Rifiuti: la Cassazione sull’idoneità dei luoghi in cui avviene la gestione

28 Gen 2022 | giurisprudenza, penale

di Francesca Procopio

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 6 ottobre 2021 (dep. 19 novembre 2021), n. 42426Pres. Di Nicola, Est. Ramacci – ric. R.R. e R.V.

L’attività di gestione dei rifiuti determina rischi potenziali: per tale ragione, la legge la assoggetta a controllo da parte della pubblica amministrazione anche attraverso il rilascio dei necessari titoli abilitativi e l’individuazione dei presupposti per il loro rilascio. Ne deriva che l’idoneità dei luoghi ove vengono effettuate le attività di gestione non è un requisito di secondaria importanza, con l’ulteriore conseguenza che non può ritenersi irrilevante il fatto che un’attività di stoccaggio venga effettuata utilizzando, seppure per un tempo limitato, un luogo diverso da quello stabilito e privo di pavimentazione ed altri accorgimenti idonei a prevenire situazioni di pericolo per l’ambiente. La temporanea permanenza del rifiuto, inoltre, non assume rilievo qualora il luogo di stoccaggio sia continuativamente utilizzato allocandovi altri rifiuti una volta rimossi quelli precedentemente depositati.

  1. Premessa

Con la sentenza n. 42426 del 19 novembre 2021 qui annotata, la Cassazione torna a occuparsi dell’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006, una delle previsioni centrali attorno a cui ruota il complesso sistema sanzionatorio in materia di rifiuti.

In particolare, tra l’articolata serie di fattispecie contravvenzionali previste dalla citata disposizione, il caso sottoposto all’attenzione della Corte ha ad oggetto la gestione di rifiuti non pericolosi in mancanza di autorizzazione, sanzionata dal comma 1, lett. a), e l’inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nell’autorizzazione, di cui al comma 4.

La sentenza ha il merito di fare chiarezza su un importante requisito di fattispecie, ossia l’idoneità dei luoghi nei quali avviene la gestione dei rifiuti. Sul punto, la Cassazione stabilisce che essi non possono in nessun caso essere diversi da quelli indicati nel titolo abilitativo, e precisa altresì che anche una temporanea – ma non occasionale – permanenza del rifiuto in tali luoghi rende la condotta penalmente rilevante.

  1. La vicenda processuale

I fatti oggetto della sentenza in commento riguardano l’attività imprenditoriale di una società cooperativa che si occupa principalmente del recupero e della preparazione per il riciclo di materiale plastico, operante in Colle Val D’Elsa, nella provincia senese.

Il Tribunale di Siena, con sentenza dell’11 novembre 2015, condannava il responsabile tecnico e presidente del consiglio di amministrazione della cooperativa nonché la sua vicepresidente, in concorso tra loro, per le contravvenzioni di gestione di rifiuti in mancanza di autorizzazione, di cui all’art. 256, comma 1, lett. a) D.Lgs. n. 152/2006, in relazione all’utilizzo di due aree dell’azienda per lo stoccaggio dei rifiuti in assenza dei prescritti titoli abilitativi, e per quella di inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nell’autorizzazione, di cui al comma 4 della medesima norma incriminatrice[i], in relazione alla violazione delle prescrizioni di cui all’iscrizione nel registro provinciale delle imprese che effettuano operazioni di recupero dei rifiuti, conseguente all’accumulo – in una zona dell’azienda deputata allo stoccaggio dei rifiuti in entrata – di numerosi rifiuti prodotti dalla cooperativa, conservati in modo tale da non renderli distinguibili da quelli stoccati per la successiva lavorazione ai fini del riciclo.

Gli imputati impugnavano la sentenza dinnanzi la Corte di cassazione, presentando due motivi di ricorso con cui deducevano la violazione di legge e il vizio di motivazione per entrambi i capi d’accusa.

Con riferimento alla contestazione del comma 1 della norma incriminatrice, i ricorrenti rilevavano che, sebbene all’atto del controllo che aveva generato la segnalazione della notizia di reato i rifiuti in entrata stazionassero in un luogo diverso da quello individuato dall’autorizzazione, era stato provato che ciò accadeva soltanto per poche ore, essendo i rifiuti ivi posizionati nell’attesa di essere lavorati e stoccati in aree idonee (i.e. coincidenti con quelle indicate nel titolo abilitativo).

Sulla base delle risultanze processuali, risultava inoltre evidente che tale circostanza fosse ben nota al giudice del merito: pertanto, i ricorrenti lamentavano che un simile temporaneo stazionamento dei rifiuti non avrebbe potuto integrare la fattispecie contestata, avuto riguardo al fatto che l’attività di messa in riserva e stoccaggio – strettamente intesa –, oltre a risultare regolarmente autorizzata, veniva svolta esclusivamente nelle aree aziendali all’uopo indicate nel provvedimento amministrativo, e che il provvisorio accumulo dei rifiuti in luoghi differenti era da ritenersi ad essa prodromico e immediatamente precedente.

