Qualificazione come sottoprodotti e ripartizione dell’onere probatorio

04 Apr 2020 | giurisprudenza, penale

di Enrico Fassi

Cass. Penale, Sez. III, 30 ottobre 2019 (dep. 16 gennaio 2020), n. 1583. Pres. F. Izzo – Rel. S. Corbetta

Con la pronuncia in commento la Corte di Cassazione conferma, in materia di ripartizione dell’onere probatorio richiesto per la qualificazione di un materiale utilizzato in un ciclo produttivo come sottoprodotto (in luogo di quella di rifiuto), la necessaria dimostrazione incombente sul soggetto che intende avvalersi della disciplina di cui all’art. 184 bis d.lgs. n. 152/2006 relativa al rispetto (cumulativo) dei requisiti indicati nella disposizione poc’anzi cennata.

La Cassazione conferma la ripartizione dell’onere probatorio richiesto – e gravante sul soggetto che intende avvalersi della relativa disciplina – per la qualificazione di un materiale come sottoprodotto, e non come rifiuto, puntualizzando il consolidato approdo cui era già giunta nella propria elaborazione interpretativa.

Il contesto fattuale sottoposto allo scrutinio del Collegio risulta invero di semplice inquadramento, e ciò in particolare avendo riguardo alla soluzione giuridica accolta in rapporto alle carenze riscontrate nella articolazione delle argomentazioni difensive da parte del ricorrente nel corso del giudizio di merito.

Il soggetto imputato, infatti, era destinatario di sentenza di condanna alla pena della ammenda per complessivi € 4.000,00 emessa dal Tribunale di Torino per la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 256, I, lett. a), d.lgs. n. 152/2006[i], in quanto avrebbe effettuato – per il tramite della propria società – il trasporto di un determinato quantitativo di rifiuti di tipologia non pericolosa in assenza della prescritta autorizzazione.

Avverso tale decisione l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, articolato sulla base di due motivi:

i. con il primo motivo, ex 606, I, lett. b) cpp, deduceva la violazione di legge nella quale sarebbe incorso il giudicante di prime cure in relazione all’art. 256, I, lett. a), d.lgs. n. 152/2006, nella parte in cui avrebbe qualificato il materiale trasportato come rifiuto e non invece come sottoprodotto.

La contraria soluzione, secondo il ricorrente, sarebbe stata imposta dalle circostanze fattuali presenti nel caso di specie – interpretate alla luce di un precedente arresto della Suprema Corte[ii] – considerando come la attività di trasporto posta in essere si sarebbe svolta all’interno di un sistema definito come chiuso, nel quale la persona giuridica interessata partecipava alla gestione degli sfridi plastici prodotti da altra società la quale, nell’ambito del proprio ciclo produttivo, triturava tali materiali reimmettendoli in altra linea produttiva per la produzione di paraurti per automobili.

La necessità di avvalersi della attività di trasporto posta in essere dall’imputato era peraltro dovuta alle particolari caratteristiche del processo produttivo per il quale, non potendo il produttore accatastare grandi volumetrie di sfridi plastici, quest’ultimo doveva avvalersi di una società terza, alla quale era demandata la vera e propria attività di riduzione volumetrica e di triturazione dei materiali plastici.

Essendo qualificato come sottoprodotto, il materiale plastico veniva pertanto movimentato mediante documento di trasporto, al fine di consentire la compiuta tracciabilità ambientale delle operazioni compiute.

ii. con il secondo motivo, ex 606, I, lett. e), cpp, si doleva della contraddittorietà ed illogicità della motivazione della sentenza di primo grado, per quanto riferibile alla definizione quale rifiuto del materiale plastico trasportato.

Il Tribunale, infatti, avrebbe qualificato gli sfridi plastici quale scarto di produzione, e dunque rifiuto, pur avendo affermato come il materiale stesso – una volta ridotto il componenti più minute – veniva riconsegnato all’originario produttore al fine del successivo utilizzo nella propria linea produttiva[iii].

Ulteriormente, la A.G. torinese avrebbe omesso di considerare quanto emergente dai documenti di trasporto prodotti dal ricorrente nel giudizio di merito, dai quali sarebbe emersa la natura “plastica” dei materiali trasportati prima e dopo la operazione di riduzione di volume e di triturazione.

Quanto rilevato, condurrebbe per ciò alla illogicità della motivazione nella parte in cui l’ufficio giudicante avrebbe ritenuto non raggiunta la prova fornita dall’imputato in ordine al riutilizzo dei materiali plastici provenienti dal produttore iniziale a fronte della dedotta assenza di un accertamento sul materiale medesimo, che risultava sottoposto a sequestro e come tale oggetto di accertamenti demandati ad un consulente da parte.

In esito alla valutazione delle censure sviluppate dall’imputato, la Corte di Cassazione perviene al rigetto del ricorso per infondatezza dei motivi dedotti.

