Bilanciamento Governativo degli interessi e Sindacato Giurisdizionale per gli impianti industriali di interesse strategico: le due facce della prima pronuncia della Consulta sulla riforma degli artt. 9 e 41 della Carta

01 Ott 2024 | giurisprudenza, corte costituzionale

Corte Costituzionale, 13 giugno 2024, n. 105 – Pres. Barbera, Est. Viganò – Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Siracusa, con ordinanza di rinvio 12 settembre 2023, n. 8 – I. s.r.l., V. s.p.a., S. s.r.l., con atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.

L’ambiente va inteso come bene unitario, comprensivo delle sue specifiche declinazioni rappresentate dalla tutela della biodiversità e degli ecosistemi, ma riconosciuto in via autonoma rispetto al paesaggio e alla salute umana, per quanto ad essi naturalmente connesso; esso vincola così, esplicitamente dopo la riforma costituzionale del 2022, tutte le pubbliche autorità ad attivarsi in vista della sua efficace difesa, a tutela degli interessi delle future generazioni: e dunque di persone ancora non venute ad esistenza, ma nei cui confronti le generazioni attuali hanno un preciso dovere di preservare le condizioni perché esse pure possano godere di un patrimonio ambientale il più possibile integro, e le cui varie matrici restino caratterizzate dalla ricchezza e diversità che lo connotano. La tutela dell’ambiente assurge così a limite esplicito alla stessa libertà di iniziativa economica, il cui svolgimento non può recare danno – oltre che alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana – alla salute e all’ambiente.                                                        

1.- Il casus belli: il sequestro penale del depuratore del polo petrolchimico di Priolo

Con la sentenza n. 105 del 13 giugno 2024 la Corte Costituzionale si esprime per la prima volta sulla riforma costituzionale degli artt. 9 e 41 della Carta, approvata nel 2022.[i]

L’importante pronuncia si presta a differenti considerazioni in quanto: da un lato (ai capi 5.1-5.3 del considerato in diritto), la stessa reca affermazioni di principio che enfatizzano la portata innovativa della citata riforma costituzionale; e dall’altro (ai capi 5.4-6), la medesima perviene tuttavia ad esiti – di parziale incostituzionalità della norma censurata – piuttosto timidi se raffrontati con le ricordate significative premesse.

Queste due facce della decisione della Consulta giustificano gli opposti primi commenti con cui è stata accolta la decisione: tra l’entusiasmo di quanti ne hanno salutato la portata “storica”[ii], e di chi invece ne ha apertamente censurato l’approccio “pilatesco”.[iii]

Tuttavia, prima di procedere alla disamina della pronuncia, pare opportuno ricordare in breve la significativa vicenda processuale da cui tra origine il giudizio costituzionale.

La questione è stata portata sul tavolo della Consulta dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale ordinario di Siracusa con l’ordinanza n. 8 del 12 dicembre 2023.[iv]

Da quanto si evince dal tenore di quest’ultimo atto del giudice rimettente e dal “ritenuto in fatto” della sentenza in esame, nell’ambito di un procedimento penale per il delitto di disastro ambientale ex art. 452-quater c.p. (e per altre ipotesi minori di reato) a carico di figure apicali di società che gestiscono gli stabilimenti del polo petrolchimico siciliano, il GIP aveva disposto il sequestro preventivo del depuratore consortile posto a servizio dell’area industriale, nominando un amministratore giudiziario con l’incarico di limitare il conferimento ai soli reflui civili, con esclusione degli scarichi industriali.

Nelle more della conclusione dell’incidente probatorio disposto dal medesimo GIP sulla conformità delle modalità di trattamento delle sostanze inquinanti immesse nell’impianto di depurazione, veniva approvato l’art. 104-bis, comma 1-bis.1, delle Norme di attuazione del Codice di procedura penale, introdotto dall’art. 6 del d.l. n. 2 del 2023 come convertito in legge, che ha previsto speciali diposizioni processuali in tema di sequestro preventivo di stabilimenti industriali dichiarati dal governo di interesse strategico nazionale (ivi comprese le relative infrastrutture necessarie ad assicurarne la continuità produttiva) ai sensi dell’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012 convertito (il cd. “decreto ILVA”). Seguiva da parte del Governo l’applicazione di tale normativa speciale con il formale riconoscimento (con il d.P.C.M. 3 febbraio 2023) dell’impianto di depurazione di Priolo Gargallo quale infrastruttura necessaria all’attività del polo industriale strategico e, quindi, il decreto interministeriale delegato che consentiva, in sostanza, al depuratore di continuare il ricevimento dei reflui industriali, assegnando un termine di trentasei mesi per l’adeguamento alle prescrizioni dell’AIA (autorizzazione integrata ambientale) nel frattempo rilasciata, con la realizzazione in primis dell’indispensabile pretrattamento chimico-fisico in testa al depuratore biologico.

A questo punto il Giudice delle indagini preliminari, destinatario di un’istanza dell’amministratore giudiziario sulla disciplina applicabile all’impianto in esame a seguito del richiamato d.P.C.M. (e del susseguente decreto interministeriale), in linea con i dubbi espressi dalla Procura della Repubblica nel proprio parere, sollevava dinanzi alla Consulta la questione di legittimità costituzionale in relazione al quinto periodo della nuova disposizione codicistica (il menzionato art. 104-bis, comma 1-bis.1, delle Norme att. del c.p.p.) secondo cui, in caso di sequestro preventivo di detti impianti dichiarati di interesse strategico nazionale ovvero di impianti o infrastrutture necessari ad assicurarne la continuità produttiva, “il giudice autorizza la prosecuzione dell’attività se, nell’ambito della procedura di riconoscimento dell’interesse strategico nazionale, sono state adottate misure con le quali si è ritenuto realizzabile il bilanciamento tra le esigenze di continuità dell’attività produttiva e di salvaguardia dell’occupazione e la tutela della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell’ambiente e degli altri eventuali beni giuridici lesi dagli illeciti commessi”.

Ad avviso del giudice a quo, quest’ultima disposizione non garantirebbe il rispetto delle condizioni cui la Corte, nella nota sentenza n. 85 del 2013 riguardante il cd. “decreto ILVA”, ritenne compatibile con la Costituzione la prosecuzione dell’esercizio dell’attività di stabilimenti di interesse strategico nazionale, pur in presenza di provvedimenti di sequestro dell’autorità giudiziaria, non essendo previsto in questo caso il rispetto del provvedimento di riesame dell’AIA (autorizzazione integrata ambientale) emesso all’esito di un procedimento caratterizzato dall’intervento di organi tecnici; dal rispetto delle migliori tecnologie disponibili; da pubblicità e partecipazione; da un controllo e un monitoraggio sulla prosecuzione dell’attività; con durata limitata nel tempo della prosecuzione stessa.

Così facendo, secondo il GIP rimettente, la disciplina in parola non garantirebbe dunque un equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco, violando pertanto: innanzitutto gli artt. 2 e 32 Cost., che presidiano la vita e la salute umana; inoltre il riformato art. 9 Cost., che tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni; infine il nuovo art. 41, secondo comma Cost., laddove vieta che l’iniziativa economica privata possa esercitarsi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà o alla dignità umana.

Anticipiamo subito gli esiti del giudizio costituzionale, precisando che la Corte: da un lato, attraverso una lettura costituzionalmente orientata, ha salvato gran parte della normativa censurata; e dall’altro, con una pronuncia di tipo “additivo”, ne ha dichiarato la parziale illegittimità laddove non prevede(va) che le misure governative di bilanciamento degli interessi si applichino per un periodo di tempo non superiore a trentasei mesi.

Ad un tale esito si perviene al termine di un’articolata motivazione che merita di essere illustrata.

2.- Due chiarimenti preliminari: la ratio della normativa censurata e la risoluzione di un presupposto nodo esegetico

Al termine del vaglio di ammissibilità della questione di incostituzionalità sollevata dal GIP di Siracusa con il rigetto delle varie eccezioni sollevate dalle parti del giudizio (al capo 2 della parte in diritto della sentenza), il successivo ragionamento nel merito della Corte prende avvio da un duplice importante preliminare chiarimento (ai capi 3 e 4 della parte in diritto): da un lato, circa la natura e la ratio della normativa censurata; dall’altro, sulla portata del provvedimento governativo recante le misure di bilanciamento degli interessi in termini di vincolatività per il giudice penale del sequestro.

2.1.- La ratio della normativa censurata

Quanto alla natura della disciplina censurata la Consulta chiarisce subito (al capo 3.2.) che, nonostante l’evidente stretta connessione con la vicenda giudiziaria siracusana (che tuttavia ne rappresenta la mera occasio), la disposizione censurata introdotta dal d.l. n. 2 del 2023 non costituisce una “legge-provvedimento”, dettando invece una disciplina generale e astratta, e come tale dunque potenzialmente applicabile ad una pluralità indeterminata di fattispecie.

Più precisamente – evidenziano i giudici costituzionali – la nuova normativa si inserisce all’interno del disposto dell’art. 104-bis norme att. c.p.p. (relativo all’amministrazione dei beni sottoposti a sequestro o a confisca da parte del giudice penale), con specifiche previsioni disciplinanti l’ipotesi in cui il sequestro penale abbia ad oggetto “stabilimenti industriali o parti di essi dichiarati di interesse strategico nazionale” ai sensi dell’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012, come convertito (il cd. “decreto Ilva”), ovvero anche “impianti o infrastrutture necessari ad assicurarne la continuità produttiva”.

