Le Sezioni Unite escludono obblighi di MISE per il proprietario o gestore incolpevole

02 Mag 2023 | giurisprudenza, civile, altro

di Eva Maschietto

Cass. S.U., civili 1° febbraio 2023, n. 3077– Primo Pres. ff B. Virgilio; Pres. Di Sez. G. Travagliono Est. M. Ferro – omissis c. Ministero della Transizione Ecologica, Ministero dello Sviluppo Economico, Ministero della Salute, Presidenza del Consiglio dei Ministri, dipartimento della protezione civile)

Quando non sia intervenuta la dimostrazione, ad opera delle competenti autorità di alcuna correlazione causale tra l’attività svolta in situ e la contaminazione (nella specie della falda acquifera), non è possibile rinvenire nello stesso codice dell’ambiente alcun obbligo diretto ed esplicito del proprietario, ove non sia autore della condotta contaminante, ad adottare interventi di messa in sicurezza di emergenza, né essi possono transitare tra le misure di precauzione o special-preventive a prescindere dall’accertamento della responsabilità e finendo così con il mutarsi, in capo al descritto soggetto, in concorrente e sostanziale obbligo di provvedere alla bonifica dell’area interessata.

Ai fini dell’imputazione di una responsabilità ambientale la prova della sussistenza del nesso causale è essenziale ed è onere a carico dell’autorità che deve procedere all’accertamento in via preventiva del collegamento tra soggetto gestore, attività gestita e causazione del danno, senza che vi sia spazio per interpretazioni dilatate e senza confini.

Il proprietario incolpevole della contaminazione è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione idonee a contrastare un evento che abbia creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile, secondo il canone causale civilistico, di verificazione di un danno sanitario o ambientale al fine di impedire o minimizzare tale minaccia.

Le misure di prevenzione si distinguono nettamente dalle misure di messa in sicurezza di emergenza (MISE): le prime implicano un danno ancora non presente, del quale vi sia minaccia imminente e rischio sufficientemente probabile in uno scenario di un futuro prossimo, e implicano il dovere di impedimento al realizzarsi della minaccia.  Di contro, la MISE predica l’esistenza di condizioni di emergenza, cioè con eventi verificatisi e dunque necessità di interventi, tali da imporre, finalisticamente, il contrasto ad eventi di contaminazione repentini, dunque con pregiudizio ambientale in itinere, per il quale la misura volge al contenimento, a limitare la diffusione delle relative sorgenti, ad impedire contatti con altre matrici contaminative del sito, in attesa di bonifica o messa in sicurezza di là da venire ma di cui la MISE stessa mostra di essere già una prima parte.

Con una sentenza estremamente articolata nei contenuti e ricca tanto nella forma quanto nei rinvii a diritto alla giurisprudenza dell’Unione Europea, le Sezioni Unite civili fanno chiarezza sui limiti degli obblighi del soggetto proprietario/gestore di un sito contaminato, incolpevoli dell’inquinamento, ponendo fine a una vicenda complicata e molto combattuta in sede giurisdizionale (passata dal giudice amministrativo al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, sino alla Cassazione), con una motivazione che ci sia augura costituisca un precedente stabile dal quale i giudici amministrativi non decidano di discostarsi.

E’ nota, infatti, la recente simpatia, in questa Rivista criticata in più occasioni, della giurisprudenza amministrativa a voler dilatare all’eccesso i confini degli obblighi imposti dalla legge al proprietario incolpevole[i], tendendo ad attribuire una “responsabilità” simile a quella “di posizione” per la sola connessione oggettiva del diritto dominicale, dimenticando – invece – che il regime legale applicabile a chi non ha causato l’inquinamento è eccezionale e tassativo, perché impone obblighi a colui nei confronti del quale non vi è prova di causa o contributo all’inquinamento.

