Responsabilità dell’ente e dei suoi amministratori in materia ambientale tra responsabilità oggettiva e principio di colpevolezza

22 Set 2021 | giurisprudenza, amministrativo

di Luca Prati

Consiglio di Stato, Sez. IV, 8 giugno 2021 n. 4383 – Pres. Maruotti, Est. Di Carlo – Omissis (avv.ti Giuseppe Mariani e Raffaele Emilio Padrone) c. Comune di Altamura (avv. Giampaolo Sechi) e n.c. di Fallimento della S.r.l. Omissis (avv. Luca Alberto Clarizio), Regione Puglia (avv. Tiziana Teresa Colelli), Città metropolitana di Bari (n.c.)

Il quadro giuridico europeo risultante dai principi generali del Trattato e dal diritto derivato non esige lo stretto accertamento dell’elemento psicologico e del nesso di causalità fra la condotta di detenzione del rifiuto in ragione della disponibilità dell’area e il rischio ambientale dell’inquinamento.

La tutela dell’ambiente è incentrata intorno al fondamentale cardine della responsabilità del proprietario in chiave dinamica, ossia nel senso di ritenere responsabile degli oneri di bonifica e di riduzione in pristino anche il soggetto non direttamente responsabile della produzione del rifiuto, il quale sia tuttavia divenuto proprietario e detentore dell’area o del sito in cui è presente, per esservi stato in precedenza depositato, stoccato o anche semplicemente abbandonato, il rifiuto in questione.

Ai sensi dell’art. 2476 c.c. gli amministratori (dunque, anche i soci amministratori) sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della società. Tra questi doveri vanno annoverati certamente anche quelli ambientali. Tuttavia, la responsabilità non si estende a quegli amministratori (o soci amministratori) che dimostrino di essere esenti da colpa e che, essendo a cognizione dell’atto che si stava per compiere, abbiano fatto constare il proprio dissenso.

La sentenza in commento offre lo spunto per alcune riflessioni circa i criteri di imputazione delle responsabilità ambientali vigenti nel nostro ordinamento.

Il Consiglio di Stato parte con l’affermare le “coordinate esegetiche disegnate dal legislatore europeo e recepite dal legislatore interno” nell’attribuzione della responsabilità per danno ambientale, individuate nei seguenti termini:

“a) il quadro giuridico europeo risultante dai principi generali del Trattato e dal diritto derivato non esige lo stretto accertamento dell’elemento psicologico e del nesso di causalità fra la condotta di detenzione del rifiuto in ragione della disponibilità dell’area e il rischio ambientale dell’inquinamento;

  1. b) la normativa nazionale deve essere interpretata in chiave europea e in maniera compatibile con canoni di assoluto rigore a tutela ambiente. Nella sostanza, la sentenza della Adunanza Plenaria n. 3 del 2021 ha incentrato la tutela dell’ambiente intorno al fondamentale cardine della responsabilità del proprietario in chiave dinamica, ossia nel senso di ritenere responsabile degli oneri di bonifica e di riduzione in pristino anche il soggetto non direttamente responsabile della produzione del rifiuto, il quale sia tuttavia divenuto proprietario e detentore dell’area o del sito in cui è presente, per esservi stato in precedenza depositato, stoccato o anche semplicemente abbandonato, il rifiuto in questione.”

Dopo avere ribadito come quella del proprietario o detentore incolpevole sia una “responsabilità da posizione”, il Consiglio di Stato precisa tuttavia come essa  sia “pur sempre ascrivibile secondo i canoni classici, comuni alle tradizionali costituzionali degli Stati, della responsabilità per il proprio fatto personale colpevole, dal momento che la personalità e la rimproverabilità dell’illecito risiedono nel comportamento del soggetto che volontariamente sceglie di sottrarsi o, il che è lo stesso, di non attivarsi anche per mera negligenza, per ripristinare l’ambiente”.