Fino all’entrata in vigore della norma de qua, l’ipotesi risultava regolata dall’art. 1, comma 4, del “decreto Ilva”, ai sensi del quale, quando uno stabilimento sia individuato da un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri come di interesse strategico nazionale, il Ministro dell’ambiente può autorizzare, in sede di riesame dell’autorizzazione integrata ambientale (AIA), la prosecuzione dell’attività produttiva (per non più 36 mesi), resta esclusa la possibilità che altre autorità, compreso il giudice penale del sequestro, possano dettare di ulteriori prescrizioni per l’attività produttiva, ovvero imporre la cessazione della stessa.

E tuttavia – chiarisce la Corte – l’art. 1 del “decreto Ilva” non è applicabile a sequestri preventivi come quello oggetto del procedimento a quo, in quanto da un lato, la disposizione si riferisce ai soli “stabilimenti di interesse strategico nazionale”, e non anche agli “impianti e infrastrutture necessari ad assicurarne la continuità produttiva” (come nel caso degli impianti di depurazione che trattano i reflui provenienti da tali stabilimenti); dall’altro, presuppone un provvedimento di riesame dell’AIA adottato dal Ministro dell’ambiente.

Il nuovo comma 1-bis.1 dell’art. 104-bis norme att. c.p.p. (introdotto dal d.l. n. 2 del 2023, come convertito) ha inteso dunque “colmare queste lacune” istituendo una disciplina generale – peraltro collocata tra le norme di attuazione del codice di rito – destinata a regolare i poteri di amministrazione spettanti al giudice del sequestro penale su stabilimenti (o parti di essi) dichiarati di interesse strategico nazionale ai sensi dell’art. 1 del “decreto Ilva”, nonché sugli impianti e infrastrutture necessari ad assicurarne la continuità produttiva.

2.2.- La risoluzione del nodo esegetico: il giudice penale del sequestro è vincolato al provvedimento governativo, per cui deve necessariamente autorizzare la prosecuzione dell’attività industriale

Chiarita la portata generale della normativa oggetto di censura, la Corte prende quindi in esame e risolve il fondamentale “nodo esegetico” rappresentato dalla portata, vincolante o meno per il giudice penale, del provvedimento governativo recante “misure con cui si è ritenuto realizzabile il bilanciamento” degli interessi in gioco (ai sensi dell’art. 104-bis, comma 1-bis.1, quinto periodo, norme att. c.p.p.).

Al termine di un “attento esame” della disposizione, la Consulta si esprime al riguardo (al capo 4.3 della parte in diritto) in termini molto netti, nel senso che “una volta che il Governo, nell’ambito della procedura di cui al “decreto Ilva”, abbia dettato le misure di bilanciamento, al cui rispetto è condizionata la prosecuzione dell’attività, non residua più in capo al giudice del sequestro alcun margine di discrezionalità nella valutazione degli interessi in gioco, e nelle determinazioni conseguenti. Il giudice è, a questo punto, vincolato ad autorizzare la prosecuzione dell’attività, alle condizioni stabilite dal Governo”.

Dunque -si precisa in sentenza- in un tale contesto non rientra nei poteri del giudice penale, nella fase del sequestro, né dettare misure che si discostino da quelle stabilite dal Governo (ai sensi del quinto periodo del comma 1-bis.1), né tantomeno di vietare la prosecuzione dell’attività sulla base di un discrezionale apprezzamento relativo ad un “concreto pericolo” di pregiudizio per i beni collettivi di cui ragiona il quarto periodo.

In proposito sia consentito di sollevare qualche modesta perplessità su questi pur autorevolissimi esiti interpretativi: ciò in forza del dato testuale di disposizioni che, in realtà, contemplano espressamente l’eventualità dell’adozione di provvedimenti giudiziali di segno negativo, disponendone l’immediata trasmissione alla Presidenza del Consiglio dei ministri, al Ministero delle imprese e del made in Italy e al Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica (così l’ultimo periodo del comma 1-bis.1), i quali vengono altrettanto esplicitamente legittimati ad impugnare dinanzi al Tribunale di Roma detti provvedimenti con cui il giudice abbia escluso o revocato la prosecuzione dell’attività, nonostante le misure governative di bilanciamento adottate nell’ambito del procedimento di riconoscimento dell’interesse strategico nazionale (comma 1-bis.2).

L’esito interpretativo – fatto proprio dal giudice costituzionale – di queste ultime previsioni (asseritamente operanti in una “logica – invero, non proprio cristallina – del legislatore, come una sorta di “freno di emergenza” nell’ipotesi in cui il giudice, nonostante l’adozione da parte del Governo delle «misure» di cui al quinto periodo del comma 1-bis.1, concepite quali vincolanti per l’autorità giudiziaria, abbia comunque negato l’autorizzazione a proseguire l’attività”) appare francamente, a sua volta, “assai poco cristallina” laddove nega la praticabilità di una differente soluzione che parrebbe, invece, espressamente contemplata e disciplinata dalla norma.

Peraltro v’è da evidenziare che la differente lettura della disposizione (che viene ivi condivisa) era stata proposta nello stesso giudizio costituzionale sia dall’interveniente Avvocatura generale dello Stato sia dalle altre parti costituite.[v]

L’accoglimento di quest’ultima soluzione interpretativa avrebbe sì condotto ad una pronuncia di inammissibilità della questione di legittimità (come appunto eccepito dalla difesa erariale), ma attraverso una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate, che pareva ben consentita dal ricordato tenore letterale delle medesime.

Un tale esito è stato tuttavia espressamente escluso dalla Consulta in forza della perentorietà dell’inciso testuale (contenuto nel quinto periodo del comma 1-bis.1, Norme att. del c.p.p.) “il giudice autorizza la prosecuzione dell’attività”.[vi]

3.- Una premessa motivazionale di grande respiro, con il riconoscimento della significativa portata innovativa dei riformati artt. 9 e 41 Cost.

La motivazione della sentenza della Corte, nella prima parte in cui affronta nel merito la questione di costituzionalità (ci si riferisce al capo 5 della parte in diritto), risulta di grande respiro e di vaste potenzialità applicative, sotto una pluralità di profili.

Il tutto in forza di una convinta affermazione della portata innovativa della riforma costituzionale del 2022, la quale per la Consulta (vds. il capo 5.1.2. del considerato in diritto) “consacra direttamente” nel testo costituzionale il “mandato” di tutela dell’ambiente, inteso come “bene unitario”, sia pure comprensivo delle sue “specifiche declinazioni”, ossia anche “biodiversità” ed “ecosistemi”.

Con l’ulteriore precisazione che si è ormai al cospetto di un mandato costituzionale di tutela ambientale riconosciuto “in via autonoma” rispetto a quella del paesaggio e della salute umana, (“per quanto ad essi naturalmente connesso”), destinato a vincolare esplicitamente “tutte le pubbliche autorità” ad “attivarsi in vista della sua efficace difesa”.

Sin dall’ incipit dell’analisi, si assiste dunque in sentenza ad un’esegesi della legge cost. n. 1/2022 “presa sul serio”[vii], che pare smentire dunque le letture riduttive della stessa in termini di semplice “riforma bilancio”.

3.1.- Una presa di distanza dal precedente “salva ILVA” n. 85 del 2013 (e la valorizzazione della successiva sentenza n. 58 del 2018)

Sulla base delle suddette premesse interpretative della riforma costituzionale degli artt. 9 e 41 Cost., si perviene alla disamina nel merito della questione di legittimità costituzionale prendendo avvio dai principi enunciati nel precedente di cui alla nota sentenza n. 85 del 2013, che dichiarò la legittimità costituzionale del cd. decreto “salva ILVA”.[viii]

Tuttavia, pur definendo quest’ultima pronuncia “punto di riferimento naturale” nella vicenda in esame (essendo infatti la stessa ampiamente richiamata nell’ordinanza del GIP del Tribunale di Siracusa), assistiamo subito ad una presa di distanza da questo precedente in ragione di due “fondamentali profili differenziali”: la circostanza che le questioni relative al “decreto ILVA” erano in parte fondate sulla censurata violazione di differenti disposizioni costituzionali (gli artt. 101-107 nonché 25, 27 e 112) inerenti in sostanza ai rapporti tra potere politico-amministrativo e giudice penale (così al capo 5.1.1.); ma soprattutto il “mutamento nel frattempo intervenuto, nella stessa formulazione dei parametri costituzionali sulla base dei quali deve essere condotto lo scrutinio da parte di questa Corte” (vds. il capo 5.1.2 del considerato in diritto).

Come è stato osservato, così facendo, “lo schema dei diritti ‘tiranni’, sancito dalla nota decisione 85/2013 sul ‘caso ex ILVA’, ne esce sbiadito, inesorabilmente inattuale”[ix]. Il richiamo è all’ormai famoso passaggio della sentenza “salva ILVA” -non richiamato nella sentenza in esame- ove si esclude(va) la preminenza del diritto fondamentale alla salute (e all’ambiente) sul diritto d’impresa onde scongiurare il rischio dell’ “illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona”.[x]

Così facendo, pare di poter affermare il superamento dei principi della “sentenza ILVA” in nome del mutamento dei parametri costituzionali, che non era per nulla scontato, considerando che all’indomani della riforma costituzionale del 2022, la dottrina si era divisa sul punto.[xi]

Altrettanto significativo risulta peraltro in tal senso il successivo richiamo e la valorizzazione (al capo 5.4.1. su cui anche infra) dell’ulteriore – e di segno ben diverso – precedente della Corte n. 58 del 2018 (cosiddetta “sentenza ILVA 2”) che condusse ad una pronuncia di incostituzionalità di un ulteriore provvedimento legislativo derogatorio emesso per lo stabilimento siderurgico tarantino, con la motivazione che il legislatore non aveva rispettato l’esigenza di bilanciare in modo ragionevole e proporzionato gli interessi costituzionali rilevanti, incorrendo così in un vizio di illegittimità costituzionale di violazione dell’art. 41 (oltreché degli artt. 2, 3, 4 e 32 Cost.) Cost., per non aver tenuto in adeguata considerazione le esigenze di tutela della salute, sicurezza e incolumità dei lavoratori.[xii]

In proposito nella sentenza in commento si afferma in particolare che va ribadita la validità del principio espresso nella precedente occasione dalla stessa Corte (al punto 3.3. del considerato in diritto), per cui “[r]imuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita dei lavoratori costituisce […] condizione minima e indispensabile perché l’attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona”. Il tutto soggiungendo però, da un lato, che tra i titolari di queste ultime “esigenze basilari della persona”, il cui rispetto fa da argine all’esercizio dell’impresa, debbono oramai includersi non solo le persone “oggi esistenti”, ma anche “quelle che saranno”, ossia le future generazioni (vds. immediatamente infra); e dall’altro, che nell’ambito di queste esigenze preminenti “si annovera ora, esplicitamente, anche la tutela dell’ambiente”.