Il caso deciso dalle Sezioni Unite tratta di una vicenda molto complessa che riguarda un sito di interesse nazionale (il Litorale Domizio flegreo ed Agro aversano) nel quale, a fronte del riscontro di uno stato di inquinamento della falda ad opera di diversi contaminanti presumibilmente derivanti da una discarica, il Ministero dell’Ambiente aveva ordinato al proprietario e gestore del sito, misure di prevenzione, interventi di messa in sicurezza e la bonifica del suolo (con l’applicazione di misure sostitutive in danno, in caso di inerzia).  Il proprietario, affermando di non essere il soggetto responsabile della contaminazione e poi di non avere neppure la disponibilità dei luoghi, si era opposto alle prescrizioni del Ministero sulla base del fatto che l’amministrazione non aveva provveduto all’identificazione del responsabile della contaminazione e indicando una serie di altre circostanze, tra le quali la diffusione dell’inquinamento (che quindi non poteva considerarsi “puntuale” e che comunque, in quanto tale non poteva essere ricondotta a un soggetto specifico) e l’assenza di emergenza (stante l’inesistenza di un fatto “repentino”), in un complesso contenzioso innanzi al TAR, poi sfociato (declinata la giurisdizione) al Tribunale Superiore delle Acque pubbliche che, nella sostanza aveva confermato le prescrizioni del Ministero.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono investite della questione sotto diversi profili (nove i motivi del ricorso), due dei quali presentano un indubbio interesse generale perché riguardano l’estensione e l’applicazione degli obblighi di messa in sicurezza e bonifica al soggetto proprietario di un sito contaminato nei confronti del quale non sia stata accertata una responsabilità ambientale e che addirittura non abbia più la custodia del sito.

Le due classi di motivi si articolano nella violazione di due categorie di norme, che nel percorso giurisprudenziale (soprattutto amministrativo) sono state ritenute rilevanti nel corso dell’elaborazione giurisprudenziale, sin dalle prime applicazioni del decreto ronchi e poi con il Testo Unico Ambientale.  Il ricorrente, in primo luogo, contesta la violazione delle disposizioni in materia di bonifica del Testo Unico Ambientale (segnatamente degli artt. 240, 242, 245, 252 del D.Lgs. n. 152 del 2006), invocando nella sostanza l’errata applicazione del principio ‘chi inquina paga’, per aver l’amministrazione imposto al proprietario di provvedere alla MISE (messa in sicurezza di emergenza) senza aver individuato il responsabile della potenziale contaminazione.

In secondo luogo, il ricorrente deduce la violazione degli artt. 2050 e 2051 cod. civ. in combinato disposto con l’art. 240 lettera m) del Testo Unico Ambientale, contestando le tesi dell’amministrazione sulla responsabilità da custodia o da posizione, e affermando che la disciplina speciale del Testo Unico Ambientale deve prevalere rispetto a quella civilistica, in quanto normativa speciale.

Chiarito preliminarmente l’ambito del sindacato delle Sezioni Unite della Cassazione sulle sentenze in unico grado del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche confermando che tale sindacato si estende a tutte le violazioni di legge, la Cassazione accoglie con una sentenza dalla motivazione estremamente articolata, entrambi i profili sopra ricordati, relativi alla violazione dei principi in materia di obblighi del proprietario/gestore nei confronti del quale non sia stata dimostrata la responsabilità nella causazione del danno ambientale.

Si ribadisce in particolare che, quando non sia intervenuta la dimostrazione, ad opera delle competenti autorità di alcuna correlazione causale tra l’attività svolta in situ e la contaminazione (nella specie della falda acquifera), “non è [infatti] possibile rinvenire nello stesso codice dell’ambiente alcun obbligo diretto ed esplicito del proprietario, ove non sia autore della condotta contaminante, ad adottare interventi di messa in sicurezza di emergenza, né essi possono transitare tra le misure di precauzione o special-preventive a prescindere dall’accertamento della responsabilità e finendo così con il mutarsi, in capo al descritto soggetto, in concorrente e sostanziale obbligo di provvedere alla bonifica dell’area interessata”.