Con riguardo alla contestazione del comma 4, i ricorrenti osservavano che i rifiuti da inserire nel ciclo produttivo ai fini della trasformazione e del riciclo erano sì posizionati vicino a quelli che erano generati dal medesimo ciclo produttivo, ma, contrariamente a quanto stigmatizzato nella sentenza di merito, non vi era alcun “ammasso indiscriminato di rifiuti” che contrastasse con le prescrizioni del titolo abilitativo, atteso che le diverse tipologie di materiali erano debitamente separate ed imballate, oltre che facilmente riconoscibili dagli addetti ai lavori.

La Corte, nel rilevare la inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza dei motivi, offre importanti indicazioni ermeneutiche per la corretta interpretazione e applicazione delle citate norme incriminatrici, da un lato argomentando analiticamente le ragioni per cui esse delineano – secondo una tecnica cara al legislatore penale ambientale – reati di pericolo astratto, che rendono la violazione formale del titolo autorizzativo sufficiente per l’integrazione dell’illecito e, dall’altro lato, esprimendosi sulla rilevanza penale della inidoneità dei luoghi in cui avviene la gestione dei rifiuti, allorché essi siano diversi da quelli indicati nel titolo che abilita l’impresa allo svolgimento di tale attività.

  1. Rilevanza dei luoghi in cui avviene la gestione dei rifiuti

La sentenza in commento propone interessanti spunti principalmente in merito al primo motivo di ricorso, attinente al reato di cui all’art. 256, comma 1 D.Lgs. n. 152/2006, che è quello su cui verteranno le considerazioni che seguono.

L’iter motivazionale muove dalla definizione legislativa di “stoccaggio” riportata all’art. 183, comma 1, lett. aa) D.Lgs. n. 152/2006, che vi riconduce “le attività di smaltimento consistenti nelle operazioni di deposito preliminare di rifiuti di cui al punto D15 dell’Allegato B alla parte quarta del decreto (e, cioè, il deposito preliminare prima di una delle operazioni di cui ai punti da D1 a D14, escluso il deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti) nonché le attività di recupero consistenti nelle operazioni di messa in riserva di rifiuti di cui al punto R13 dell’Allegato C alla medesima parte quarta (e, cioè, la messa in riserva di rifiuti per sottoporli a una delle operazioni indicate nei punti da R1 a R12 escluso il deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti)”.

Ciò chiarito, nella lettura della Corte la condotta contestata risulta riconducibile al deposito preliminare e, dunque, alla nozione di “stoccaggio”, di talché risulta soggetta al preventivo conseguimento del titolo abilitativo, in assenza del quale è configurabile la fattispecie di attività di gestione di rifiuti non autorizzata di cui all’art. 256, comma 1 D.Lgs. n. 152/2006.

Inoltre, sebbene la permanenza dei rifiuti nelle due aree dell’azienda non deputate allo stoccaggio fosse effettivamente limitata a poche ore, la Corte ritiene scevro da vizi l’iter motivazionale del giudice del merito, che aveva evidenziato sia come tali aree fossero comunque “priv[e] di pavimentazione ovvero di impianto di raccolta delle acque meteoriche e di eventuali percolati”, e dunque concretamente inidonee a prevenire situazioni di pericolo per l’ambiente, sia come venissero utilizzate a tale scopo continuativamente, essendo “costante la presenza di rifiuti per il fatto che, una volta rimossi quelli da lavorare, altri venivano collocati nella medesima area”.

In altri termini, in aggiunta alla violazione formale consistente nello svolgimento dell’attività di stoccaggio (rectius, di deposito preliminare) in luoghi diversi da quello indicato nel titolo abilitativo, nel caso di specie ricorrevano ulteriori e significativi elementi di fatto che non consentivano di ritenere lecita la condotta degli imputati.

Volendo astrarre dal caso concreto, appare utile evidenziare che la fattispecie contravvenzionale in analisi è configurata dal legislatore come un reato di pericolo astratto[ii], ancorato alla mera assenza della autorizzazione per l’attività di gestione (che, nel caso di specie, non è da ritenersi assoluta bensì limitata ai luoghi “inidonei”.) Invero, nel sottosistema del diritto penale ambientale, e in particolare nella fattispecie in analisi, l’oggetto diretto e immediato della tutela è costituito dal controllo esercitato dalle funzioni amministrative e dal pubblico potere, che risulta connesso alla protezione del bene finale – l’ambiente – da un rapporto di strumentalità[iii].

Tale configurazione trova il suo fondamento, inter alia, nella qualifica di attività di pubblico interesse che, anche sulla scorta della normativa comunitaria, l’ordinamento interno riconosce alla gestione dei rifiuti. Sul punto, la sentenza fa un puntuale e interessante excursus dei principi cardine previsti dalla normativa vigente – in particolare, dagli artt. 177 e 178 D.lgs. n. 152/2006 – e sui criteri generali dell’attività di gestione, che deve essere svolta nel segno del principio di precauzione “assicurando la tutela della salute umana e l’integrità dell’ambiente”, per poi passare in rassegna i numerosi rischi potenziali presidiati sul piano penale, i quali giustificano la vistosa anticipazione della soglia di punibilità.