3.2.- L’esaltazione della prospettiva intergenerazionale della tutela dell’ambiente

La pronuncia poi esalta la centralità della portata intergenerazionale del mandato alla Repubblica di tutela dell’ambiente assicurata dal riformato art. 9, evidenziando la peculiarità della prospettiva indicata dal legislatore costituzionale laddove non rinvia ai soli interessi dei singoli e della collettività “nel momento presente”, ma si estende appunto anche (e qui la Corte richiama quanto già prefigurato in diversi precedenti anteriori alla riforma)[xiii] agli interessi delle “future generazioni”.[xiv]

Queste ultime da intendersi come gli interessi (ambientali) delle “persone ancora non venute ad esistenza, ma nei cui confronti le generazioni attuali hanno un preciso dovere di preservare le condizioni perché esse pure possano godere di un patrimonio ambientale il più possibile integro, e le cui varie matrici restino caratterizzate dalla ricchezza e diversità che lo connotano”.

In tale preciso richiamo alla responsabilità intergenerazionale si colgono gli echi della nota ordinanza del Tribunale costituzionale federale tedesco del 24 marzo 2021 che, a seguito di un ricorso proposto da persone fisiche ed associazioni ambientaliste, ha dichiarato il contrasto delle disposizioni della legge federale sul cambiamento climatico del 2019 con l’art. 20 della Grundgesetz che (in termini analoghi al riformato art. 9, comma 3, della Costituzione italiana) assicura la tutela dell’ambiente in nome della responsabilità nei confronti delle generazioni future, con la motivazione che le quantità di emissioni di gas serra che risultavano consentite fino al 2030 scaricavano unilateralmente le responsabilità nel futuro, mettendo così a repentaglio per tali generazioni ogni tipo di libertà tutelata dai diritti fondamentali.[xv]

Interessante appare poi il passaggio della pronuncia in esame ove si esplicita che anche nel contesto del riformato art. 41, secondo comma, Cost., la tutela dell’ambiente (al pari della salute), intesa quale esplicito limite alla libertà di iniziativa economica, va riguardata nella prospettiva dell’”interesse, ancora, dei singoli e della collettività nel momento presente, nonché di chi ancora non è nato”.

Di talché paiono trovare conferma le tesi di coloro che dalla lettura congiunta dei novellati artt. 9 e 41 Cost. evincono che l’ “interesse delle future generazioni” costituisce un nuovo limite alla stessa attività d’impresa in termini di indefettibile vincolo in primis per il legislatore -ma a fortiori per le autorità amministrative ed anche giurisdizionali- di garantire che le procedure autorizzatorie, di valutazione preventiva e di monitoraggio delle attività produttive, siano necessariamente supportate da istruttorie, ponderazioni e bilanciamenti specificamente orientati a considerare “gli effetti di lungo periodo” di quelle scelte e “rendendo queste ultime, al tempo stesso, misurabili e valutabili nella sede di un sindacato giudiziale”.[xvi]

3.3.- L’interpretazione costituzionale nel prisma degli obblighi europei ed internazionali, e le relative conseguenze sul piano della giustiziabilità dell’ambiente quale “diritto fondamentale della persona”

E’ opportuno inoltre rimarcare come la sentenza in commento, nel richiamare i nuovi parametri costituzionali usciti dalla riforma del 2022, posti a base del vaglio di legittimità delle norme censurate, esprima l’esigenza di una lettura dei parametri medesimi anche “attraverso il prisma degli obblighi europei e internazionali in materia”.

Il rinvio risulta evidentemente indirizzato – oltre che all’ormai vastissima produzione normativa dell’Unione Europea in materia ambientale – anche agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – CEDU che garantiscono, rispettivamente, il diritto alla vita e il diritto al rispetto della vita privata e familiare, così come interpretati in chiave ambientale da una ormai copiosa giurisprudenza della Corte EDU[xvii]; oltreché agli analoghi artt. 2 e 7 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea – CDFUE (cd. “Carta di Nizza”).

Non pare un caso dunque il richiamo della stessa Consulta (contenuto al capo 5.3.2. della parte in diritto)[xviii] alla recente – ma già “storica” – sentenza della Grande Camera della Corte EDU del 9 aprile 2024,che ha dichiarato ammissibile ed ha accolto (sia pure in parte) l’azione proposta da un’associazione di diritto svizzero (Verein KlimaSeniorinnen Schweiz) e da alcune cittadine aderenti alla medesima che denunziavano le omissioni delle autorità statali nel settore della mitigazione dei cambiamenti climatici, invocando la violazione degli articoli 2, 6, 8 (e 13) della “Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali[xix].

A ciò si aggiunga il rinvio – operato sin dall’incipit del ragionamento contenuto nella decisione in esame (al capo 5.1.2. della parte in diritto) – al quadro giurisprudenziale antecedente alla riforma costituzionale del 2022 facendo riferimento alle pur datate sentenze n. 210 e 641 del 1987 (oltreché alla sentenza n. 126/2016) della stessa Consulta: il tutto per ribadire la perdurante attualità del riconoscimento della tutela dell’ambiente (anche) in termini di “diritto fondamentale della persona”, e non solo dunque quale “interesse della collettività” (capo 5.1.2); smentendo così quanti avevano decretato il superamento della concezione soggettivistica della tutela ambientale, alla luce della stessa riforma costituzionale.[xx]

Del tutto evidente risulta la potenziale portata di un tale riconoscimento di una situazione giuridica soggettiva all’ambiente – che si aggiunge ovviamente a quella oggettiva in termini di “valore costituzionale” – anche sul piano della giurisdizione; nel senso della riaffermata tutelabilità dinanzi al giudice civile dei diritti soggettivi, dei singoli e dei gruppi associativi, connessi all’ambiente e alla salubrità ambientale.

In termini più ampi, valorizzando, da un lato, il “prisma” degli obblighi europei e internazionali e, dall’altro, il ricordato mandato costituzionale ad “attivarsi” in vista di un’ “efficace difesa” dell’ambiente che vincola esplicitamente “tutte le pubbliche autorità”, ivi comprese dunque (ed anzi in primis) quelle giurisdizionali, non pare quindi una forzatura ritenere che la sentenza della Consulta n. 105/2024 apra la strada ad un’ampia giustiziabilità dinanzi ai giudici italiani delle azioni – proposte da cittadini ed associazioni – in materia ambientale per la tutela dei diritti umani.

E ciò anche in settori nuovi e nuovissimi, a partire dalle azioni giudiziarie in materia climatica[xxi], in cui si tratta di affrontare e risolvere inedite ed importanti, ma non certo irrisolvibili, sfide processuali e sostanziali: una giustiziabilità quest’ultima che è già stata pienamente riconosciuta dalla Corte EDU, la quale, nella ricordata sentenza della Grande Camera recante accoglimento del ricorso delle “nonne svizzere”, ha inteso significativamente affermare che “la Corte ritiene essenziale sottolineare il ruolo chiave che i tribunali nazionali hanno svolto e svolgeranno nel contenzioso in materia di cambiamenti climatici, un fatto che si riflette nella giurisprudenza adottata finora in alcuni Stati membri del Consiglio d’Europa, sottolineando l’importanza dell’accesso alla giustizia in questo settore. Inoltre, dati i principi di responsabilità condivisa e di sussidiarietà, spetta in primo luogo alle autorità nazionali, compresi i tribunali, garantire il rispetto degli obblighi derivanti dalla Convenzione” (così al § 639della decisione).

4.- Un esito applicativo alquanto timido rispetto alle premesse

All’esito delle significative premesse interpretative dei riformati artt. 9 e 41 Cost. testè illustrate, la sentenza perviene a concludere – come già evidenziato – nel senso della parziale incostituzionalità del quinto periodo dell’art. 104-bis, comma 1-bis.1, delle Norme di attuazione del Codice di procedura penale (introdotto dall’art. 6 del d.l. n. 2 del 2023 come convertito).

Il tutto sulla base del menzionato passaggio motivazionale in due mosse: dapprima, un’interpretazione costituzionalmente orientata che salva buona parte della disposizione censurata; e, quindi, una pronuncia di incostituzionalità di tipo additivo.

E’ innanzitutto il primo passaggio argomentativo che lascia un po’ l’amaro in bocca in termini di effettiva coerenza rispetto alle ricordate premesse di ampia portata sui parametri costituzionali applicati.