Si tratta di una soluzione ermeneutica che si discosta dalle conclusioni a cui era in precedenza giunto il Consiglio di Stato in tema di “responsabilità da posizione”, nel momento in cui aveva affermato “che sia nelle ipotesi di danno ambientale disciplinate dalle previsioni della direttiva 2004/35/UE, sia in quelle che restano regolate dalle sole previsioni del ‘Codice ambientale’, non sono configurabili ipotesi di responsabilità svincolata persino da un contributo causale alla determinazione del danno; che il sub-sistema normativo di cui al decreto legislativo n. 152 del 2006 reca un preciso criterio di imputazione della responsabilità da inquinamento (il quale si innesta sulla più volte richiamata sussistenza di un nesso eziologico), non ammettendo ulteriori, diversi e più sfavorevoli criteri di imputazione (i quali, pure, sono conosciuti da altri settori dell’ordinamento); che, in particolare, il vigente quadro normativo nazionale non ammette un criterio di imputazione (…) basato sulla sorta di “responsabilità di posizione” a carico del proprietario incolpevole” (così Cons. di Stato n. 6138/2017; in senso analogo Cons. di Stato, n. 5340 del 1° settembre 2020).

Non solo. A ben vedere, la ricostruzione della norma fatta propria dalla sentenza in commento travalica anche la posizione assunta dall’Adunanza Plenaria con la sentenza del 26 gennaio 2021, n. 3, che ha invece confermato l’esistenza di una “responsabilità da posizione” in capo al proprietario e detentore dell’area in cui è presente il rifiuto.

E infatti secondo la decisione in commento il proprietario o detentore incolpevole, in forza dell’esistenza di una “responsabilità da posizione”, si troverebbe non solo “onerato” bensì “obbligato” ad agire con diligenza al fine di rimuovere la situazione di inquinamento. In caso di inerzia, incorerebbe nella commissione di un illecito omissivo.

Ricostruendo in questi termini la fattispecie si va oltre la mera “responsabilità da posizione” così come configurata dagli articoli 242 e seguenti del D. Lgs. 152/2006. Secondo la consolidata interpretazione di tali norme, infatti, non si può comunque ritenere il proprietario “obbligato” alla messa in sicurezza o bonifica del sito, da effettuarsi invece a carico della Pubblica amministrazione, che è a sua volta garantita dal valore del terreno bonificato ed entro i limiti dello stesso.

È chiara  la differenza tra ritenere il proprietario o detentore incolpevoli responsabili, sul mero piano patrimoniale, per il solo rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente (nel limite del valore di mercato del sito determinato dopo l’esecuzione di tali interventi) e imputare a costoro un vero e proprio obbligo di attivarsi in forza di una posizione di garanzia rilevante ai sensi dell’art. 40 comma 2, c.p. (norma, quest’ultima, in base alla quale il mancato impedimento di un evento che si aveva l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo).

Se è infatti vero quanto recentemente affermato anche dalla Cassazione, secondo cui “soggetto passivo dell’obbligazione prevista dalla legge è il «responsabile dell’inquinamento»”, da individuarsi in base “al giudizio eziologico relativo al profilo oggettivo dell’avere meramente dato causa all’inquinamento” (Cass. Sez. III Civ. 22 gennaio 2019, n. 1573), non è chiara la base giuridica in forza della quale anche il soggetto rimasto estraneo a tale giudizio eziologico debba essere comunque ritenuto obbligato (anziché meramente onerato) ad agire per il ripristino ambientale.

Il Consiglio di Stato afferma infatti l’esistenza di un “principio di concorrenzialità tra le responsabilità dei diversi soggetti che a vario titolo sono (o sono stati) coinvolti nelle fattispecie di danno o di pericolo per l’ambiente”, mettendo tra tali soggetti anche in proprietario o detentore incolpevoli. Il che equivale a porre sullo stesso piano, in termini di obbligo di agire, tanto l’autore dell’inquinamento quanto chiunque gli sia succeduto nella detenzione del sito, perfino se ignaro delle passività ambientali su di esso gravanti.

La sentenza pare anche adombrare una sorta di successione dei diversi detentori dell’area inquinata nella posizione di garanzia che la normativa individua (solo) in capo all’autore dell’inquinamento, venendo così l’obbligo di impedire il fatto dannoso a gravare su più persone, tutte obbligate ad intervenire in tempi diversi.

Tuttavia, o il proprietario incolpevole è soltanto un “garante” delle spese di bonifica sostenute dall’Amministrazione (incombendo su quest’ultima l’obbligo di agire in via sostitutiva), o è un “coobbligato” all’intervento di messa in sicurezza o bonifica, al pari del responsabile dell’inquinamento e del soggetto pubblico. Le due posizioni sono però distinte ed antitetiche. La qualificazione del proprietario o detentore incolpevole quale coobbligato in solido è del resto smentita sia dal tenore letterale degli artt. 245 e 253 del D. Lgs. 152/2006, sia dall’interpretazione del Testo Unico ormai più che consolidata (ex multis, Consiglio di Stato, sentenza n. 502/2018).

