il momento partecipativo.

7. Conclusioni

In conclusione, la norma europea sul clima presenta luci e ombre.

Con riferimento alle prime, essa si fa carico di definire, specificare e rendere più concrete le raccomandazioni contenute negli accordi internazionali sul tema; rafforza l’elemento conoscitivo e la base tecnico-scientifica delle sue policy, prevedendo frequenti aggiornamenti nel corso del tempo e affidando a esperti la base su cui fondare le decisioni pubbliche per il clima; confermando infine l’apertura della governance ambientale alla partecipazione degli interessati. Infine, il Regolamento n. 1119 accentua il momento della programmazione pubblica sovranazionale, che serve a dettare una linea di azione comune e a preparare gli interventi di regolazione che seguiranno, permettendo agli stati membri e ai cittadini di prendere contezza, di adattarsi e di condividere il progetto, mostrando uno sguardo di lungo periodo, perché le azioni previste andranno attuate nel tempo.

In merito agli aspetti più critici, il testo in commento si rivela piuttosto timido nel porre in essere delle politiche fondamentali non solo per il clima e la tutela dell’ambiente, ma anche per la stessa integrazione europea e per lo sviluppo dell’Unione, perché lascia agli Stati membri troppo margine di manovra e perché non individua alcuna politica di dettaglio per la riduzione delle emissioni clima-alteranti. Ancorché tale approccio possa essere figlio di una strategia precisa, fondata sulla gradualità della transizione ecologica e sul soft-power, essa rischia comunque di essere poco efficace nel raggiungere i target previsti: la non immediata effettività delle misure lascia il dubbio che atti come quello in esame possano produrre misure attuative insufficienti o inefficaci, troppo eterogenee nel confronto tra Stati[xiii], da correggere in itinere e quindi lente, difficili da valutare in concreto, considerando anche la necessità di intervenire con prontezza nella realizzazione della transizione ecologica.

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Focus GND_articolo 6_RGA (clima)

[i] Commissione europea: Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni. Il Green Deal europeo, Bruxelles, 11.12.2019 COM(2019) 640 final. Sul tema è utile consultare la pagina web predisposta dall’Ue: https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/european-green-deal/delivering-european-green-deal_it.

[ii] L’accordo rafforza la risposta globale ai cambiamenti climatici delineando le politiche odierne per raggiungere la neutralità climatica entro la fine del secolo. È stato adottato da 195 paesi a Parigi nel dicembre 2015 e sostituisce il protocollo di Kyoto del 1997. L’Ue lo ha ratificato con la Decisione (UE) 2016/1841 del Consiglio, del 5 ottobre 2016, relativa alla conclusione, a nome dell’Unione europea, dell’accordo di Parigi adottato nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. L’articolo 2, comma 1, lett. a) dell’accordo, citato dal Reg., recita: “Il presente accordo, nel contribuire all’attuazione della convenzione, inclusi i suoi obiettivi, mira a rafforzare la risposta mondiale alla minaccia posta dai cambiamenti climatici, nel contesto dello sviluppo sostenibile e degli sforzi volti a eliminare la povertà, in particolare: mantenendo l’aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali e proseguendo l’azione volta a limitare tale aumento a 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali, riconoscendo che ciò potrebbe ridurre in modo significativo i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici”. Il testo richiama altresì l’art. 7, che fa riferimento all’“obiettivo mondiale di adattamento, che consiste nel migliorare la capacità in tal senso, rafforzare la resilienza e ridurre la vulnerabilità ai cambiamenti climatici, al fine di contribuire allo sviluppo sostenibile e assicurare una risposta adeguata in materia di adattamento nell’ambito dell’obiettivo relativo alla temperatura di cui all’articolo 2”.

[iii] L’“Accordo di Parigi”, a differenza della “Decisione” (entrambi sono parti del c.d. “Paris Outcome”), ha efficacia vincolante. Nondimeno, esso prevede la ratifica da parte degli Stati che lo hanno siglato e la relativa attuazione. Non sono stati previsti, inoltre, meccanismi giustiziali per sanzionare gli Stati che non ottemperano alle disposizioni dell’accordo. Ne consegue che lo strumento risulta poco efficace sul piano della sue effettiva attuazione nei territori, ancorché lo stesso Accordo preveda quattro meccanismi attuativi: la trasparenza e il dovere di informazione, l’assistenza e il sostegno dei paesi più deboli, l’efficienza e infine un Comitato per agevolare l’attuazione. Sul tema si veda S. Nespor, La lunga marcia per un accordo globale sul clima. Dal protocollo di Kyoto all’accordo di Parigi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1, 2016, p. 111 e ss.

[iv] Sul tema si veda la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni “Pronti per il 55%: realizzare l’obiettivo climatico dell’UE per il 2030 lungo il cammino verso la neutralità climatica, Bruxelles, 14.7.2021 COM(2021) 550 final, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52021DC0550&from=HR. A riguardo si rinvia a D. Bevilacqua, “Pronti per il 55%”? L’obiettivo climatico dell’UE e gli strumenti per raggiungerlo, https://rgaonline.it/article/pronti-per-il-55-lobiettivo-climatico-dellue-e-gli-strumenti-per-raggiungerlo/.