  1. Considerazioni conclusive

L’arretramento della tutela voluta dal legislatore penale in materia ambientale rende quasi del tutto ininfluente, rispetto alle fattispecie di pericolo astratto, una approfondita disamina e valutazione delle caratteristiche del caso concreto ai fini dell’affermazione della responsabilità penale, essendo a tale scopo sufficiente l’accertamento della formale violazione del provvedimento amministrativo, di per sé indicativa della pericolosità della condotta per il bene giuridico protetto.

Come rilevato da attenta dottrina, il contraltare di tale impostazione legislativa è un “annacquamento”[iv] del principio di offensività, che appare ancor più pregnante con riferimento alle fattispecie di gestione di rifiuti in mancanza di autorizzazione (art. 256, comma 1 D.Lgs. n. 152/2006) e di inosservanza delle prescrizioni (art. 256, comma 4 D.Lgs. n. 152/2006) oggetto della sentenza in commento, nelle quali la tutela dell’ambiente in concreto rimane all’evidenza sullo sfondo.

La pronuncia annotata si pone nel solco di questa impostazione, allorché rileva che “L’attività di gestione [dei rifiuti] […] è un’attività che determina rischi potenziali e che, per tali ragioni, la legge assoggetta a controllo da parte della pubblica amministrazione anche attraverso il rilascio dei necessari titoli abilitativi e l’individuazione dei presupposti per il loro rilascio”, tra i quali proprio l’idoneità dei luoghi adibiti allo svolgimento di tale attività.

Ne consegue che lo svolgimento di un’attività di stoccaggio di rifiuti in un luogo diverso da quello stabilito dal provvedimento amministrativo, seppur per un ristrettissimo arco temporale e in via prodromica allo stoccaggio autorizzato nei luoghi individuati come idonei, è condotta che integra la fattispecie incriminatrice di gestione illecita di rifiuti.

Del resto, la sanzione penale in questo ambito è volta a presidiare in prima battuta l’interesse della pubblica amministrazione a valutare la tollerabilità in concreto della pericolosità della condotta[v], e dunque a prevenire l’insorgenza di una situazione di potenziale pericolo per l’ambiente, bene giuridico finale la cui tutela è soltanto mediata[vi].

In proposito, della sentenza annotata può tuttavia apprezzarsi lo sforzo argomentativo sulle circostanze concrete entro cui si è estrinsecata la condotta, sia sotto il profilo della durata e della non occasionalità della stessa, sia sotto il profilo delle caratteristiche dei luoghi che ne erano oggetto; elementi che, nella ricostruzione convergente del giudice del merito e di quelli di legittimità, sono stati ritenuti rilevanti ai fini della integrazione della fattispecie.

SCARICA L’ARTICOLO IN PDF

procopio – nota a Cass. Pen. n. 42426-2021

Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Giustizia Amministrativa) cliccare sul pdf allegato.

Cass. pen., Sez. III, 42426_2021

[i] Si evidenzia che è discusso in giurisprudenza se la fattispecie in questione sia da qualificarsi come reato autonomo, ovvero come circostanza attenuante, attesa la formulazione della norma che prevede la riduzione della metà delle pene previste nei precedenti commi 1, 2 e 3 “nelle ipotesi di inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, nonché nelle ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni”.

Nel senso della natura circostanziale, si veda Corte Cass. Pen., sez. III, 8 aprile 2010, n. 13232; nel senso della fattispecie autonoma, si veda invece Corte Cass. Pen., sez. III, 17 novembre 2011, n. 42394. La dottrina maggioritaria propende per la natura circostanziale: così C. Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, Torino, 2016, pp. 172 ss.

[ii] Sulla natura di reato di pericolo della fattispecie prevista dall’art. 256, comma 1 D.Lgs. n. 152/2006, si veda Corte Cass. Pen., sez. III, 18 ottobre 2018, n. 4973. Conforme, Cass. Pen., sez. III, 17 gennaio 2012, n. 19439. Per quanto di interesse in questa sede, anche la contravvenzione di inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, prevista al comma 4 dell’art. 256 del D.lgs. n. 152 del 2006, è considerata reato formale di pericolo. In questo senso Corte Cass. Pen., sez. III, 2 febbraio 2011, n. 6256.

[iii] F. Barresi, Attività di gestione di rifiuti non autorizzata, in L. Cornacchia-N. Pisani (diretto da), Il nuovo diritto penale dell’ambiente, Bologna, 2018, p. 507, che richiama L. Siracusa, La tutela penale dell’ambiente. Bene giuridico e tecniche di incriminazione, Milano, 2007, p. 144.

[iv] L’espressione è di C. Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, cit., p. 174.

[v] F. Giunta, Il diritto penale dell’ambiente in Italia: tutela di beni o tutela di funzioni?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 1113 ss.

[vi] Sulla tutela mediata dei valori ambientali, attraverso la tutela “della complessa ed articolata funzione pubblica che può compendiarsi nel governo dell’ambiente”, si veda C. Pedrazzi, Profili penalistici di tutela dell’ambiente, in Ind. pen., 1991, p. 620.

 

Scritto da