Si noti che anche la Cassazione penale  ha affermato che il proprietario di un terreno non possa essere chiamato a rispondere, in quanto tale, dei reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata commessi da terzi, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, in quanto tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell’evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o di movimentazione dei rifiuti (Cass. Pen., Sez. III, 4/6/2019, n. 27692; Cass. Pen., Sez. III, 5/4/2017, n. 28704).

La sentenza in esame si occupa altresì della responsabilità personale di amministratori e soci della società responsabile dell’inquinamento, così come ricavabile ai sensi dell’art. 2476 c.c., i quali sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della società, inclusi quelli ambientali[1].

Il Consiglio di Stato precisa tuttavia che la responsabilità non si estende a quegli amministratori (o soci amministratori) che dimostrino di essere esenti da colpa e che, essendo a cognizione dell’atto che si stava per compiere, abbiano fatto constatare il proprio dissenso.

In effetti, nel caso in esame più che il richiamo alla responsabilità “verso la società” parrebbe maggiormente calzante il richiamo all’art. 2476, 6° co., che prevede il diritto al risarcimento dei danni del terzo danneggiato da atti dolosi o colposi degli amministratori. Come in materia di S.p.a., è necessario che l’atto doloso o colposo realizzato dagli amministratori abbia arrecato un danno diretto al patrimonio del terzo.

Il richiamo alla necessità di distinguere tra specifici ruoli e comportamenti è conforme agli orientamenti della Cassazione penale (cfr. sez. 4 n. 6405 del 22/1/2019, e n. 1350 del 20/11/2019) secondo cui l’accertamento del nesso causale rispetto all’evento verificatosi, quando l’obbligo di impedire l’evento grava su persone diverse, deve essere compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascun titolare della posizione di garanzia.

Resta tuttavia aperto un punto meritevole di ulteriore approfondimento.

La Cassazione in materia societaria ha ormai da tempo adottato la c.d. “teoria organica”, che fa leva sull’impossibilità di distinguere l’amministratore dalla società. Questi, infatti, rappresenta la persona fisica con cui si identifica l’organo amministrativo. In altre parole, il fatto che l’amministratore sia l’organo esecutivo della società che garantisce il corretto funzionamento e il perseguimento del suo scopo, comporta che egli non possa essere considerato come un soggetto terzo rispetto alla società (Cass. 22046/2014; Cass. 2759/2016); nella rappresentanza organica c’è un solo soggetto (l’ente) che agisce tramite l’organo.

La commissione di un illecito da parte del legale rappresentante di un ente, inoltre, non interrompe il rapporto di immedesimazione organica e non esclude, pertanto, che del fatto possa rispondere anche l’ente (Cass. 34482/2019); in sostanza, l’ente non può che commettere il fatto produttivo di danno, colposo o meno, se non per il tramite della persona fisica che ne ha la rappresentanza organica.

Se si aderisce a tale tesi, appare arduo ritenere che la società debba rispondere sulla base del solo nesso di causalità tra attività svolta e inquinamento generato, mentre gli amministratori e i soci incorrerebbero in responsabilità solo per i danni derivanti dall’inosservanza colposa dei loro doveri. Si cade infatti in un’evidente antinomia, a cui non è possibile sottrarsi nel momento in cui si ricostruisce la fattispecie in questione in termini di responsabilità oggettiva.

In definitiva, se il soggetto passivo dell’obbligazione prevista dalla legge va individuato sulla base del solo “giudizio eziologico relativo al profilo oggettivo dell’avere meramente dato causa all’inquinamento”, (Cass. Sez. III Civ. 22 gennaio 2019, n. 1573) è solo a tale giudizio che si dovrebbe fare riferimento anche per individuare gli amministratori o soci cui imputare l’obbligo di bonifica, in solido con la società di cui hanno la rappresentanza.

