Sul momento consumativo della contravvenzione di inottemperanza all’ordine di rimozione

02 Giu 2023 | giurisprudenza, penale

Di Vincenzo Morgioni

Corte di Cassazione, Sez. III – 13 gennaio 2023 (dep. 12 aprile 2023), n. 15238 – Pres. Ramacci, Est. Andronio – ric. Cesarulo

Il reato di cui all’art. 255, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, ha natura permanente e la scadenza del termine per l’adempimento non indica il momento di esaurimento della condotta, bensì l’inizio della fase di consumazione che si protrae sino al momento dell’ottemperanza all’ordine ricevuto. Tale principio muove dal presupposto che la natura di reato omissivo permanente della contravvenzione è individuata tenendo conto del fatto che il termine per l’adempimento di quanto indicato nell’ordinanza è fissato al solo fine di stabilire il regolare e tempestivo adempimento della prescrizione, che può essere adempiuta in modo utile, sia pure tardivo; sicché non viene meno l’obbligo di agire anche dopo la scadenza del termine.”.

  1. Il caso e la tesi del ricorrente.

La questione sottoposta al vaglio della Suprema Corte attiene alla natura di reato permanente della fattispecie di cui all’art. 255, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006 – Testo unico Ambientale (da adesso, T.U.A.), per la quale è punito con la pena dell’arresto fino ad un anno chiunque non ottemperi all’ordinanza del Sindaco, di cui all’articolo 192, comma 3 (quindi, per la rimozione, per l’avvio a recupero o per lo smaltimento dei rifiuti e per il ripristino dello stato dei luoghi) o non adempia all’obbligo di cui all’articolo 187, comma 3 T.U.A. (per la separazione dei rifiuti pericolosi miscelati contro il disposto dell’art. 187, comma 1 T.U.A.).

Esaminando il caso di specie, avverso la pronuncia della Corte d’Appello di Salerno che, in adesione alle statuizioni assunte dal Tribunale di Vallo della Lucania, confermava la responsabilità del ricorrente in ordine all’ipotesi di inottemperanza all’ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti, veniva proposto un unico motivo di gravame, vertente appunto sul momento consumativo della fattispecie in esame.

Secondo la difesa, posta la natura di reato solo “eventualmente permanente” dell’ipotesi in esame, il termine di prescrizione sarebbe da considerarsi spirato, in quanto il momento consumativo coinciderebbe con la data della prima contestazione dell’inottemperanza all’ordine di rimozione e non con la sentenza di primo grado come invece ribadito nella pronuncia della Corte d’Appello sostenendo la qualifica di reato permanente dell’ipotesi di cui all’art. 255, comma 3, T.U.A.

  1. La decisione della Suprema Corte.

La Suprema Corte non ha, tuttavia, ritenuto condivisibile la tesi della difesa, addivenendo ad una pronuncia di carattere meramente ricognitivo dell’uniforme orientamento di legittimità formatosi sulla natura della contravvenzione in esame.

Si ritiene possibile sintetizzare il contenuto della decisione individuando due punti salienti: un primo attiene, appunto, all’individuazione del momento consumativo della fattispecie in ordine al quale la Suprema Corte, aderendo all’orientamento consolidato, ha ribadito come il reato di inottemperanza all’ordinanza di rimozione debba considerarsi “permanente” con la conseguenza che “la scadenza del termine per l’adempimento non indica il momento di esaurimento della condotta, bensì l’inizio della fase di consumazione che si protrae sino al momento dell’ottemperanza all’ordine ricevuto”.

In breve, secondo il ragionamento della Suprema Corte, il termine per l’adempimento indicato in ordinanza sarebbe fissato al solo fine di stabilire la regolare e tempestiva ottemperanza alla prescrizione che può essere adempiuta in modo utile, sia pure tardivo; sicché non verrebbe meno l’obbligo di agire anche dopo la scadenza del termine.

Il secondo aspetto saliente riguarda, invece, l’onere di prova del concreto adempimento (o meno) ai contenuti dell’ordinanza: salvo prova contraria della difesa, qualora risulti dalla sentenza, dagli atti processuali o da prove logiche il protrarsi della permanenza oltre la data della contestazione, sarà possibile ritenere il tempus commissi delicti fino al momento della pronuncia di primo grado o a quello più anteriore rilevabile dagli atti.

  1. Sulla distinzione tra reati permanenti, “eventualmente permanenti” e a “effetti permanenti”.

In realtà, a parere dello scrivente, i due punti salienti paiono strettamente connessi e riconducibili a quella che si potrebbe indicare come la questione principale della pronuncia in esame, imperniata appunto sul momento consumativo dell’ipotesi di cui all’art. 255, comma 3, d.lgs. 152/2006 e, di conseguenza, sulla possibilità di annoverare quest’ultima tra i reati permanenti.

