Il Green New Deal è globale, ma lo fanno gli Stati

01 Mar 2023 | articoli, contributi, green new deal

di Dario Bevilacqua

Sommario

Introduzione
Il Green New Deal tra spinte globali e soluzioni statali
Il Green New Deal come politica pubblica statale
Conclusioni

 

Introduzione

Il fenomeno del Green New Deal (GND), come è stato notato da alcuni commentatori[i] e come si è avuto modo di osservare[ii], si sta sviluppando su scala globale, attecchendo in diverse regioni del mondo; ancorché il modello in fase maggiormente avanzata sia sicuramente quello europeo. Quest’ultimo si struttura infatti come una politica pubblica che segue un progetto e una strategia definiti e si svolge come una pianificazione sovranazionale finalizzata a raggiungere la neutralità climatica, cui conseguono e conseguiranno una serie di atti sia di natura programmatoria sia di regolazione diretta, sia comuni all’Unione, sia appannaggio dei singoli Stati membri[iii].

In questi mesi, nondimeno, proprio le istituzioni dell’Ue sono chiamate a prendere decisioni di governance ambientale per fronteggiare e reagire a politiche pubbliche attuate al di là dell’Atlantico, segnatamente dagli Stati Uniti, anch’esse ascrivibili alla visione del GND. Si tratta dell’Inflation Reduction Act (IRA)[iv], un pacchetto di sussidi alle industrie “verdi” statunitensi da 369 miliardi di dollari, firmato ad agosto 2022, che offre enormi aiuti e crediti d’imposta alle aziende americane che investono in veicoli elettrici e tecnologie delle energie rinnovabili, come batterie elettriche, pannelli solari e turbine eoliche, a condizione che i prodotti e le parti che fabbricano siano fatti negli USA. Misure analoghe sono state messe in atto da Giappone, India, Regno Unito, Canada e altri paesi[v].

L’Europa non vuole farsi trovare impreparata e sta discutendo di una contromossa, che dovrebbe trovare attuazione nel “Piano Industriale Green Deal”, ossia una nuova politica industriale europea che ha l’obiettivo di rendere l’Europa la patria della tecnologia pulita e dell’innovazione industriale sulla strada della neutralità climatica, coprendo quattro pilastri chiave: il contesto normativo, il finanziamento, le competenze e il commercio[vi].

Quanto appena descritto racconta due cose: la prima consiste nella natura multinazionale ed extraterritoriale del fenomeno del GND, che non è solo europeo, giacché anche nel resto del mondo è chiaro che la lotta ai cambiamenti climatici e la tutela dell’ambiente passano per un cambiamento del modello economico-produttivo, che deve essere condotto – tramite una serie di misure pubbliche – verso un approccio sostenibile ed ecologicamente compatibile; la seconda riguarda invece il carattere stato-centrico di tale percorso, che vede quindi gli Stati come attori protagonisti, sia rispetto alla Comunità internazionale, per cui ogni Paese (o area regionale come l’Ue) mette in pratica le sue politiche per attuare il Green Deal, sia rispetto ai privati, per cui i poteri pubblici incentivano, promuovono e anche condizionano il nuovo modello economico green.

Il Green New Deal tra spinte globali e soluzioni statali

Con riferimento al primo aspetto citato nel paragrafo introduttivo, messo in luce dalle nuove politiche adottate nei vari Paesi per avanzare nella transizione ecologica, si può salutare favorevolmente le iniziative citate, che come detto si allineano a quelle del Green Deal europeo, mostrando un impegno economico significativo, segnatamente nel caso degli Stati Uniti. Tuttavia, per altro verso, la stessa operazione decisa dal governo americano è caratterizzata da una filosofia apertamente protezionistica. Questo aspetto potrebbe contraddire l’idea di una globalizzazione dell’ambiente e delle politiche del GND, ossia di una legislazione uniforme, che dia vita a misure di tutela armonizzate e comuni, necessarie, se consideriamo il problema comune dell’inquinamento globale. Di più: in nome dell’ambiente, l’apertura delle frontiere cui gli Stati avevano acconsentito per favorire i mercati mondiali, appare oggi ancora più in crisi e in discussione.