La Cassazione precisa che non vi è dubbio come la disciplina nazionale e comunitaria in tema di prevenzione e riparazione del danno ambientale persegua la finalità di tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente (così l’art. 3 co.3 Trattato UE e art.191 TFUE), fondandosi sui principi di precauzione e azione preventiva, correzione alla fonte dei danni all’ambiente e sul principio chi inquina paga (principi concretizzati nella Direttiva sulla responsabilità per danno ambientale del 21 aprile 2004 del Parlamento europeo e del Consiglio 2004/35/CE) da applicarsi comunque in coerenza con l’esigenza di garantire uno sviluppo sostenibile[ii].

La Suprema Corte ricorda come la norma nazionale del testo unico ambientale abbia ripreso integralmente i criteri previsti dalla direttiva e, ricostruendo analiticamente i diversi criteri di imputazione del danno ambientale (ricordando l’approccio oggettivistico e soggettivistico applicato alle diverse fattispecie), ripercorre in un excursus estremamente completo lo sviluppo interpretativo a livello comunitario e nazionale sull’accertamento del nesso causale tra il danno e l’attività degli operatori, dando rilievo alla discrezionalità degli Stati membri nella scelta legislativa della ricostruzione di tale nesso, anche tramite elementi indiretti quali la vicinitas, l’identità tra inquinanti e sostanze utilizzate nel processo produttivo, ovvero ancora tramite il criterio del “più probabile che non” (fermo restando il diritto di “smentita” da parte del soggetto “indagato”), ma tenendo fermo il principio per cui il nesso causale va comunque accertato.

Con la conseguenza logica, che – ai fini dell’imputazione di una responsabilità ambientale – la prova della sussistenza del nesso causale è comunque essenziale ed è onere a carico dell’autorità che deve procedere all’accertamento in via preventiva del collegamento tra soggetto gestore, attività gestita e causazione del danno, senza che vi sia spazio per interpretazioni dilatate, per cui sono da scartare “altre forme relazionali meramente indirette, imperniate ad esempio sull’appropriazione dei vantaggi economici permessi al soggetto per la sua posizione non di sfruttamento dei beni e dunque con attività condotta sugli impianti, bensì di mero diritto sul sito su cui essi insistono; la nozione di operatore di cui all’art. 2 co. 6 Direttiva appare invero sufficientemente chiara nel suo collegamento ad una attività, esercitata o controllata o anche alla titolarità di un potere economico però decisivo sul funzionamento tecnico dell’iniziativa”. 

Nello svolgere il ragionamento, la Cassazione ricorda che il diritto dell’Unione permette comunque agli Stati membri di apporre dei correttivi come quello che la normativa italiana ha introdotto per il proprietario incolpevole, che – fissando la disciplina dell’onere reale e privilegio speciale immobiliare – non osta al diritto comunitario: a tale riguardo ricorda le decisioni della Corte di Giustizia (sentenza 4 marzo 2015, in C-534/13 MATTM c. Fipa Group s.r.l., la CGUE ordinanza 6 ottobre 2015, in C-592/13). Ma, in questo contesto, ricorda come “il principio “chi inquina paga” può trovare applicazione nelle controversie domestiche nei limiti in cui è attuato dalla Direttiva” intendendo quindi indicare la necessità che la normativa nazionale abbia comunque operato una scelta specifica ed espressa, per poter attribuire a soggetti diversi dal responsabile della contaminazione obblighi e doveri in relazione a situazioni di contaminazione estranee al loro operato.

