di Eleonora Gregori Ferri
Consiglio di Stato, Sez. IV, 15 dicembre 2021, n. 8368 – Pres. Giovagnoli, Est. Martino – A. S.p.A. (Avv. Fregni) c. A.R.P.A.E. – Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia-Romagna (Avv.ti Fantini e Onorato).
L’esclusione della possibilità di recupero dei rifiuti contenenti amianto e provenienti da attività di demolizione, disposta dal D.M. 5 febbraio 1998, non è sindacabile dal giudice amministrativo.
La controversia ha origine con l’impugnazione, da parte di una società proprietaria di un’area industriale oggetto di un intervento di bonifica, dell’atto con il quale l’A.R.P.A.E. aveva chiesto la predisposizione del piano di smaltimento/progetto di messa in sicurezza permanente dei materiali contenenti amianto residuati in sito da detto intervento. L’Agenzia in quella sede aveva infatti ritenuto che si trattasse di rifiuti non recuperabili a fini edilizi, differentemente da quanto prospettato dalla società[i].
In punto di diritto, il tema verte sull’interpretazione delle disposizioni del D.M. 5 febbraio 1998[ii] che individuano le procedure semplificate per il recupero dei rifiuti non pericolosi, autorizzando il recupero di materiali derivanti da attività di demolizione[iii] solo se “privi di amianto” (par. 7.1 dell’allegato 1 del decreto[iv]). In particolare, la questione risiede nel determinare se la disposizione testé richiamata possa essere passibile di una diversa interpretazione, laddove l’amianto sia presente in concentrazioni così basse da non comportare evidenza di pericolosità per l’uomo e l’ambiente, secondo i criteri già in uso in materia di bonifiche e di gestione delle terre e rocce da scavo.
Secondo la società proprietaria dell’area oggetto di bonifica, infatti, il divieto posto dal D.M. 5 febbraio 1998 andrebbe interpretato tenendo conto che vi sono situazioni, espressamente previste dalla normativa ambientale di fonte primaria, in cui la presenza dell’amianto entro determinati parametri è considerata “irrilevante” per l’ordinamento. E poiché il D.M. in questione non indica detti parametri, questi andrebbero dedotti da quanto previsto in altre norme di rango primario sempre in campo ambientale.
A sostegno della propria posizione, la società aveva indicato come riferimento sia la normativa in materia di bonifiche di cui agli artt. 240 e ss. del Codice dell’Ambiente (D. Lgs. n. 152/2006), nel cui ambito il valore limite di accettabilità delle concentrazioni di amianto ai fini della doverosità o meno della caratterizzazione del sito non è pari a zero, ma a 1.000 mg/kg[v], sia le disposizioni dettate dal d.P.R. n. 120/2017, che parimenti indicano per l’amianto la misura di 1.000 mg/kg, quale valore limite per gestire le terre e rocce da scavo come sottoprodotti (art. 4, c. 4 del d.P.R. n. 120/2017).
Tale tesi, tuttavia, non è stata accolta dal giudice di prime cure, che ha respinto il ricorso.
La società, rimasta soccombente, ha dunque impugnato la sentenza di primo grado, ripresentando in sede di gravame le medesime argomentazioni già proposte avanti al TAR.
In sede di appello il Consiglio di Stato ha confermato il giudizio di primo grado, ritenendo non applicabili al caso in esame il richiamo alle disposizioni in materia di bonifica e di gestione delle terre e rocce da scavo[vi].
A tale proposito, il Collegio ha precisato che in materia di recupero di rifiuti il quadro normativo è chiaro e non permette un’interpretazione differente da quella letterale, come sostenuto dall’appellante.
L’art. 184-ter (“Cessazione della qualifica di rifiuto”) del Codice dell’Ambiente, infatti, nell’indicare le condizioni per l’elaborazione dei criteri da seguire nelle operazioni di recupero dei rifiuti (commi 1 e 2), prevede espressamente, al comma 3, che in assenza di detti criteri specifici, continuino ad applicarsi “quanto alle procedure semplificate per il recupero dei rifiuti, [del]le disposizioni di cui al decreto del Ministro dell’ambiente 5 febbraio 1998 (…)”. Decreto che, come già accennato, prescrive espressamente l’assenza di amianto quale requisito per il riutilizzo a fini edilizi dei rifiuti derivanti da demolizioni.
In considerazione di quanto delineato in diritto, Consiglio di Stato ha dunque concluso che: “le fonti normative richiedono inequivocabilmente, ai fini dell’eventuale riutilizzo dei rifiuti in esame, la totale assenza di amianto, da accertarsi attraverso l’impiego delle migliori tecniche attualmente disponibili. (…) Si tratta di una opzione del legislatore, insindacabile nel merito la quale, da un lato, è conforme al principio di precauzione, dall’altro costituisce il logico sviluppo della scelta risalente alla l. n. 257 del 1992, secondo la quale “Sono vietate l’estrazione, l’importazione, l’esportazione, la commercializzazione e la produzione di amianto, di prodotti di amianto o di prodotti contenenti amianto” (art. 1, comma 2)”.
Il giudice di secondo grado ha pertanto respinto il gravame, riconoscendo tuttavia la novità dell’interpretazione offerta dalla società appellante e disponendo, dunque, l’integrale compensazione delle spese.
SCARICA L’ARTICOLO IN PDF
RGA Online_Febbr.2022_CdS_8368_202 Gregori Ferri1
Per il testo della sentenza (estratto dal sito di Giustizia Amministrativa) cliccare sul pdf allegato.
[i] La ricorrente aveva infatti proposto il recupero edilizio di detti materiali mediante interramento in profondità, al fine di utilizzarli quale rinfianco delle fondazioni a plinti di un edificio da collocare nell’area oggetto di bonifica.
[ii] Avente ad oggetto: “Individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero ai sensi degli articoli 31 e 33 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22”.
[iii] Ossia “laterizi, intonaci e conglomerati di cemento armato e non, comprese le traverse e traversoni ferroviari e i pali in calcestruzzo armato provenienti da linee ferroviarie, telematiche ed elettriche e frammenti di rivestimenti stradali” (par. 7.1, All. 1, d.m. 5 febbraio 1998).
[iv] Avente ad oggetto: “Norme tecniche generali per il recupero di materia dai rifiuti non pericolosi”.
[v] Vd. tab. 1 dell’all. V al titolo V della parte IV del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (“codice dell’ambiente”).
[vi] Paragrafo 9.2 della sentenza in commento: “Il tentativo della ricorrente di operare une diversa ricostruzione del dato normativo si fonda sull’impropria applicazione alla materia del c.d. “end of waste” di disposizioni dettate ad altri fini e che hanno un distinto campo di applicazione”.