4.1.- L’interpretazione costituzionalmente orientata (dimentica però delle garanzie di pubblicità e di partecipazione del pubblico e del rispetto delle migliori tecnologie disponibili)

Questa parte della motivazione della pronuncia in esame si snoda riprendendo (al capo 5.2 della parte in diritto) le doglianze del GIP di Siracusa sulla base dei principi enunciati dalla Consulta nella ricordata sentenza n. 85 del 2013, la quale ritenne sì non fondate le doglianze rivolte nei confronti della disciplina dettata dal “decreto Ilva” (ossia l’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012 come convertito) che pure vincola il giudice penale del sequestro alle prescrizioni dettate dal potere esecutivo, ma ciò fece sul presupposto rispetto dell’autorizzazione integrata ambientale (o, meglio, di un provvedimento di riesame dell’AIA), il quale invece non è affatto assicurato dalla norma ora censurata (anzi, il GIP di Siracusa evidenziava nell’ordinanza di rimessione che nel caso di specie l’autorizzazione integrata veniva espressamente derogata dalle misure governative).

Il tutto avveniva – disse nell’occasione la Corte – sulla base di un nuovo “punto di equilibrio” nel bilanciamento degli interessi per la prosecuzione provvisoria dell’attività produttiva (punto 10.2. del Considerato in diritto) la cui ragionevolezza risultava fondata sulle “garanzie predisposte dall’ordinamento quanto all’intervento di organi tecnici e del personale competente; all’individuazione delle migliori tecnologie disponibili; alla partecipazione di enti e soggetti diversi nel procedimento preparatorio e alla pubblicità dell’iter formativo, che mette cittadini e comunità nelle condizioni di far valere, con mezzi comunicativi, politici ed anche giudiziari, nelle ipotesi di illegittimità, i loro punti di vista” (punto 10.3. del Considerato in diritto).

Diversamente – come detto – la nuova norma sottoposta al test di costituzionalità non condiziona affatto la prosecuzione dell’attività dello stabilimento produttivo al rispetto delle prescrizioni dell’AIA (o del relativo riesame), né delle relative garanzie procedimentali. Cosicché sotto questo profilo la disposizione ora censurata “si discosta in maniera non marginale” dallo schema normativo – di cui al ricordato “decreto ILVA – giudicato legittimo (come si riconosce espressamente al capo 5.3 della sentenza). Quindi, formulati alcuni rapidi chiarimenti sull’autorità competente ad adottare le misure governative di bilanciamento a cui il giudice risulta vincolato (al capo 5.3.1)[xxii], in sentenza si precisa come appaia “più problematico, dal punto di vista della sostenibilità costituzionale della scelta legislativa, il segnalato difetto di qualsiasi indicazione, da parte della disposizione censurata, circa il procedimento da seguire per l’individuazione delle misure” (al capo 5.3.2).

Invero – si sottolinea – il procedimento dell’AIA (sulla base delle previsioni della direttiva 2010/75/UE e degli artt. 29 bis e ss. del d.lgs. 152/2006) è caratterizzato da un approccio integrato alla prevenzione e riduzione integrata delle emissioni, dalla necessaria assicurazione di un elevato livello di protezione dell’ambiente mediante l’applicazione delle “migliori tecniche disponibili” (BAT) e dai principi di pubblicità e partecipazione effettiva dei cittadini al processo decisionale (a sua volta sanciti dalla Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998 e “costantemente sottolineati dalla Convenzione europea dei ditti dell’uomo” anche nella ricordata sentenza della Grande Camera del 9 aprile 2024).

Ben diversamente – stigmatizza la Corte (ai capi 5.3.2. e 5.3.3.) – la nuova disposizione condiziona, invece, la prosecuzione dell’attività dello stabilimento o impianto sequestrato all’osservanza di “generiche ‘misure’ di bilanciamento”; inoltre “senza chiarire in esito a quale procedimento tali misure debbano essere adottate – e con quali garanzie di pubblicità e di partecipazione del pubblico, oltre che delle diverse autorità locali a vario titolo competenti in materia ambientale e di tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro –”; ed altresì “senza chiarire, nemmeno, se ed eventualmente in quale misura i valori limite di emissione possano discostarsi dalle BAT di settore, al fine di consentire la prosecuzione dell’attività”; infine la disposizione censurata “non contiene alcun termine finale per la sua operatività” con l’effetto di “privare indefinitamente il giudice del sequestro di ogni potere di valutazione sull’adeguatezza delle misure medesime rispetto alla tutela dell’ambiente e della salute pubblica, e mediatamente rispetto alla tutela della stessa vita umana”.

A questo punto della motivazione ci si sarebbe dunque aspettati che la preannunciata lettura costituzionalmente orientata della norma censurata sfociasse in un intervento della Corte che condizionasse la legittimità delle misure governative di bilanciamento degli interessi alla necessaria applicazione di tutte le garanzie procedimentali, la cui carenza è stata censurata (nella medesima pronuncia) in modo piuttosto severo.

Ed invece si perviene (in conclusione del capo 5.4.1.) ad un generico richiamo, per il vero piuttosto deludente, agli ordinari obblighi di adeguata istruttoria e di congrua motivazione previsti in via generale dall’art. 3, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), implementata dalla necessità di un idoneo monitoraggio sull’effettiva osservanza di quanto imposto dalle misure governative.

Quel che appare maggiormente dissonante sul piano logico, in termini di consequenzialità e coerenza argomentativa, è in particolare il mancato richiamo conclusivo alla necessaria applicazione delle garanzie di pubblicità e di partecipazione (sulla cui indispensabilità la stessa sentenza pareva essersi ripetutamente espressa in termini molto espliciti), oltreché al rispetto delle migliori tecnologie disponibili o, quanto meno (come peraltro precisato nella prima parte della motivazione), alla necessità di esplicitare in quale misura i valori limite di emissione stabiliti dalle misure governative potrebbero discostarsi dalle BAT di settore.

4.2.- L’incostituzionalità parziale e la pronuncia additiva

Si giunge così all’incostituzionalità parziale della norma impugnata limitatamente al profilo dell’efficacia temporale delle misure governative di prosecuzione di attività produttive di rilievo strategico per l’economia nazionale o per la salvaguardia dei livelli occupazionali.

In proposito si precisa (al capo 5.4.2 della parte in diritto) che la legittimazione processuale di tali disposizioni può essere riconosciuta soltanto in termini di “disciplina interinale”, ossia efficace “nel tempo strettamente necessario per portare a compimento gli indispensabili interventi di risanamento ambientale e riattivare gli ordinari meccanismi procedimentali previsti dal d.lgs. n. 152 del 2006. E ciò, in particolare, attraverso il riesame delle AIA esistenti, che si siano rivelate insufficienti rispetto ai loro scopi”.

Diversamente – si sottolinea – l’omessa fissazione di un termine massimo di durata dell’operatività della previsione in esame finisce per introdurre un sistema autorizzatorio “parallelo a quello ordinario” che risulta inadeguato ad assicurare che l’esercizio dell’attività di tali stabilimenti e impianti si svolga “a regime” senza recare pregiudizio alla salute e all’ambiente.

Ne consegue la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata sotto lo specifico profilo della mancata previsione di un termine massimo di durata del regime individuato dall’art. 104-bis, comma 1-bis.1, quinto periodo, norme att. cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 9, 32 e 41, secondo comma, Cost. (con assorbimento della censura riferita all’art. 2 Cost.).

In conclusione (al capo 6) la Consulta soggiunge che comunque si può pervenire ad una reductio ad legitimitatem di tale disposizione di per sé incostituzionale, attraverso una pronuncia di tipo “additivo” [xxiii] che introduca un termine di durata massima delle misure in esame.

Ciò è reso possibile dal rinvenimento nell’ordinamento di un “punto di riferimento significativo” rappresentato dall’art. 1, comma 1, del menzionato “decreto Ilva” (d.l. n. 207 del 2012, come convertito), che consente al Ministro dell’ambiente di autorizzare la prosecuzione dell’attività produttiva per un termine massimo di trentasei mesi. Cosicché allo stesso modo, un tale termine “non rinnovabile” viene giudicato congruo anche rispetto allo scopo di fissare un limite massimo di operatività delle misure governative di bilanciamento individuate sulla base della disposizione censurata, “in pendenza del quale – si insiste in sentenza – occorrerà in ogni caso assicurare il completo superamento delle criticità riscontrate in sede di sequestro e il ripristino degli ordinari meccanismi autorizzativi previsti dalla legislazione vigente, in conformità alle indicazioni discendenti dal diritto dell’Unione europea”.

5.- Una questione critica: l’esercizio provvisorio dell’attività d’impresa in contrasto col divieto di cagionare danno alla salute e all’ambiente

Si legge nella pronuncia ivi annotata (al capo 5.4.1.) che, in forza del nuovo testo dell’art. 41 Cost, comma secondo, Cost. (il quale – ripetesi – vieta che l’iniziativa economica privata si svolga in modo da recare danno alla salute o all’ambiente), “nessuna misura potrebbe legittimamente autorizzare un’azienda a continuare a svolgere stabilmentela propria attività in contrasto con tale divieto”.

V’è subito da domandarsi se sia in presenza di un ridimensionamento della novella costituzionale, dal cui tenore pare (o, forse, pareva) piuttosto evincersi che le esigenze basilari della salute e dell’ambiente costituiscano un limite non valicabile dall’esercizio dell’impresa; senza distinguo tra attività stabile (o definitiva) ovvero interinale (o provvisoria).