Al contempo, proprio la formula, propria del Green Deal, che mira a trasformare l’ambiente e le azioni ecologiche in opportunità, ossia in strumenti e driver per creare nuova crescita, può divenire un mezzo per arrivare a un’armonizzazione della regolazione globale. Un’armonizzazione che viene dal basso, spontanea e non imposta, nonché fondata sulla competizione tra Paesi. Quindi non per una decisione istituzionale sovranazionale, ma grazie alla concorrenza tra gli Stati e seguendo una visione del fenomeno orientata alla race to the top e non to the bottom. È un tema di cui si è già parlato, ma su cui vale la pena tornare perché potrebbe innescare un processo di cambiamento virtuoso, originale e radicale.

A differenza di altri settori di rilevanza pubblica, quello ambientale sembra difficilmente armonizzabile su scala mondiale: le differenze geografiche, culturali e politiche dei vari paesi, nonché l’impopolarità delle politiche ambientali, per i suoi costi nel breve periodo, rendono la tutela dell’ambiente una politica fortemente frammentata ed eterogenea, difficile da globalizzare; segnatamente sotto il profilo giuridico, delle regole comuni. In questa diversità si favoriscono fenomeni di free riding e di corse al ribasso per scaricare su altri il prezzo della lotta all’inquinamento.

Nell’attuazione delle politiche ecologiche gli attori nazionali recuperano una maggiore autonomia decisionale interna, perché pur legandosi a interessi e orientamenti comuni e mondiali, essi non sono gli agenti degli organismi globali, potendo godere di piena discrezionalità. I vari Paesi decidono se agire tramite investimenti o incentivi, stabilendone le entità; se adottare o meno misure di command and control, assicurandone l’efficacia e l’effettività; se e come coinvolgere privati o amministrazioni locali e sino a che punto delegare ad essi funzioni e prestazioni.

Questo approccio può produrre sia vantaggi sia inconvenienti: gli Stati più virtuosi avranno meno limiti sovranazionali per il perseguimento di obiettivi utili all’intero sistema globale; quelli meno virtuosi, viceversa, adopereranno la riguadagnata discrezionalità e la propria sovranità interna per operare forme di resistenza al cambiamento, rallentandone il percorso anche al di là dei confini statali. Di contro, il Green Deal offre una risposta per contrapporsi alle problematiche legate alla frammentazione della governance e alla corsa al ribasso: l’obiettivo di creare un sistema economico che sia anche ecologicamente compatibile trasforma l’ambiente in un’occasione di crescita e non in un costo da evitare. Ne consegue che la capacità di promuovere attività economiche che consentono una crescita economica senza costi di inquinamento o di approvvigionamento di energie non rinnovabili, costituisce di per sé uno stimolo concorrenziale tra gli stessi Stati, che può quindi favorire la diffusione transnazionale di buone pratiche e programmi di intervento anche in assenza di regole comuni vincolanti.

È proprio quest’ultimo aspetto il punto di forza del Green Deal: l’Unione europea, prima ancora di chiedere regole comuni per arginare gli intenti protezionistici degli Stati Uniti, può contrapporre a quest’ultimi politiche nuove, innovative e, soprattutto, convenienti, in grado di creare una crescita sostenibile che possa produrre beni più appetibili di quelli made in USA. È tramite la competizione sul modello più efficiente che il GND può portare a termine la sua missione, a patto che la combinazione tra tutela ecologica e crescita economica sia reale e che i due obiettivi siano effettivamente interdipendenti.

Il Green New Deal come politica pubblica statale

Come si è notato, lo Stato riacquisisce centralità nel progetto del Green Deal non solo nei confronti dei sistemi globali e del loro potere condizionante, ma anche nell’attuazione delle politiche di realizzazione della transizione ecologica e nell’indirizzare e conformare le scelte dei privati. Di qui, come abbiamo già rilevato[vii], i poteri pubblici acquisiscono un ruolo preponderante, tanto da dover parlare di uno “Stato conformatore”.