Nel quadro nazionale oggi vigente, osservano le Sezioni Unite, si devono ritenere – conformemente a quanto ha insegnato la migliore giurisprudenza amministrativa[iii] – che l’autorità amministrativa non possa imporre al proprietario non responsabile l’obbligo di eseguire “le misure di messa in sicurezza di emergenza (m.i.s.e.) e di bonifica, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto previsto dall’art. 253 cod. amb. in tema di oneri reali e privilegi speciali immobiliari” precisandosi che, in tale quadro, il proprietario incolpevole “è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione idonee a contrastare un evento che abbia creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile, secondo il canone causale civilistico, di verificazione di un danno sanitario o ambientale al fine di impedire o minimizzare tale minaccia”.

E’ obbligo specifico dell’amministrazione attivarsi nelle indagini per l’identificazione del responsabile e la diffida (ex art. 244 D.Lgs. 152/06).  Certamente il soggetto interessato può attivarsi volontariamente per limitare le conseguenze derivanti dall’iscrizione dell’onere reale sul bene immobile contaminato (a seguito dell’approvazione del progetto di bonifica nel certificato di destinazione urbanistica ai sensi dell’art. 253 comma 1 del D.Lgs. 152/06), ma tali conseguenze sono le uniche previste normativamente dalla nostra disciplina in armonia con il diritto dell’Unione e non possono essere dilatate neanche avendo riguardo a interpretazioni eccessivamente estese degli istituti tecnici sottostanti, non potendosi determinare commistioni tra le misure di prevenzione e quelle riparatorie.

Infatti, correttamente, la sentenza ritiene che le misure di messa in sicurezza di emergenza siano sostanzialmente diverse rispetto alle misure di prevenzione. Le misure di prevenzione “implicano un danno ancora non presente, su tale senso convergendo le formule della minaccia imminente, il rischio sufficientemente probabile, lo scenario di un futuro prossimo, insieme alle nozioni di impedimento al realizzarsi della minaccia”.  Di contro, la MISE predica l’esistenza di “condizioni di emergenza (ex lett. t [art. 240 TUA]), cioè con eventi verificatisi e dunque necessità di interventi) tali da imporre, finalisticamente, il contrasto ad eventi di contaminazione repentini, dunque con pregiudizio ambientale in itinere, per il quale la misura volge al contenimento, a limitare la diffusione delle relative sorgenti, ad impedire contatti con altre matrici contaminative del sito, in attesa di bonifica o messa in sicurezza di là da venire ma di cui la m.i.s.e. stessa mostra di essere già una prima parte”.

E ancora, la Suprema Corte, che ben conosce la tendenza delle amministrazioni a dilatare l’applicazione della MISE, assimilandola alla più ampia categoria della prevenzione, afferma che non si può assimilare tale tipologia di interventi alle misure di prevenzione proprio per la cesura concettuale tra prevenzione e riparazione, e per la varietà normativa delle misure di messa in sicurezza che predicano l’esistenza di un danno già iniziato e non solo temuto, ricordando che, nella pratica la MISE può addirittura fungere da bonifica, esaurendo l’intervento richiesto, come è noto a molti operatori del settore (mentre le misure di prevenzione hanno un arco temporale e sostanziale molto più ridotto).

La Cassazione dimostra di ben conoscere anche la giurisprudenza amministrativa che talvolta ha tentato di estendere l’applicazione delle misure riparatorie al proprietario incolpevole e ricorda come la giurisprudenza più autorevole dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nelle sentenze già citate, abbia posto precisi argini a tali tentativi e indicato confini certi per la corretta applicazione della disciplina in materia di riparazione del danno ambientale così come identificata dal diritto dell’Unione e dal diritto positivo dei singoli stati membri, ricordando come la necessità della certezza della disciplina applicabile in materia ambientale sia generalmente riconosciuta anche in considerazione dei risvolti penalistici associati a tale materia.