Infatti, in fin dei conti, la prova della permanenza deve necessariamente attraversare la cruna della qualificazione del reato di inottemperanza all’ordinanza di rimozione, non essendo altro che il riflesso processuale di una caratteristica peculiare del reato.

Ebbene, anche al fine di agevolare il lettore nella disamina della pronuncia e nella lettura delle conclusioni del presente commento, pare doveroso ricordare come, accanto alla categoria dei reati a consumazione istantanea, la giurisprudenza abbia creato la “mutevole” figura del reato permanente ove il protrarsi nel tempo della situazione antigiuridica è circostanza senz’altro rilevante.

Questo in quanto, anche qualora il reato si sia perfezionato con il positivizzarsi della condotta ed eventualmente, ove previsto, anche dell’evento, l’offesa non potrà definirsi cessata finché perdurerà la situazione antigiuridica[1].

Ciò premesso, sinteticamente, nel corso del tempo la “tradizionale” figura del reato permanente è stata declinata dagli interpreti in almeno due ulteriori modi diversi (da qui, l’aggettivo “mutevole”) fino a giungere alla sotto – distinzione tra reati “eventualmente permanenti” e reati “ad effetti permanenti”.

Sotto la prima categoria rientrano quelle ipotesi suscettibili di essere perfezionate istantaneamente già con il compimento del primo atto criminoso, ma la cui consumazione può – appunto, eventualmente – proseguire tramite una reiterazione della condotta da parte del soggetto agente[2].

In modo in parte differente, la giurisprudenza ha spesso fatto ricorso anche alla figura del reato istantaneo con effetti permanenti, riferendosi invece a quella tipologia di fattispecie in cui i soli effetti del fatto criminoso, già consumatosi istantaneamente, sono destinati a protrarsi nel tempo[3].

  1. La natura dell’ipotesi di cui all’art. 255, comma 3 T.U.A. Osservazioni critiche sulle conclusioni della Suprema Corte.

Chiarita, sia pur in linea di massima, la distinzione creatasi nell’insieme dei reati permanenti e tornando alla pronuncia in esame, in questa sede non si può, innanzitutto, che prendere atto della assoluta prevalenza dell’indirizzo richiamato dalla decisione in esame, per il quale, come detto, il reato in questione potrebbe definirsi senza ombra di dubbio come permanente[4].

Nel contempo, tuttavia, si ritiene altresì opportuno dare evidenza ad un diverso orientamento, meritevole di essere preso in considerazione se non altro perché realmente fedele alle caratteristiche essenziali della fattispecie in esame ed in grado di stimolare l’interprete ad una più attenta disamina del caso di specie di volta in volta sottoposto alla propria attenzione.

In particolare, secondo il diverso indirizzo occorrerebbe porre una distinzione in relazione al tipo di termine imposto per l’adempimento: ove questo, in particolare, avesse natura perentoria, il reato si perfezionerebbe già alla sua scadenza; al contrario, ove il termine non fosse perentorio, varrebbe il principio enunciato anche dalla sentenza in esame, per il quale – potendo sempre l’agente porre fine alla situazione antigiuridica sanzionata dalla norma incriminatrice, anche dopo la scadenza – il reato avrebbe natura permanente e la consumazione cesserebbe soltanto a seguito  dell’esecuzione dell’ordine da parte dell’agente[5].

Nonostante si tratti di un orientamento minoritario, si ritiene, come accennato, che quanto riportato sia, in realtà, perfettamente in linea con la natura di norma penale in bianco del reato ex art. 255, comma 3, T.U.A., il cui precetto è, quindi, destinato ad essere declinato in relazione all’effettivo contenuto dell’ordinanza[6]. Con la conseguenza che, allora, sarà proprio quest’ultimo a delineare il perimetro dell’offesa penalmente rilevante nel quale, dunque, la natura del termine non potrà certo considerarsi un elemento di secondo ordine, con tutte le conseguenze che ne potranno derivare anche in relazione al momento consumativo.

Da qui, dunque, la necessità che l’interprete compia uno sforzo ulteriore senza abbandonarsi pigramente a decisioni tralatizie e ricerchi la chiave di lettura nella lettera della norma e nelle sfumature del caso di specie[7].

Ciò posto dunque, laddove si dovesse accertare la natura meramente ordinatoria del termine, con possibilità di messa in pristino della situazione antigiuridica da parte del soggetto agente, il reato di cui all’art. 255, comma 3, T.U.A. non potrebbe che qualificarsi come permanente, così come inquadrato dalla Suprema Corte nella decisione esaminata.