I poteri pubblici, infatti, non sono più meri regolatori e garanti dei diritti, né si limitano a incentivare determinate attività o a reagire a una crisi, ma si spingono a conformare le attività dei privati, condizionandoli nel modo di produrre beni e servizi mediante l’uso di strumenti giuridici di varia natura: di incentivo, limitazione e programmazione economica. Lo si vede anche nell’esempio citato nell’introduzione: gli Stati Uniti usano denaro pubblico per condizionare le scelte imprenditoriali e gli investimenti delle aziende nazionali, in modo che contribuiscano a “rinverdire” l’intero modello economico-produttivo e, al contempo, a far crescere l’economia nazionale.

L’azione dei pubblici poteri interessa livelli di governance e strumenti regolatori diversi. Quanto ai primi, le politiche che compongono la transizione ecologica prevedono finanziamenti e indirizzi provenienti dalle istituzioni (siano esse europee, statunitensi o di altri paesi), pianificazioni nazionali e azioni attuative, progetti o accordi realizzati a livello locale. Con riferimento agli strumenti, invece, coesistono sistemi di finanziamento sottoposti a condizionalità; pianificazioni generali e per obiettivi; attività di ricerca, promozione e investimento a carico di enti pubblici; svolgimento di servizi forniti in via diretta da enti amministrativi o da aziende municipalizzate; persino atti di regolazione del mercato a tutela dei produttori nazionali.

Il Green Deal si fonda sul ruolo preponderante e invasivo dei poteri pubblici nell’indirizzare, orientare e promuovere scelte, investimenti e attività dei privati, quotidiane o imprenditoriali, con il coinvolgimento dei vari livelli di governo competenti a intervenire. Proprio perché attraverso tale approccio si intende realizzare un nuovo equilibrio tra tutela dell’ambiente e convenienza economica e tra perseguimento di profitti individuali e limiti pubblici all’impresa, la realizzazione di questa combinazione e convergenza di obiettivi ha bisogno dell’azione promotrice e attiva di istituzioni e amministrazioni.

Conclusioni

La tutela dell’ambiente è una missione comune, globale. Come l’inquinamento non conosce confini, per cui un’emissione inquinante rilasciata in atmosfera – o uno sversamento in acqua, o la desertificazione del suolo, o l’impoverimento della biodiversità – può facilmente riverberarsi anche altrove, così gli strumenti per prevenire, contrastare, rimediare a ogni forma di inquinamento devono poter essere applicati su scala mondiale.

Se ne dovrebbe desumere che più di ogni altro settore, quello ambientale merita politiche pubbliche comuni: regole condivise, standard elevati uguali per tutti, organizzazioni internazionali con poteri di enforcement penetranti, in grado di imporsi anche agli stati più restii, procedure e sistemi di regolazione condivisi. Cosa che invece non è mai accaduta: benché si siano affermati obiettivi e visioni comuni, le politiche di regolazione sono rimaste per lo più appannaggio degli Stati e anche a fronte di trattati internazionali formalmente vincolanti, la resistenza delle autorità domestiche si è rivelata difficile da superare.

Ciò è dipeso da varie ragioni, in parte già rilevate, ma rimane il fatto che l’ambiente conferma la presenza di più globalizzazioni, con velocità differenti, soprattutto sul piano delle norme giuridiche applicabili: più veloce ed efficace quella economica e dei commerci, più lenta e meno effettiva quella dei diritti sociali o della tutela ambientale. Fallito il piano globale di tutelare gli ecosistemi e fallito in generale il piano di tutela degli stessi dall’azione inquinante dell’uomo, la risposta a entrambe le problematiche potrebbe risiedere nel Green New Deal. Quest’ultimo, coniugando crescita economica e ambiente e rendendo la tutela di quest’ultimo uno strumento utile ed efficace per perseguire e incrementare la prima, non solo facilita le politiche ecologiche, ma può avere l’effetto di innescare una corsa al rialzo perché ogni ordinamento giuridico chiuso (sia esso uno Stato o un’organizzazione regionale) avrà convenienza a realizzare politiche di transizione ecologica più efficaci ed efficienti degli altri e in tempi più rapidi.