[v] Regolamento (CE) N.  401/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2009 sull’Agenzia europea dell’ambiente e la rete europea d’informazione e di osservazione in materia ambientale, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32009R0401&from=EN.

[vi] Si tratta del Regolamento (UE) n. 2018/1999 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2018 sulla governance dell’Unione dell’energia e dell’azione per il clima, che agli artt. 10 e 11 descrive delle procedure di Consultazione pubbliche di dialogo multilivello, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32018R1999&from=EN.

[vii] In questo senso si veda E. Chiti, Managing the Ecological Transition of the EU: The European Green Deal as a Regulatory Process, in Common Market Law Review, 59, 2022, p. 45: “the EGD challenges the achievements of inter-State cooperation. Far from being a purely implementing process, it articulates and develops the contents of the UN legal framework. The EU is supposed to go beyond the current limitations of inter-State governance and to devise more ambitious and long-term strategies”.

[viii] Ibidem, p. 37: “The GDE is operating as a genuinely destabilizing force, one generating legal conflicts between the consolidated objectives of the European substantive constitution and the emerging goal of ecosystems’ biodiversity, without providing any legal or institutional tool for their resolution”.

[ix] “The category of public reputational accountability is meant to apply to situations in which reputation, widely and publicly known, provides a mechanism for accountability even in the absence of other mechanisms as well as in conjunction with them”, R.W. Grant e R.O. Keohane, Accountability and Abuses of Power in World Politics, in American Political Science Review, Vol. 99, No. 1 February 2005, p. 37.

[x] “Tutte le organizzazioni moderne tendono a circondare gli organi operativi con una serie di uffici il cui compito è di assicurare servizi ai primi: consigliare, fornire conoscenze, suggerire organizzazioni, tecniche e procedure più convenienti. Ciò vale, in particolare, per il potere esecutivo, che è troppo vasto, complesso e potente per lasciare ogni decisione nelle mani di poche persone”, S. Cassese, La funzione consultiva nei governi moderni, in Quaderni costituzionali, 2001, XXI, n. 1, p. 5. Il ricorso alle valutazioni tecniche migliora l’efficacia e l’efficienza del decision-making, che può basarsi sulle indicazioni date da esperti, più avvezzi – rispetto a burocrati o politici – ad affrontare determinati problemi. Inoltre, si tratta di un modello decisionale tendenzialmente neutrale: è la tecnica e non l’opinione politica a indirizzare gli interventi pubblici nei settore più delicati e cruciali. Infine, ha una valenza e un effetto comune, che prescinde dagli Stati, essendo applicabile in tutti i Paesi dell’UE o di aree anche più vaste. Su questi temi mi permetto di rinviare a D. Bevilacqua, Democratizzare la tecnica? La partecipazione alle decisioni degli esperti, in N. Bassi – J. Ziller (a cura di), La formazione procedimentale della conoscenza scientifica ufficiale: il caso dell’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA), Torino, 2017, p. 45 ss. e letteratura ivi indicata.

[xi] A tal riguardo, Richard B. Stewart e altri hanno evidenziato che: “While the concept of bottom-up action on climate is not novel – it was much discussed during the lull in the international negotiations and international climate action in advance of Copenhagen – the Paris Agreement is novel in that it bring disaggregated bottom-up action into an international framework. Some climate negotiators have suggested that a focus on non-state actors will reduce the pressure on countries to fulfill their NDCs [national determined contributions] and to make more ambitious commitments in the future”, R.B. Stewart, M. Oppenheimer, B. Rudyk, Building Blocks: A strategy for Near-term Action within the new Global Climate Framework, 2017, Springerlink.com, 2, now published as introduction to a Special Issue on Alternate Structures for a Global Climate Action: Building Blocks Revisited, a cura di R.B. Stewart e B. Rudyk. Sull’approccio “bottom-up” si veda M.-C. Cordonier Segger, Advancing the Paris Agreement on Cimate Change for Sustainable Development, in Cambridge Journal of International and Comparative Law, 5(2), 2016, pp. 209-212 e D. Bodansky, J. Brunnée & L. Rajamani, International Climate Change Lw, Oxford University Press, 2017, pp. 214-215.

[xii] D. Bevilacqua, Gli attori del Green New Deal: il ruolo dei privati in una regolazione “circolare”, in RGA Online, Giugno 2021, https://rgaonline.it/article/gli-attori-del-green-new-deal-il-ruolo-dei-privati-in-una-regolazione-circolare/.

[xiii] Sul pericolo di frammentazione delle risposte e degli strumenti ai problemi ambientali si veda A. Moliterni, La sfida ambientale e il ruolo dei pubblici poteri in campo economico, in Rivista Quadrimestrale di Diritto dell’ambiente – Decennale della Rivista (2010-2020), n. 2, 2020, p. 50 e riferimenti ivi indicati.

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