È ovvio che ciò rappresenterebbe un importante carico di responsabilità (oggettive) aggiuntive in capo agli amministratori, che si troveranno a rispondere personalmente anche nel caso in cui abbiano dato origine a fenomeni di inquinamento senza tuttavia aver violato alcuna norma di contenuto cautelare (come nel caso di inquinamento generato da attività regolarmente autorizzate). Carico che diverrebbe oltremodo insostenibile nel momento in cui una tale forma di responsabilità oggettiva venisse affermata anche nei confronti degli amministratori di enti che siano incolpevolmente subentrati nella detenzione di aree inquinate da altri soggetti.

Le criticità sopra evidenziate paiono in qualche modo inevitabili nel momento in cui si ritenga (in modo astrattamente condivisibile) che l’obbligo ripristinatorio non possa essere fondato sulla colpa, in quanto presenterebbe un costo sociale troppo alto per essere sopportato da società nelle quali i mezzi di produzione rappresentano fonti di pericolo per l’ambiente.

L’unico modo per uscire dall’impasse sarebbe quello di prevedere forme di responsabilità nettamente separate per l’ente e per le persone che ne hanno la rappresentanza, adottando un regime di responsabilità oggettiva per il primo e limitando la responsabilità dei secondi ai casi di inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge.

Come noto, una differenziazione soggettiva dei criteri di imputabilità per fatti di danno ambientale è stata fatta propria dall’art. 298 bis e dall’art. 311 del D. Lgs. 152/2006, dato che per alcuni tipi di attività (quelle elencate nell’Allegato 5 alla parte sesta del D. Lgs. 152/2006) opera una responsabilità di tipo oggettivo (slegata, quindi, dalla volontà o dalla negligenza del soggetto responsabile), mentre per tutte le attività non contemplate nell’Allegato 5 la responsabilità dell’operatore sussiste solo in caso di colpa o dolo.

In assenza di un tale regime differenziato, ragioni di coerenza sistematica dovrebbero far propendere per la riconduzione dell’obbligo di rimozione dell’inquinamento nell’alveo della responsabilità per colpa.

Va anche rilevato come non paia neppure decisivo l’argomento contrario che, in assenza di un regime di responsabilità oggettiva, i costi dell’inquinamento ricadrebbero sulla collettività: attraverso il meccanismo dell’onere reale e del privilegio speciale immobiliare il legislatore ha, infatti, già introdotto lo strumento idoneo a far sì che il proprietario (sia esso persona fisica o giuridica) non possa lucrare né trarre alcun vantaggio dall’inquinamento presente nel sito che detiene, a prescindere da chi ne sia l’autore, a danno della collettività. Tale strumento però non ha nulla a che vedere con l’obbligo giuridico di attivarsi che grava sull’autore di un fatto illecito: esso rappresenta esclusivamente una forma di garanzia patrimoniale che prescinde da qualsiasi giudizio di responsabilità, colposa od oggettiva.

Non solo: il ricorso alla responsabilità oggettiva per trasferire gli obblighi di intervento in capo a un soggetto incolpevole finisce, nella pratica, per svolgere un’altra discutibile funzione: quella di deresponsabilizzare il soggetto pubblico regolatore, che abbia consentito (legislativamente o amministrativamente) le condotte causative di danno.

Resta ovviamente fermo il fatto che, in presenza di atti dolosi o colposi degli amministratori o soci dell’ente, ulteriori e diversi dalla mera “detenzione” di un’area inquinata da altri, essi ne risponderanno, per usare le stesse parole della sentenza che si annota, in base alle ordinarie regole civili e penali, “secondo i canoni classici, comuni alle tradizionali costituzionali degli Stati, della responsabilità per il proprio fatto personale colpevole”.

Per il testo della sentenza (estratto dal sito di Giustizia Amministrativa) cliccare sul pdf allegato.

CdS_4383_2021

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PRATI Consiglio di Stato IV n. 4383 del 8 giugno 2021 finale letto RT

Note:

[1] Sui poteri impeditivi in ambito societario, tra gli altri, F. Centonze, Controlli societari e responsabilità penale, Milano, 2009, 162 ss.; Id., Il problema della responsabilità penale degli organi di controllo per omesso impedimento degli illeciti societari. (Una lettura critica della recente giurisprudenza), in Riv. Soc., 2012, 333 ss.; P. Chiaraviglio, La responsabilità dell’amministratore delegante fra “agire informato” e poteri di impedimento, in Le Soc., 2010, 890 ss.; F. Consulich, Poteri di fatto ed obblighi di diritto, 556 ss.; I. Leoncini, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Torino, 1999, 70 ss.

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