Dal prosieguo della motivazione si comprende come tale lettura dell’art. 41 cit. sia funzionale al ragionamento susseguente che (prendendo avvio dal richiamo al precedente della decisione n. 58 del 2018), perviene alla conclusione per cui “le misure legittimamente adottabili dal Governo allo scopo di consentire provvisoriamente la prosecuzione di un’attività di interesse strategico nazionale dovranno, semmai, essere funzionali all’obiettivo di ricondurre gradualmente l’attività stessa, nel minor tempo possibile, entro i limiti di sostenibilità fissati in via generale dalla legge in vista – appunto – di una tutela effettiva della salute e dell’ambiente”. E quindi si chiarisce: “In altre parole, le misure in questione … dovranno tendere a realizzare un rapido risanamento della situazione di compromissione ambientale o di potenziale pregiudizio alla salute determinata dall’attività delle aziende sequestrate. E non già, invece, a consentirne indefinitamente la prosecuzione attraverso un semplice abbassamento del livello di tutela di tali beni”.

Di qui la conclusiva pronuncia di tipo additivo con l’introduzione del termine di efficacia massima di trentasei mesi (non rinnovabili) per i provvedimenti governativi che consentono la prosecuzione provvisoria dell’attività dello stabilimento strategico.

Un tale esito suscita alcune domande cui non risulta agevole fornire risposta.

Innanzitutto quid juris laddove si sia in presenza di misure che autorizzano l’esercizio provvisorio di un impianto industriale il cui funzionamento tuttavia presenta un pericolo concreto – accertato giudizialmente – di cagionare un danno (definitivo o comunque significativo) all’ambiente, alla salute, all’incolumità degli abitanti o alla sicurezza dei lavoratori?

La questione non pare affatto peregrina, anche riguardando la stessa vicenda oggetto del giudizio a quo (quale si desume dall’ordinanza del GIP e dalle premesse in fatto della sentenza della Corte), che richiama alla memoria passate analoghe fattispecie di autorizzazioni rilasciate per depuratori consortili per il trattamento di reflui (e rifiuti) industriali, ancorché privi di impianto chimico-fisico in testa al biologico, che nel giro di un breve periodo ebbero un esito, giudizialmente accertato a seguito di perizie chimiche e biologiche, di danneggiamento dei fondali e degli ecosistemi marini circostanti.[xxiv]

Ed ancora: qual è mai il significato dell’inciso contenuto in sentenza (sempre al capo 5.4.1.) per cui comunque dette misure governative di bilanciamento “dovranno naturalmente mantenersi all’interno della cornice normativa fissata dal complesso delle norme di rango primario in materia di tutela dell’ambiente e della salute”? O meglio: a chi è indirizzato quest’ultimo, (parrebbe, estremo) memento della Corte?

Non certo al giudice penale del sequestro, i cui poteri – come visto – vengono “temporaneamente compressi” dalla norma giudicata costituzionale, per cui a quest’ultimo è appare precluso qualsiasi sindacato delle misure governative.

Probabilmente al giudice amministrativo, il cui intervento – è bene ricordarlo – è tuttavia rimesso ad un’attivazione del tutto eventuale da parte di soggetti (pubblici o privati) che abbiano tempestivamente proposto un ricorso per l’annullamento di tali provvedimenti e che siano titolari della legittimazione al ricorso e dell’interesse ad agire in relazione alla concreta vicenda (oltre che, naturalmente, in possesso delle risorse economiche necessarie a sopportare il carico delle spese legali del proprio avvocato, del contributo unificato e di un’eventuale condanna in caso di esito negativo dell’azione).

C’è poi un ulteriore profilo critico da non sottacere.

A supporto delle suesposte conclusioni la Corte richiama la già ricordata sentenza della Corte Cost. n. 58 del 2018 dei cui principi si afferma espressamente l’operatività nel caso in esame (“Vale qui quanto già affermato da questa Corte …”). In proposito si rammenta tuttavia che con quest’ultima decisione la Consulta dichiarò l’incostituzionalità di disposizioni che non consentivano affatto la prosecuzione stabile e sine die dell’attività dell’impianto sequestrato in deroga alle leggi in materia di sicurezza sul lavoro, bensì per un periodo di tempo limitato, non superiore ai dodici mesi. Eppure in quell’occasione la provvisorietà della deminutio di tutela delle esigenze garantite dall’art. 41, comma 2, Cost. (in quel caso, in termini di salute dei lavoratori) non fu sufficiente a salvare quella lex specialis dalla scure della Consulta.[xxv]

Da quest’ultimo punto di vista si potrebbe quindi concludere che assistiamo al paradosso di un rischio di abbassamento dei livelli di tutela costituzionale dell’ambiente e della salute già assicurati dalla Consulta (col precedente costituzionale da ultimo citato), proprio nel momento in cui ci si attenderebbe invece un tendenziale miglioramento di tali livelli di salvaguardia a seguito della riforma costituzionale del 2022, la cui pregnanza viene peraltro apertamente riconosciuta dalla Corte.

Non ci si arrende però ad una tale lettura pessimistica e si ritiene invece che la pronuncia in esame vada salutata come la – pur timida e talvolta contraddittoria – inaugurazione di una giurisprudenza costituzionale sui riformati artt. 9 e 41 Cost. che nelle prossime pronunce saprà progressivamente cogliere tutte le significative potenzialità delle nuove disposizioni.

L’auspicio è dunque anche quello che da parte della Corte possano esservi ulteriori precisazioni dei principi enunciati nella sentenza in esame; quantomeno laddove le emissioni provvisoriamente autorizzate (sia pure nel regime speciale degli impianti strategici per l’economia nazionale o per la salvaguardia dell’occupazione) riguardino inquinanti suscettibili di mettere in pericolo (anche) le future generazioni, come ad esempio avviene per le sostanze chimiche con caratteristiche di interferenti endocrini o comunque suscettibili di alterare il sistema riproduttivo delle persone esposte.[xxvi]

6.- Cenni conclusivi sulla necessità di una rigorosa delimitazione del campo applicativo della norma censurata e sulla sindacabilità giurisdizionale delle misure governative di bilanciamento degli interessi

Non v’è dubbio che costituisca un’affermazione piuttosto tranchante quella del riconoscimento della costituzionalità di una normativa secondo cui il giudice è tenuto ad autorizzare la prosecuzione dell’attività dell’impianto industriale strategico (pur sequestrato)[xxvii] “senza potere, nemmeno, disporre l’interruzione dell’attività nel caso in cui apprezzi un «concreto pericolo» per la salute o l’incolumità pubblica, ovvero la salute o la sicurezza dei lavoratori” (così il capo 4.3. della sentenza in esame).

Peraltro, vincolare il giudice alla sottoscrizione di un provvedimento con cui autorizza espressamente la prosecuzione dell’attività di un impianto industriale, anche laddove il proprio perito (ad esempio, in sede di incidente probatorio, come nel caso del rimettente) abbia accertato che la stessa può risultare “concretamente pericolosa” per la salute, per l’incolumità, per la sicurezza o per la stessa vita di cittadini o di lavoratori, pare non solo costituzionalmente, ma – sia consentito osservare -, per certi versi, anche umanamente, piuttosto impegnativo.
Di qui la fondamentale questione di delimitare con il necessario rigore l’ambito applicativo del principio espresso in sentenza, e della conseguente inammissibilità di esegesi estensive rispetto a quella che rimane una pronuncia riguardante una lex specialis.

La precisazione parrebbe sin troppo ovvia, se non addirittura banale. Eppure non pare inutile soffermarvisi in quanto i principi enunciati nella precedente sentenza “salva ILVA” n. 85 del 2013 hanno aperto la strada ad inammissibili letture limitative, se non preclusive, dell’ordinario sindacato giudiziale penale (e talvolta non solo penale) in presenza di provvedimenti autorizzatori ambientali per stabilimenti produttivi che nulla avevano di “strategico”. Ciò è avvenuto in particolare al cospetto delle AIA-autorizzazioni integrate ambientali (e relativi riesami), le cui prescrizioni sono state talvolte circondate da un’aura di intangibilità giurisdizionale, anche in presenza di macroscopiche illegittimità formali e/o sostanziali.

Per questi motivi v’è da chiarire che, sotto il profilo dell’ambito applicativo, la speciale previsione in esame (di cui all’art. 104-bis, comma 1-bis.1, quinto periodo, norme att. del c.p.p.) dell’insindacabilità giurisdizionale della discrezionalità tecnica ed amministrativa per i provvedimenti autorizzatori dell’esercizio di impianti industriali è stata giudicata costituzionalmente legittima dalla Consulta sul presupposto che la stessa riguarda un novero di impianti puntualmente circoscritto, ossia soltanto quelli che il Governo abbia riconosciuto di interesse strategico nazionale ai sensi del “decreto ILVA”, e per i quali sia stata espressamente deliberata dallo stesso Governo l’adozione di misure di bilanciamento dei contrapposti interessi.

In secondo luogo, una tale preclusione (sia pure provvisoria) del controllo giurisdizionale sul bilanciamento degli interessi operato in sede governativa riguarda il solo giudice penale (rectius, il solo giudice penale “del sequestro”: vds. infra).

