Scarichi industriali e autorizzazioni

18 Feb 2021 | giurisprudenza, penale

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 19 novembre 2020 (dep. 15 gennaio 2021), n. 1719 – Pres. Di Nicola, Est. Reynaud – ric. C.M.V. e C.R.D.

La pronuncia in commento scaturisce da un ricorso presentato avverso una sentenza emessa dal Tribunale di Como in materia di scarichi.

Segnatamente, gli imputati ricorrenti erano stati ritenuti responsabili del reato di cui all’art. 137, comma 1, T.U.A. per aver mantenuto, quali legali rappresentanti di una società in nome collettivo, uno scarico di acque reflue industriali in pubblica fognatura in assenza di un provvedimento autorizzativo, essendo scaduto quello precedentemente posseduto.

Le questioni affrontante dalla Suprema Corte, per quanto di interesse sotto il profilo ambientale, sono sostanzialmente due e riguardano:

  • l’affermazione – sulla base della loro sostenuta posizione di garanzia – della penale responsabilità dei soci che non si erano di fatto occupati della stazione di servizio in relazione alla quale era stato accertato lo scarico non autorizzato (situazione fattuale che sarebbe stata affermata dall’impugnata sentenza di merito, e posta alla base della concessione delle circostanze attenuanti generiche);
  • la sostenuta (ir)rilevanza della buona fede che sarebbe stata indotta da comportamenti dell’autorità amministrativa, che avrebbero ingenerato negli imputati il convincimento di poter lecitamente proseguire nell’esercizio dello scarico in precedenza autorizzato.

Rispetto alla prima questione, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile, in quanto manifestamente infondato, il relativo motivo di ricorso.

Dopo aver premesso che del reato in contestazione “risponde innanzitutto il titolare dell’insediamento produttivo da cui origina lo scarico, ferma restando l’eventuale concorrente responsabilità, se diverso, del soggetto che in concreto gestisca l’impianto, in quanto su quest’ultimo grava l’onere di controllare che l’impianto da lui gestito sia munito dell’autorizzazione, presupposto di legittimità della gestione”, e che, con riguardo agli enti collettivi, “la responsabilità per inadempimento degli obblighi penalmente sanzionati che gravano sul soggetto giuridico ricade su chi abbia il potere di agire in nome e per conto del medesimo, vale a dire, in prima battuta, sugli amministratori legali rappresentanti”, la Corte ha concluso – con specifico riferimento alle società in nome collettivo – statuendo che, in tali enti giuridici, il ruolo amministrativo spetta disgiuntamente a ciascun socio (ai sensi del combinato disposto degli artt. 2257, comma 1, e 2293 c.c.), ad eccezione del caso in cui sia intervenuta validamente una delega di funzioni (analoga a quella disciplinata dall’art. 16 D.Lgs. n. 81/2008 in materia di infortuni sul lavoro), e fatta in ogni caso salva la responsabilità penale del delegante che, in caso di commissione di reati colposi da parte del delegato, non abbia ottemperato all’obbligo di vigilanza e controllo.

La Corte di Cassazione ha infine aggiunto che, data l’astratta idoneità della delega di funzioni ad integrare una causa di esclusione della responsabilità, il suo conferimento deve essere formale e dimostrabile da parte di cui lo invoca, a nulla rilevando eventuali suddivisioni “di fatto” nelle incombenze relative alla gestione operativa.

Anche la seconda questione è stata dichiarata infondata.

In merito ai rilievi opposti dai ricorrenti in ordine ai comportamenti degli enti pubblici che avrebbero indotto gli imputati a proseguire nello svolgimento dell’attività di scarico, la Suprema Corte ha preliminarmente precisato che la voltura dell’autorizzazione allo scarico in caso di trasferimento dell’insediamento produttivo non è illegittima, e che nessun rilievo assume l’impossibilità di richiedere il rinnovo dell’autorizzazione almeno un anno prima della scadenza, ex art. 124, comma 8, T.U.A., per essere la voltura intervenuta a meno di un anno dalla scadenza di validità del titolo.

Successivamente – esaminando il punto principale della questione posta alla base del relativo motivo di ricorso – ha ritenuto del tutto irrilevante, ai fini del preteso riconoscimento della buona fede, che nel provvedimento di diniego dell’A.U.A. non vi fosse “un espresso divieto di svolgere l’attività, trattandosi di prescrizione assolutamente non necessaria in quanto chiaramente già imposta dalla legge”, ed ha definito inconferente la doglianza secondo cui il procedimento amministrativo sulla richiesta dell’A.U.A. non si fosse definito nel termine di legge di 90 giorni, non assumendo alcun rilievo, dopo la scadenza dell’autorizzazione, la presenza di un espresso provvedimento di interdizione alla prosecuzione dell’attività.

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RGA Online – sentenza scarichi – nota redazionale

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Cass. pen., Sez. III, 19 novembre 2020 (dep. 15 gennaio 2021), n. 1719