Per giungere a tale approdo, il Collegio precisa un ulteriore particolare emergente dal giudizio di primo grado: per quanto ricavabile dalla motivazione, il giorno 10 febbraio 2016, operanti di ARPA avrebbero eseguito un accesso presso la sede della società dell’imputato, rinvenendo un ingente quantitativo di materiale dismesso di natura variegata, privo di etichettatura cosiccome di idonea segregazione, allocato in maniera confusa nel piazzale e nel magazzino della ditta; a fronte di tale riscontro, il ricorrente forniva soltanto in un secondo momento alcuni documenti di trasporto, peraltro non univoci nell’individuare vuoi la natura, vuoi la quantità, vuoi infine la provenienza dei materiali detenuti in rapporto alle quantità rilevate, di guisa da ingenerare la segnalazione alla A.G. competente per la fattispecie di reato di cui all’art. 256, I, lett. a), d.lgs. n. 152/2006.

La qualificazione quali rifiuti dei materiali oggetto di attenzione da parte dell’ufficio procedente, peraltro, risultava prima facie imposta dalla loro classificazione iniziale quali scarti di lavorazione (come rilevato dallo stesso consulente della difesa), in luogo della qualificazione quali sottoprodotti avanzata dall’imputato.

In ragione del principio per il quale, in tema di gestione dei rifiuti, ove i residui della produzione siano classificati da chi li produce come rifiuti, gli stessi si sottrarrebbero dunque dalla normativa derogatoria prevista per i sottoprodotti esprimendo la volontà del produttore di disfarsi di tali materiali, con ciò determinandone la sussunzione nella disciplina di cui all’art. 183, I, lett. a), d.lgs. n. 152/2006, il Tribunale avrebbe dunque correttamente ricostruito la qualificazione giuridica del fatto ascritto al ricorrente, conseguentemente pronunciando la sentenza di condanna per l’attività di gestione di rifiuti non autorizzata[iv].

Prima di proseguire ulteriormente nel percorso argomentativo del Collegio, pare in ogni caso opportuno fornire in via sintetica una definizione della categoria dei c.d. sottoprodotti, in ragione delle particolari conseguenze pratiche e giuridiche che dalla stessa derivano.

Come noto, per sottoprodotti debbono intendersi i residui della produzione non qualificabili come rifiuti e dunque sottratti alla relativa disciplina.

In altre parole, in presenza del rispetto di condizioni tassativamente indicate dal d.lgs. n. 152/2006, il sottoprodotto non diviene un rifiuto ma mantiene la sua natura di “prodotto”, e come tale inserito nell’ambito di un ciclo produttivo[v].

Tale elaborazione discende dall’ambito comunitario, e precisamente dalla Direttiva 2008/98/CE sui rifiuti, avente diretto riflesso sulla normativa nazionale la quale non prevedeva tale nozione nel c.d. decreto Ronchi (i.e. D.Lgs. n. 22/1997) venendo introdotta dall’art. 183, I, lett. p) d.lgs. n. 152/2006, successivamente modificata dall’art. 2, XX, d.lgs. n. 4/2008[vi].

Il legislatore, nel 2010, ha ulteriormente modificato la definizione di sottoprodotto, accedendo all’approdo di cui alla Direttiva 2008/98/CE menzionata, intervenendo sull’art. 183, I, lett. qq), d.lgs. n. 152/2006, affermando come per tale debba intendersi «qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa le condizioni di cui all’art. 184-bis, c. 1, o che rispetta i criteri stabiliti in base all’art. 184-bis, c.2»[vii].

Tali condizioni, di cui all’art. 184 bis, I, d.lgs. n. 152/2006, richiamate dal Collegio e da intendersi come cumulativamente imposte per la sottrazione del materiale attenzionato dalla disciplina dei rifiuti e la sua riconduzione nella categoria dei sottoprodotti, risultano essere: «a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo non è la produzione di tale sostanza od oggetto; b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana»[viii].

Come argomentato dalla Corte, dunque, trattandosi di condizioni specifiche richieste per la applicazione di una disciplina – quella appunto dei sottoprodotti – avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria di cui al d.lgs. n. 152/2006, la dimostrazione circa la loro sussistenza graverebbe sull’imputato, che dovrebbe fornirne la relativa prova[ix].

Dalla motivazione invece emerge come l’imputato non avesse fornito la prova circa la presenza delle condizioni di cui all’art. 184 bis d.lgs. n. 152/2006, in particolare rispetto al riutilizzo integrale dei materiali provenienti dal produttore iniziale e trasportati dal ricorrente alla società terza deputata alla attività di riduzione volumetrica e triturazione.

La Cassazione osserva come la prova circa il rispetto delle condizioni di legge poteva essere agevolmente fornita mediante adeguato supporto tecnico-analitico, volto a dimostrare da un lato le caratteristiche del ciclo produttivo, dall’altro lato la presenza di elementi idonei ad attestare – per lo specifico utilizzo – tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti nonché infine la sussistenza di qualità tali da garantire la protezione della salute e dell’ambiente unitamente alla assenza di potenziali impatti negativi sullo stesso e sulla salute umana.