Diversa, invece, l’ipotesi in cui l’ordinanza riporti un termine perentorio, considerato che, in tal caso, l’offesa al bene giuridico si manifesterebbe chiaramente e in tutta la sua interezza già al momento della scadenza.

Una soluzione quest’ultima che potrebbe trovare il proprio appiglio interpretativo nella tripartizione summenzionata (permanente, effetti permanenti, eventualmente permanente) che, a sua volta, consentirebbe di non ignorare gli effetti del reato (al più valutabili sotto il profilo della gravità del fatto) senza la necessità, nel contempo, di dover spostare in avanti il momento consumativo e di dover, quindi, forzare il dato normativo.

Del resto, proprio il contenuto proteiforme degli ordini di rimozione ha dato luogo, di riflesso, ad una variegata giurisprudenza formatasi sul “corrispondente codicistico” della fattispecie in esame, ovvero l’art. 650 c.p. (inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità), attestando così la rilevanza della natura del termine indicato nel provvedimento. Aspetto che, come detto, l’interprete non potrà certo ignorare nel rapportarsi con l’ipotesi di cui all’art. 255, comma 3 T.U.A. e con i relativi risvolti applicativi[8].

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V Morgioni – rev. def

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Cass. III, 15238_2023 (Morgioni)

NOTE:

[1] Così, G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale – Parte generale, 2020, p.283.

[2] Un chiaro esempio rinvenibile anche tra le più recenti pronunce di legittimità è costituito dal delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, in merito al quale la Suprema Corte ha chiarito la natura di reato “eventualmente permanente, che si perfeziona nel primo momento di realizzazione della condotta finalizzata a eludere le pretese del fisco e la cui consumazione può protrarsi per tutto il tempo in cui vengono posti in essere atti idonei a mettere in pericolo l’obbligazione tributaria” (Così, Corte Cass. pen., Sez. III, 28 aprile 2021, n. 28457).

[3] Sul punto, risulta essere significativo l’orientamento giurisprudenziale formatosi sulla natura del reato di deposito incontrollato di rifiuti per il quale “il reato di deposito incontrollato di rifiuti di cui al D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 256, comma 2, può avere natura permanente, nel caso in cui l’attività illecita sia prodromica al successivo recupero o smaltimento dei rifiuti, e si configura invece come reato di natura istantanea con effetti eventualmente permanenti, nel caso in cui l’anzidetta attività si connoti per una volontà esclusivamente dismissiva del rifiuto, che esaurisce l’intero disvalore della condotta” (così, Corte Cass. pen., Sez. III, 24 maggio 2022, n. 32305 con commento di A. Puccio, F. Tomasello, Deposito incontrollato di rifiuti: la Cassazione torna a pronunciarsi sulla natura del reato, in questa Rivista. Sempre in questa Rivista anche R. Mantegazza, Abbandono e deposito incontrollato di rifiuti: (ancora) una pronuncia in tema di tempus commissi delicti).

[4] Diversi sono i precedenti giurisprudenziali in tal senso, molti dei quali anche richiamati nel corpo della sentenza. In merito cfr. Corte Cass. pen., Sez. III, 12 giugno 2018, n. 39430; Corte Cass. pen., Sez. III, 8 aprile 2015, n. 33585; Corte Cass. pen., Sez. III, 18 maggio 2006, n. 23489.

[5] Così Corte Cass. pen., Sez. III, 21 febbraio 2014, n. 17868; Corte Cass. pen., Sez. III, 28 febbraio 2007, 21581.

[6] Sulla natura di norma penale in bianco cfr. V. Paone, sub. art. 255 – l’abbandono di rifiuti, in S. Nespor, L. Ramacci, Codice dell’ambiente, 2022, p. 2613.

[7] In argomento, cfr. F. Coppi, Reato permanente, in Dig. pen., XI, 1996, p. 324 ove si osserva che “ancora una volta, la risposta deve essere trovata nella norma incriminatrice, dalla quale deve risultare se, compiuta l’offesa nel momento della scadenza del termine, ne sia tuttavia possibile la prosecuzione nel tempo essendo anche oltre quella data operante il precetto di agire e configurabile e rilevante la protrazione dell’omissione. Può accadere infatti in determinati casi che il termine indichi soltanto il momento dal quale una omissione assume rilevanza penale, cosicché, da un lato, l’adempimento nel termine impedisce che il reato si realizzi mentre, dal lato opposto, la scadenza del termine senza che l’obbligo sia adempiuto segna la nascita del reato e l’inizio della permanenza”.

[8] In argomento cfr. L. Sacchetto, sub. art. 650, in L. Lattanzi, E. Lupo, Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, 2022, Volume VI, p. 17.

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