Non riguarda invece il giudice amministrativo, com’è peraltro chiaramente esplicitato in sentenza ove si precisa (al capo 5.4.1) che le misure governative di bilanciamento degli interessi sono “individuate da un provvedimento che resta di natura amministrativa, e come tale è soggetto agli ordinari controlli giurisdizionali sotto il profilo della sua legittimità”. Ora, volendo riconoscere un significato utile a quest’ultimo inciso della sentenza in esame (diverso dall’ovvia affermazione di una tutela giurisdizionale amministrativa garantita dall’art. 113 Cost.), pare di potere affermare che assistiamo ad un richiamo della Consulta destinato ai giudici amministrativi ad esercitare un necessario sindacato pieno (“ordinario”, appunto) su questi misure governative, senza che lo stesso possa essere dunque limitato od attenuato entro gli stretti margini di un controllo estrinseco o debole in ragione della natura di queste misure governative di atti di “alta amministrazione”.[xxviii]

Si tiene poi di poter soggiungere inoltre che nessuna compressione del controllo giurisdizionale su questi atti può neppure riguardare il giudice civile nelle azioni a tutela dei diritti soggettivi alla proprietà, alla salute, ai diritti umani con l’azione risarcitoria dei relativi danni (a partire dall’ordinaria azione ex art. 2043 c.c.) o per la tutela dalle immissioni intollerabili (ex art. 844 c.c.), ove, com’è noto, vige il principio della differenziazione della tutela civilistica da quella amministrativa, per cui il rispetto dei limiti stabiliti dalla normativa pubblicistica che disciplina le attività produttive non rende senz’altro leciti le immissioni o i danni sul piano civilistico.[xxix]

Quanto al giudizio penale, la relativa insindacabilità del provvedimento governativo di autorizzazione alla continuazione dell’attività dell’impianto strategico attiene alla sola fase del sequestro preventivo cd. impeditivo, come si evince da diversi passaggi della sentenza[xxx]; di talché si dovrà ritenere che, al di fuori della fase cautelare, gli ordinari poteri giurisdizionali, dopo essere stati “temporaneamente compressi” (così la sentenza al capo 5.4.1.), sono necessariamente destinati a riespandersi anche in ipotesi di impianti riconosciuti strategici dal Governo, sia pure nei limiti del sindacato degli atti autorizzatori consentito al giudice penale.[xxxi]

Non pare inutile in proposito affermare dunque la perdurante operatività del principio affermato dalla stessa Corte Cost. nella sentenza 16/03/1990, n. 127 per cui il giudice presume, in linea generale, che i limiti massimi di emissione fissati dall’autorità siano rispettosi della tollerabilità per la salute dell’uomo e per l’ambiente. In ipotesi, però, che seri dubbi sorgano, particolarmente in relazione al verificarsi nella zona di manifestazioni morbose attribuibili all’inquinamento atmosferico, egli ben può disporre indagini scientifiche atte a stabilire la compatibilità del limite massimo delle emissioni con la loro tollerabilità, traendone le conseguenze giuridiche del caso. Nessuna norma ordinaria, infatti, può sottrarsi all’ossequio della legge fondamentale, sicché è in tal senso che va interpretato l’inciso ‘nei casi consentiti dalla legge’ di cui all’art. 674 codice penale”.[xxxii]

Di talché l’autorizzazione ambientale, sia pure a determinate condizioni, può ben essere sottoposta al sindacato del giudice penale.

E ciò evidentemente non solo nel caso dell’imputazione contravvenzionale dell’art. 674 c.p., ma a fortiori anche nei processi con contestazioni dei delitti ambientali: dall’attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti ex art. 452-quaterdecies c.p., all’inquinamento ambientale dell’art. 452-bis c.p., al disastro ambientale dell’art. 452-quater c.p., ove l’avverbio “abusivamente” che connota – in tutte queste ultime ipotesi di reato – l’illiceità della condotta si ritiene integrato anche in presenza di autorizzazioni giudicate palesemente illegittime, ad esempio perché non in linea con le migliori tecnologie disponibili.[xxxiii]

In tal senso depone d’altronde la recente direttiva UE 2014/1203 dell’11 aprile 20124 sulla “tutela penale dell’ambiente” il cui art. 3 (Reati), par. 1, ultimo periodo, precisa: “Tale condotta è illecita anche se posta in essere su autorizzazione rilasciata da un’autorità competente di uno Stato membro, qualora tale autorizzazione sia stata ottenuta in modo fraudolento o mediante corruzione, estorsione o coercizione, o qualora tale autorizzazione violi palesemente i pertinenti requisiti normativi sostanziali”.[xxxiv]

Aggiungasi che diversi passaggi motivazionali della pronuncia della Consulta in esame (in particolare ai ricordati capi 5.4.1. e 6)[xxxv] che insistono su presupposti, ratio, finalità e limiti della normativa censurata, trovano un significato ed una giustificazione soltanto allorquando sia assicurata una conseguente verifica giurisdizionale del relativo rispetto nel caso concreto.[xxxvi] Un controllo quest’ultimo che rientra senz’altro tra i poteri-doveri di sindacato del giudice amministrativo (in particolare di verifica della fondatezza di eventuali censure di eccesso di potere per difetto dei presupposti, sviamento dalla causa tipica, violazione del principio di proporzionalità); ma anche in quelli dei giudici ordinari (con esclusione, dunque, del solo giudice penale del sequestro).

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NOTE:

[i] La riforma di cui alla legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1 è stata ampiamente commentata. Inter alia vds. M. D’AMICO, Una riforma costituzionale importante, su questa Rivista, 26 Feb. 2022; nonché L. BUTTI, Costituzione, ambiente e future generazioni, in questa Rivista, 2 Nov. 2023.

[ii] Così ASVIS-Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, nel comunicato La Corte costituzionale emette la prima storica sentenza ambientale, in www.asvis.it In dottrina M. CARDUCCI, Il duplice “mandato” ambientale tra costituzionalizzazione della preservazione intergenerazionale, neminem laedere preventivo e fattore tempo. Una prima lettura della sentenza della Corte costituzionale n. 105 del 13 giugno 2024, https://www.dpceonline.it/

[iii] In termini critici sulla pronuncia in esame vds. invece G. GIORGINI PIGNATIELLO, L’approccio “pilatesco” del Giudice delle leggi alla revisione costituzionale dell’ambiente. Prime riflessioni (critiche) a margine della sent. n. 105 del 2024, https://www.dpceonline.it/. Ed anche G. AMENDOLA, Economia e salute, Corte Costituzionale, Corte Europea: quale bilanciamento per ILVA e Priolo?, in www.lexambiente.it

[iv] Pubblicata in Gazz. Uff., prima serie speciale, n. 6 del 7 febbraio 2024.

[v] Le quali (nell’evidente tentativo di salvare la norma censurata da una temuta declaratoria di incostituzionalità) avevano appunto sostenuto che, in forza delle testè richiamate previsioni, il ricordato comma 1-bis.1, letto nel suo complesso, in realtà ben consentirebbe al giudice penale di valutare l’idoneità delle misure governative ad assicurare il corretto bilanciamento tra gli interessi in gioco, o comunque di non autorizzare la prosecuzione dell’attività quando dalla stessa possa derivare un concreto pericolo per la salute o l’incolumità pubblica ovvero per la salute o la sicurezza dei lavoratori non evitabile con alcuna prescrizione.

[vi] Vds. sempre al capo 4.3.: “Contrariamente a quanto sostenuto dall’interveniente e dalle parti costituite, non può però desumersi dalla previsione dell’appello di cui al comma 1-bis.2 che il giudice conservi un qualche residuo potere di bilanciare discrezionalmente gli opposti interessi in gioco: e di dettare così misure che si discostino da quelle stabilite dal Governo ai sensi del quinto periodo del comma 1-bis.1, o addirittura di vietare la prosecuzione dell’attività sulla base di un discrezionale apprezzamento relativo ad un «concreto pericolo» di pregiudizio per i beni collettivi di cui ragiona il quarto periodo”.

[vii] Come auspicato dalla più attenta dottrina, tra cui G.L. CONTI, Costituzione e ambiente: prendere sul serio la legge costituzionale 1/2022, in Rivista quadrimestrale di diritto dell’ambiente, n. 1/2023, pag. 117 ss.; e M. CECCHETTI, La revisione degli articoli 9 e 41 della Costituzione e il valore costituzionale dell’ambiente: tra rischi scongiurati, qualche virtuosità (anche) innovativa e molte lacune, in Forum di Quaderni costituzionali, n. 3/2021, pag. 285 s.;

[viii] Più precisamente con la sentenza n. 85 del 2013 la Corte Cost. ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 9, comma 2, 24, comma 1, 32, 41, comma 2, 101, 102, 103, 104, 107, 111, 112 e 113 Cost., dell’art. 1 d.l. 3 dicembre 2012, n. 207, convertito, con modifiche, in l. 24 dicembre 2012, n. 231, la quale prevede che, presso gli stabilimenti dei quali sia riconosciuto l’interesse strategico nazionale con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri e che occupino almeno duecento persone, l’esercizio dell’attività di impresa, quando sia indispensabile per la salvaguardia dell’occupazione e della produzione, possa continuare per un tempo non superiore a 36 mesi, anche nel caso sia stato disposto il sequestro giudiziario degli impianti, nel rispetto delle prescrizioni impartite con una autorizzazione integrata ambientale rilasciata in sede di riesame, al fine di assicurare la più adeguata tutela dell’ambiente e della salute secondo le migliori tecniche disponibili giacché realizza un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare di quello alla salute (art. 32 cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e di quello al lavoro (art. 4 cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso. Sulla decisione vds. inter alia, V. ONIDA, Un conflitto fra poteri sotto la veste di questione di costituzionalità: amministrazione e giurisdizione per la tutela dell’ambiente, in Giurisprudenza Costituzionale, fasc.3, 2013, pag. 1494D; e R. BIN, Giurisdizione o amministrazione, chi deve prevenire i reati ambientali? Nota alla sentenza “Ilva”, in Giurisprudenza costituzionale, fasc.3, 2013, pag. 1505B.

[ix] Così M. CARDUCCI, ult.loc. cit.

[x] Si tratta del capo 9 della parte in diritto della sentenza n. 85/2013 ove si legge: “Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona. Per le ragioni esposte, non si può condividere l’assunto del rimettente giudice per le indagini preliminari, secondo cui l’aggettivo «fondamentale», contenuto nell’art. 32 Cost., sarebbe rivelatore di un «carattere preminente» del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona. Né la definizione data da questa Corte dell’ambiente e della salute come «valori primari» (sentenza n. 365 del 1993, citata dal rimettente) implica una “rigida” gerarchia tra diritti fondamentali. La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale.