Viceversa, ciò che risultava presente nel fascicolo del giudizio di merito era una documentazione scarna, inidonea al fine avuto di mira dal ricorrente ed insufficiente dal punto di vista probatorio, in particolare con riferimento ai ddt da quest’ultimo prodotti, da considerarsi non indicativi della esatta provenienza e della qualità del materiale trasportato, dunque propriamente da qualificarsi come rifiuto ai sensi dell’art. 183 d.lgs. n. 152/2006.

Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Corte di Cassazione) cliccare sul pdf allegato

Fassi_Sentenza

SCARICA L’ARTICOLO IN FORMATO PDF

Fassi

[i] Il quale, come noto, prevede che «Fuori dai casi sanzionati ai sensi dell’articolo 29 quattordecies, comma 1, chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 è punito: a) con la pena dell’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi».

[ii] Il ricorrente, infatti, cita Cass., sez. III, 4 giugno 2015, n. 40109, che dichiarò infondati i motivi di ricorso, pur contenendo talune interessanti precisazioni rispetto alla definizione di sottoprodotto – in particolare rispetto agli sfridi plastici – ed alla questione afferente la possibilità di sottoporre gli stessi a trattamenti, connotati da minima incidenza sulla matrice considerata (dovendosi altrimenti necessariamente qualificare come rifiuti), volti al loro recupero per il successivo utilizzo nel ciclo produttivo individuato.

[iii] Può vedersi anche sul punto Cass., sez. III, 3 settembre 2018, n. 39400, dalla quale si evince nuovamente la sussistenza di un onere probatorio in capo al produttore circa il rispetto dei requisiti di cui all’art. 184 bis d.lgs. n. 152/2006.

[iv] Cass., sez. III, 11 luglio 2007, n. 32207.

[v] Per un approfondimento della tematica, si vedano RAMACCI, Diritto penale dell’ambiente, Piacenza, 2017, p. 249 e ss.; BOVINO, Rifiuti e imballaggi, in Manuale ambiente, 2016, Milano, p. 447 e ss.; nonché infine, FIMIANI, La normativa sui rifiuti: analisi dei profili interpretativi più controversi. I concetti di rifiuto e sottoprodotto, in www.lexambiente.it. Costituendo appunto la possibilità di re-immissione del sottoprodotto nel ciclo produttivo e dunque la non necessità di procedere al suo smaltimento come rifiuto, con i relativi costi di gestione ed il potenziale impatto ambientale derivante da tale decisione.

[vi] L’introduzione della categoria avvenne infatti con l’art. 264, d.lgs. n. 152/2006, che abrogò la previgente disciplina di cui al d.lgs. n. 22/1997, sulla scorta degli impulsi di matrice comunitaria, già parzialmente accolti dalla l. n. 178/2002, modificativa della nozione di rifiuto di cui alla Direttiva 1991/156/CEE, e sulla spinta della elaborazione della Corte di Giustizia europea, con le sentenze pronunciate dalla sez. VI, 18 aprile 2002, causa c-9-00, Palin Granit Oy; sez. II, 11 settembre 2003, causa c-114-01, Avesta Polarit Chrome Oy; sez. II, 11 novembre 2004, causa c-457-02, Niselli.

[vii] Per ulteriori, e più risalenti, spunti, si richiamano VERGINE, PANELLA, Rifiuto, materie prime, sottoprodotti: una storia infinita, nota a Cass. pen, n. 44295/2007, in Ambiente&Sviluppo, 2008, V, p. 443; POMINI, Rifiuti, residui di produzione e sottoprodotti alla luce delle linee guida della Commissione CE, della (proposta di) nuova direttiva sui rifiuti e della riforma del decreto legislativo 152/06: si attenua il divario tra Italia e Unione Europea?, in Riv. giur. amb., 2008, II, p. 356.

[viii] Mentre il secondo comma dell’art. 184 bis d.lgs. n. 152/2006 dispone come, sulla base delle condizioni delineate dal primo comma, possono essere adottati uno o più Decreti ministeriali contenenti le misure per stabilire criteri quantitativi e qualitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o prodotti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti; sul punto può menzionarsi – in tema di terre e rocce da scavo – l’art. 41, II, d.l. n. 69/2013, conv. nella l. n. 98/2013, che ha inserito nell’art. 184 bis il comma 2 bis, che dispone: «Il decreto del Ministero dell’ambiente o della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti 10 agosto 2012, n. 161, […], si applica solo alle terre e rocce da scavo che provengono da attività o opere soggette a valutazione d’impatto ambientale o ad autorizzazione integrata ambientale. Il decreto di cui al precedente periodo non si applica comunque alle ipotesi disciplinate dall’art. 109 del presente decreto».

[ix] Punto, quest’ultimo, assolutamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità. Si vedano Cass., sez. III, 13 luglio 2018, n. 50134; Cass., sez. III, 19 settembre 2017, n. 56066; Cass., sez. III, 10 marzo 2015, n. 16078; Cass., sez. III, 17 gennaio 2014, n. 6107; Cass., sez. III, 13 aprile 2011, n. 16727; Cass., sez. III, 3 marzo 2010, n. 15680; e, in tema di impianti mobili adibiti alla sola attività di riduzione volumetrica e separazione dei volumi, Cass., sez. III, 17 aprile 2012, n. 17453.

Scritto da