Gli Stati e le organizzazioni regionali di Stati sono liberi di scegliere su cosa puntare: investimenti sulla ricerca, incentivi e agevolazioni, partenariati pubblico-privati, creazione di infrastrutture ecc. Parallelamente, non devono affannarsi – evitando quindi effetti negativi sull’economia – a vietare o limitare pratiche economiche ritenute inquinanti, perché la convenienza della transizione ecologica (basata su economia circolare, fonti rinnovabili, trasporti intelligenti, uso di materie prime riutilizzabili, ecc.) spingerà gli operatori verso quest’ultima. È su queste scelte, quindi, che si gioca la partita mondiale del Green Deal, a dimostrazione che il sistema si regge su una competizione interstatuale che spinge a ricercare obiettivi che coincidono o sono coerenti con la tutela ambientale e che possono quindi realizzare una race to the top, in luogo di una race to the bottom.

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Il Green New Deal globale e statale

NOTE:

[i] Si vedano, ad esempio, J. Rifkin, Un Green New Deal globale. Il crollo della civiltà dei combustibili fossili entro il 2028 e l’audace piano economico per salvare la terra, Milano, Mondadori, 2020; N. Chomsky e R. Pollin, The Climate Crisis and the Global Green New Deal: The Political Economy of Saving the Planet tr. it. Minuti contati. Crisi climatica e Green New Deal globale Ponte delle Grazie, 2020

[ii] https://rgaonline.it/article/il-green-new-deal-gnd-e-la-regolazione-pubblica/.

[iii] Il Green Deal europeo (GDE) è stato adottato con una Comunicazione della Commissione europea: Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni. Il Green Deal europeo, Bruxelles, 11.12.2019 COM(2019) 640 final. Si tratta di un documento di 116 punti che impegna i Paesi dell’Unione a mettere in moto «interventi ambiziosi per far fronte al cambiamento climatico e alle sfide ambientali, allo scopo di limitare il riscaldamento globale a 1,5º C ed evitare una perdita massiccia di biodiversità». I vari obiettivi sono poi elencati in una tabella allegata alla Comunicazione, con delle scadenze temporali per la loro attuazione https://ec.europa.eu/info/sites/default/files/european-green-deal-communication-annex-roadmap_en.pdf, 2. Per un approfondimento si rinvia a E. Chiti, Managing the Ecological Transition of the EU: The European Green Deal as a Regulatory Process, in Common Market Law Review, n. 1/2022; M.C. Carta, Il Green Deal europeo. Considerazioni critiche sulla tutela dell’ambiente e le iniziative di diritto UE, in rivista.eurojus.it, Fascicolo n. 4 – 2020, 54-72 http://rivista.eurojus.it/wp-content/uploads/pdf/Il-Green-Deal-europeo.pdf ; M. Falcone, Il Green Deal europeo per un continente a impatto climatico zero: la nuova strategia europea per la crescita tra sfide, responsabilità e opportunità, in Studi sull’integrazione europea, 2/2020, 379-394; il numero monografico della Rivista quadrimestrale di diritto dell’ambiente, n. 1/2021 e E. Bruti Liberati, Politiche di decarbonizzazione, costituzione economica europea e assetti di governance, in Dir. pubbl., n. 2, 2021.

[iv] Si rinvia qui (https://www.whitehouse.gov/cleanenergy/inflation-reduction-act-guidebook/) e qui (https://www.epa.gov/green-power-markets/inflation-reduction-act) per un approfondimento.

[v] I piani di trasformazione verde del Giappone mirano ad investire fino a 20 trilioni di yen – circa 140 miliardi di euro – attraverso obbligazioni per la “transizione verde”. L’India ha presentato il Production Linked Incentive Scheme per migliorare la propria competitività in settori come il solare fotovoltaico e le batterie. Anche il Regno Unito, il Canada e molti altri hanno presentato i loro piani di investimento nella tecnologia pulita

[vi] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/ip_23_510.

[vii] https://rgaonline.it/article/il-green-deal-leconomia-circolare-e-lo-stato-conformatore/.

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