[xi] Sul tema, vds. ad es. G.L. CONTI, ult. loc. cit. Assai netta la posizione di M. MALO, L’ambiente come valore costituzionale è un promemoria anche per la Consulta, Il fatto quotidiano, 4 marzo 2022.

[xii] In particolare con la sentenza della Corte Costituzionale, 23/03/2018, n. 58 vennero dichiarati incostituzionali gli art. 3 d.l. n. 92 del 2015 e 1 comma 2, e 21 octies d.l. n. 83 del 2015, conv. dalla l. 6 agosto 2015 n. 132, nella parte in cui prevedevano che la prosecuzione dell’attività d’impresa fosse subordinata esclusivamente alla predisposizione unilaterale, entro trenta giorni, di un “piano”, anche provvisorio, ad opera della stessa parte privata colpita dal sequestro dell’autorità giudiziaria, senza alcuna forma di partecipazione di altri soggetti pubblici o privati, in totale assenza della richiesta di misure immediate e tempestive atte a rimuovere prontamente la situazione di pericolo per l’incolumità dei lavoratori e di riferimento a specifiche disposizioni delle leggi in materia di sicurezza sul lavoro o ad altri modelli organizzativi e di prevenzione.

[xiii] Il riferimento è alle sentenze n. 46 del 2021; n. 237 del 2020; n. 93 del 2017; n. 22 del 2016; n. 67 del 2013; n. 142 del 2010; n. 29 del 2010; n. 246 del 2009; n. 419 del 1996.

[xiv] Sul tema si rinvia all’ormai classico saggio di R. BIFULCO, Diritto e generazioni future. Problemi giuridici della responsabilità intergenerazionale, Milano, 2008.

[xv] Su questa pronuncia vds. inter alia L. BARTOLUCCI, Il più recente cammino delle generazioni future nel diritto costituzionale, in Osservatorio costituzionale AIC n. 4/2021, pag. 212 ss.; nonché R. BIFULCO, Ambiente e cambiamento climatico nella Costituzione italiana, in Rivista AIC-Associazione Italiana dei Costituzionalisti, n. 3/2023, pag. 132 ss.

[xvi] Così M. CECCHETTI, op.cit., pag. 311, con riferimento al sindacato costituzionale. Sia consentito rinviare (nella specifica prospettiva dell’applicazione dei principi agli impatti delle industrie chimiche) anche a M. CERUTI, Contaminazione della catena alimentare da sostanze perfluoroalchiliche. Profili giuridici penali, amministrativi e costituzionali, in Rivista di scienza dell’alimentazione, settembre – dicembre 2022, pag. 34, ove si evidenziava che “Le due nuove clausole costituzionali, dell’obbligo di tutela dell’ambiente in chiave intergenerazionale e dell’espresso limite all’attività imprenditoriale rappresentato dall’assenza di danni ambientali e sanitari, impongono dunque una valutazione a lungo termine (le generazioni future!) degli effetti ambientali e sanitari delle sostanze chimiche utilizzate nell’impresa; tanto più laddove si tratti di sostanze persistenti e bio-accumulabili in cui il potenziale danno (ambientale e sanitario) a lungo termine è quasi in re ipsa. Di ciò si dovrà dunque tener conto in tutte le fasi amministrative: dall’individuazione delle dosi tollerabili al disegno dei piani di monitoraggio, alla successiva caratterizzazione del rischi sanitari. Ma di questa logica di lungo periodo (che deve guardare anche alle future generazioni) si dovrà tener conto anche nel momento dell’applicazione giudiziaria delle norme: si pensi, nel caso dei reati contro la pubblica incolumità, come appunto all’avvelenamento delle acque e degli alimenti (ma anche ai reati di disastro), al tema centrale – e controverso – dei criteri giudiziari di accertamento del pericolo per la salute pubblica rilevante ai sensi dell’art. 439 c.p., ossia del parametro cui ancorare il superamento dei valori soglia tollerati dall’ordinamento giuridico, ossia il cd. “rischio consentito”.

[xvii] Sul tema vds. inter alia P. FIMIANI, Inquinamento ambientale e diritti umani, in www.questionegiustizia.it

[xviii] Sia pure con riferimento al diverso tema della necessaria pubblicità e partecipazione procedimentale dei cittadini.

[xix] Sulla sentenza vds. i due articoli pubblicati su questa Rivista, n. 54 di giugno 2024, di T. SCOVAZZI, La Corte europea sui diritti umani si pronuncia sul cambiamento climatico, e di A. GALLARINI, La CEDU sul Cambiamento climatico: l’inerzia o un contrasto non efficace da parte dei governi violano il diritto al rispetto della vita privata e familiare.

[xx] Si fa qui riferimento in particolare a M. CECCHETTI, op.cit., pag. 306, secondo il quale “L’intestazione formale alla Repubblica di tale “nuovo” compito, unita alla sua collocazione topografica tra i primi dodici articoli (laddove si individuano i «Principi fondamentali») della Carta costituzionale, rende assolutamente inequivoca la scelta del legislatore di revisione di accogliere la configurazione dell’interesse alla tutela ambientale come “valore costituzionale”, ossia come “principio fondamentale” a carattere oggettivo e affidato alla cura di apposite politiche pubbliche, scongiurandone, per ciò stesso, il rischio di una qualificazione giuridica in termini di situazione soggettiva e, in particolare, di farne l’oggetto di un “diritto fondamentale””; soggiungendo che “non è affatto un caso, d’altra parte, che il nostro Giudice delle leggi abbia qualificato la salvaguardia dell’ambiente come «diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della collettività» in una sola, isolata e assai risalente, occasione (sent. n. 210/1987), mai più confermata in seguito”.

[xxi] Sul contenzioso climatico vds. inter alia, E. MASCHIETTO, Le controversie in materia di cambiamento climatico, in S. NESPOR – L. RAMACCI (a cura di), Codice dell’ambiente, Milano, 2022, pagg. 1568 ss.; M. MAGRI, Il 2021 è stato l’anno della giustizia climatica?, in www.ambientediritto.it ; R. BIFULCO, Ambiente e cambiamento climatico nella Costituzione italiana, in www.rivistaaic.it

[xxii] Con una motivazione che parrebbe legittimare la possibilità (per il vero non proprio così evidente dalla lettura della norma censurata) “per lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri, di delegare a uno o più ministri l’adozione concreta delle misure cui dovrà essere condizionata la prosecuzione dell’attività produttiva stessa”, soggiungendo: “Il che è, del resto, quanto è puntualmente accaduto nel caso oggetto del giudizio a quo, in cui il d.P.C.m. del 3 febbraio 2023 ha demandato a un successivo «decreto del Ministro delle imprese e del made in Italy, da adottarsi di concerto con il Ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica, sentiti i Ministri della salute, delle infrastrutture e dei trasporti, del lavoro e delle politiche sociali e l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA)», la definizione delle misure in questione”.

[xxiii] Individuata quale soluzione costituzionalmente adeguata anche da ultimo: si richiamano nella pronuncia i recenti precedenti di cui alle sentenze n. 91 del 2024, punto 10 del Considerato in diritto; n. 5 del 2024, punto 4.1. del Considerato in diritto.

[xxiv] Si tratta della vicenda del cd. “tubone” della zona industriale Aussa Corno nella bassa friulana, oggetto della sentenza del Tribunale penale di Udine (Pres. Reinotti: PM Leghissa), dep. il 12 marzo 2011 n. 1624; confermata dalla sentenza della Corte App. Trieste del 30.01.2013 e, quindi, dalla Corte di Cassazione, Sez. III pen., 3.07.2014 n. 28544.

[xxv] Si legga in particolare il capo 3.2. della parte in diritto della sentenza n. 58/2018: “Nel caso oggi portato all’esame di questa Corte, invece, il legislatore non ha rispettato l’esigenza di bilanciare in modo ragionevole e proporzionato tutti gli interessi costituzionali rilevanti, incorrendo in un vizio di illegittimità costituzionale per non aver tenuto in adeguata considerazione le esigenze di tutela della salute, sicurezza e incolumità dei lavoratori, a fronte di situazioni che espongono questi ultimi a rischio della stessa vita. Infatti, nella normativa in giudizio, la prosecuzione dell’attività d’impresa è subordinata esclusivamente alla predisposizione unilaterale di un “piano” ad opera della stessa parte privata colpita dal sequestro dell’autorità giudiziaria, senza alcuna forma di partecipazione di altri soggetti pubblici o privati. Il legislatore concede un termine di trenta giorni per la predisposizione del piano, il quale peraltro può anche essere provvisorio: dunque, manca del tutto la richiesta di misure immediate e tempestive atte a rimuovere prontamente la situazione di pericolo per l’incolumità dei lavoratori. Tale mancanza è tanto più grave in considerazione del fatto che durante la pendenza del termine è espressamente consentita la prosecuzione dell’attività d’impresa “senza soluzione di continuità”, sicché anche gli impianti sottoposti a sequestro preventivo possono continuare ad operare senza modifiche in attesa della predisposizione del piano e, quindi, senza che neppure il piano sia adottato. L’unico limite temporale effettivo è posto al comma 2, che stabilisce che l’attività di impresa non può protrarsi per un periodo di tempo superiore a dodici mesi dall’adozione del provvedimento di sequestro. Quanto al contenuto, il piano deve recare «misure e attività aggiuntive, anche di tipo provvisorio», non meglio definite, neppure attraverso un rinvio, che pure sarebbe stato possibile, alla legislazione in materia di sicurezza sul lavoro. Il mancato riferimento a specifiche disposizioni delle leggi in materia di sicurezza sul lavoro o ad altri modelli organizzativi e di prevenzione lascia sfornito l’ordinamento di qualsiasi concreta ed effettiva possibilità di reazione per le violazioni che si dovessero perpetrare durante la prosecuzione dell’attività. Nella formazione del piano non è prevista alcuna partecipazione di autorità pubbliche, le quali devono essere informate solo successivamente. Tale comunicazione assume la forma di una mera comunicazione-notizia, per quanto riguarda l’autorità giudiziaria procedente (art. 3, comma 3) e si traduce nell’attribuzione di un generico potere di monitoraggio e ispezione per quanto riguarda INAIL, ASL e Vigili del Fuoco; tale potere, peraltro, si limita alla verifica della corrispondenza tra le misure aggiuntive indicate nel piano e quelle in concreto attuate dall’impresa, così da renderne ambigua e indeterminata l’effettiva possibilità di incidenza (art. 3, comma 4).

[xxvi] Si veda sull’argomento S.H. SWAN, Count Down, Fazi editore, 2022.

[xxvii] Sia pure provvisoriamente e condizionatamente al rispetto delle -ordinarie- regole procedimentali di adeguata istruttoria e congrua motivazione, e con un limite triennale di durata massima.

[xxviii] Sul tema sia consentito rinviare a M. CERUTI, Ambiente e legalità: problemi e prospettive del sistema amministrativo italiano e veneto, in M. MALO, Giustizia per l’ambiente: pace per la comunità, Padova, 2019, pag. 87 ss..

[xxix] Così ad es. tutta la giurisprudenza in materia di tutela dal rumore: vds. ad es. Cassazione civile, sez. II, 12/11/2018, n.28893, in Riv.giur. edilizia, 2019, 2, I, 406.

[xxx] Ad esempio laddove al capo 4.3. si precisa: “In questa fase, l’apprezzamento della sussistenza o meno di tale concreto pericolo spetta dunque al solo Governo, nell’ambito della procedura avviata con la dichiarazione di interesse strategico nazionale dello stabilimento”. E successivamente, sempre al capo 4.3., si legge: “una volta che il Governo, nell’ambito della procedura di cui al “decreto Ilva”, abbia dettato le misure di bilanciamento, al cui rispetto è condizionata la prosecuzione dell’attività, non residua più in capo al giudice del sequestro alcun margine di discrezionalità nella valutazione degli interessi in gioco, e nelle determinazioni conseguenti”.

[xxxi] Sull’argomento dello “scudo dell’autorizzazione” in sede penale e dei margini di sindacato giurisdizionale vds. A.R. DI LANDRO, La responsabilità per l’attività autorizzata nei settori dell’ambiente e del territorio, Torino, 2018; nonché il più risalente M. SANTOLOCI – V. STEFUTTI, Guida pratica conto gli ‘illeciti ambientali in bianco’, Piacenza, 2008. In termini di riconoscimento, desumibile dalla sentenza della Corte Cost. n. 105/2024, di un sindacato più esteso da parte del giudice penale vds. G. AMENDOLA, Economia e salute, Corte Costituzionale, Corte Europea: quale bilanciamento per ILVA e Priolo?, in www.lexambiente.it, secondo cui “Insomma, sembra di capire che, se da un lato il giudice deve dare attuazione a queste misure governative, dall’altro, trattandosi di provvedimento amministrativo, deve anche verificare la loro legittimità alla luce della legge n. 241 sul procedimento amministrativo (in particolare, adeguata attività istruttoria, congrua motivazione sui presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione in relazione alle risultanze dell’istruttoria, partecipazione delle autorità locali ecc.). Con la conseguenza -aggiungiamo noi- che, ai sensi dell’art. 5, legge. n. 2248/1865, all. E, potrà disapplicare tale provvedimento qualora lo ritenesse non conforme alla legge. Tanto più che proprio la Corte, come si è detto, sottolinea che il nuovo testo dell’art. 41 della Costituzione vieta che l’iniziativa economica privata si svolga in modo da recare danno alla salute o all’ambiente: e nessuna misura potrebbe legittimamente autorizzare un’azienda a continuare a svolgere stabilmente la propria attività in contrasto con tale divieto”.

[xxxii] Con questa sentenza “sentenza interpretativa di rigetto” la Consulta dichiarò la costituzionalità delle norme impugnate (ossia il combinato disposto degli artt. 674 c.p. e 2 n. 7 d.P.R. 24 maggio 1988 n. 203, sollevata in riferimento agli artt. 32 comma 1, e 41 commi 1 e 2 Cost., nella parte in cui consentirebbero al titolare di un impianto di non adottare la migliore tecnologia disponibile per il contenimento delle emissioni inquinanti allorché questo comporti costi eccessivi per l’azienda) allorché queste vengano interpretate nel senso che il limite del “costo eccessivo” delle migliori tecnologie può venire in causa soltanto quando comunque sia rispettato quello indefettibile rappresentato dalla tollerabilità per la tutela della salute e dell’ambiente in cui l’uomo vive.

[xxxiii] Così Cass. pen., sez. III, n. 33089 del 15/07/2021 secondo cui, in reazione alla fattispecie dell’art. 452-quaterdecies c.p., “la verifica della rispondenza delle autorizzazioni ambientali alle BAT, in relazione al tipo di attività svolta e alla incidenza della eventuale difformità, e, in ogni caso, il rispetto di queste ultime (anche in questo caso, tenendo conto del tipo di attività e della rilevanza della eventuale inosservanza delle BAT conclusions), assume rilievo al fine dell’accertamento della abusività della condotta, in quanto le stesse concorrono a definire il parametro, di legge o di autorizzazione, di cui è sanzionata la violazione e la cui inosservanza, se incidente sul contenuto, sulle modalità e sugli esiti dell’attività svolta, può determinare l’abusività di quest’ultima, in quanto esercitata sulla base di autorizzazione difforme da BAT Conclusions rilevanti ai fini di tale attività o in violazione di queste ultime”. In termini Cass. pen., sez. IV, n. 39150 del 27/09/2022, in cui la Suprema Corte ha ulteriormente precisato che “le migliori tecniche disponibili idonee a definire il parametro autorizzativo la cui inosservanza è sanzionata, non sono solo le BAT Conclusions, ma anche i BREF sulla base dei quali le BAT vengono elaborate, che la Commissione europea deve raccogliere e pubblicare ai sensi dell’art. 16, paragrafo 2, della Direttiva 96/61/CE”.

[xxxiv] Su cui vds. il 10° Considerando: “Una condotta dovrebbe essere illecita anche se si verifica su autorizzazione rilasciata da un’autorità competente dello Stato membro, quando l’autorizzazione è ottenuta in modo fraudolento o mediante corruzione, estorsione o coercizione. Inoltre il possesso di tale autorizzazione non dovrebbe impedire che il titolare sia considerato penalmente responsabile qualora l’autorizzazione violi manifestamente i pertinenti requisiti giuridici sostanziali. L’espressione «in manifesta violazione dei pertinenti requisiti giuridici sostanziali» dovrebbe essere interpretata come riferita a una violazione manifesta e rilevante di pertinenti requisiti giuridici sostanziali e non è intesa a comprendere violazioni dei requisiti procedurali o di elementi minori dell’autorizzazione, o a trasferire l’obbligo di garantire che le autorizzazioni siano legali dalle autorità competenti agli operatori. Inoltre, qualora sia richiesta un’autorizzazione, il fatto che l’autorizzazione sia legale non esclude procedimenti penali nei confronti del titolare dell’autorizzazione se quest’ultimo non rispetta tutti gli obblighi di autorizzazione da essa previsti o altri obblighi giuridici pertinenti non contemplati dall’autorizzazione”.

Sulla nuova direttiva (e sulla specifica tematica relativa alla definizione di condotta illecita ambientale) vds. G. AMENDOLA, La nuova direttiva ecoreati: un primo sguardo generale, in https://www.osservatorioagromafie.it

[xxxv] Vds. al capo 5.4.1. i seguenti passaggi motivazionali: “le misure legittimamente adottabili dal Governo allo scopo di consentire provvisoriamente la prosecuzione di un’attività di interesse strategico nazionale dovranno, semmai, essere funzionali all’obiettivo di ricondurre gradualmente l’attività stessa, nel minor tempo possibile, entro i limiti di sostenibilità fissati in via generale dalla legge in vista – appunto – di una tutela effettiva della salute e dell’ambiente”. Per cui “le misure in questione … dovranno naturalmente mantenersi all’interno della cornice normativa fissata dal complesso delle norme di rango primario in materia di tutela dell’ambiente e della salute – dovranno tendere a realizzare un rapido risanamento della situazione di compromissione ambientale o di potenziale pregiudizio alla salute determinata dall’attività delle aziende sequestrate. E non già, invece, a consentirne indefinitamente la prosecuzione attraverso un semplice abbassamento del livello di tutela di tali beni”. E al capo 6 ove si precisa che “in pendenza del termine [di operatività delle misure governative, n.d.r.] occorrerà in ogni caso assicurare il completo superamento delle criticità riscontrate in sede di sequestro e il ripristino degli ordinari meccanismi autorizzativi previsti dalla legislazione vigente, in conformità alle indicazioni discendenti dal diritto dell’Unione europea”.

[xxxvi] Anche in relazione all’adeguatezza del termine di efficacia stabilito per le misure governative derogatorie della normativa e delle autorizzazioni ambientali, non necessariamente legittimo sol perché contenuto nel massimo di trentasei mesi.

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