In fine alla decisione, viene sancita anche l’inapplicabilità della disciplina civilista sull’esercizio delle attività pericolose (ex art. 2050 cod. civ.) e sul danno cagionato da cose in custodia (ex art. 2051 cod. civ.) al proprietario incolpevole della contaminazione[iv], stante la specialità assoluta del corpus normativo che regola la disciplina sul danno ambientale come sistematicamente regolata dalla Direttiva 2004/35/CE e dal D.Lgs. 152/06 che, contenendo una serie di disposizioni estremamente dettagliate, determinano sostanzialmente la creazione di un sistema chiuso di responsabilità nel quale non trova spazio alcuno l’applicabilità della disciplina di cui all’illecito civile ordinario di cui agli artt. 2043 cod. civ. e seguenti.

Le Sezioni Unite, quindi, con un’operazione esegetica estremamente completa e complessa – la lettura è sfidante anche per chi conosce bene la materia – ricostruisce il sistema della responsabilità per danno ambientale e definisce la posizione del proprietario (o anche del gestore) incolpevole della contaminazione, sancendo una volta per tutte la tassatività delle sue obbligazioni e spazzando via – si auspica in via definitiva – quella confusione tra misure di prevenzione e misure di messa in sicurezza di emergenza che ha spesso determinato l’imposizione illegittima di obblighi estremamente gravosi in capo a soggetti la cui responsabilità non era mai stata accertata dall’amministrazione.  Il rigore e la linearità della decisione ci confortano nell’auspicio che possa costituire davvero un precedente pesante dal quale la prassi amministrativa e la giurisprudenza non si discostino.

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RGA Online_maggio 2023_SU CASS 3077 2023

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Sentenza Cass. 3077

NOTE:

[i] Si vedano quelle pronunce che assimilano la MISE alle misure di prevenzione: tra tutte Cons. Stato, Sez. IV, 2 maggio 2022, n. 3424 (con commento di chi scrive in questa Rivista “La MISE è uguale alle misure di prevenzione? Bonifica, non c’è pace per il proprietario incolpevole) Cons. Stato, Sez. VI 1 giugno 2022 n. 4445 (con commento di A. Gallarini, in questa Rivista “Siti contaminati: il proprietario incolpevole vittima di una ricostruzione che non convince),ovvero quelle che dilatano gli obblighi del proprietario incolpevole: es. TAR Lombardia, Milano, III 22491 del 2021 annotata in questa Rivista da F. Vanetti e C. Piccitto “L’terno ritorno degli obblighi del proprietario incolpevole” e ancora L. Prati in questa Rivista a commento di Cons. Stato, IV 5863 e V 5864 del 12 luglio 2022: Bonifica e proprietario incolpevole: verso il superamento per via giurisprudenziale del principio “chi inquina paga”? Si veda anche nello stesso numero di questa Rivista la nota di A.L. De Cesaris alla sentenza n. 1147 del 2 febbraio 2023 del Consiglio di Stato (sez. IV) Sugli obblighi del proprietario incolpevole.

[ii] La decisione ricorda come la Direttiva abbia stabilito “che l’operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile in modo da indurre gli operatori ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale (cons. 2), dunque privilegiando nettamente l’obiettivo della eliminazione in natura del danno ambientale rispetto alla prospettiva risarcitoria (per equivalente) e fissando una funzionalità altrettanto chiaramente imperniata sulla rilevanza anche giuridica delle attività professionali che presentano un rischio per la salute umana o l’ambiente (cons. 8); ne deriva così che è l’operatore che provoca un danno ambientale o è all’origine di una minaccia imminente di tale danno a dover di massima sostenere il costo delle necessarie misure di prevenzione o di riparazione, mentre il costo dell’intervento di supplenza dell’autorità competente andrebbe posto a carico dell’operatore, includendo il costo della valutazione del danno ambientale ed eventualmente della valutazione della minaccia imminente (cons. 18 e secondo la definizione dell’art.2 co.16); a sua volta, è netta la definizione dell’operatore (art.2 co.6), quale soggetto che esercita o controlla un’attività professionale o al quale sia delegato un potere economico decisivo sul funzionamento tecnico di tale attività”.

[iii] Consiglio di Stato n. 21 e 25 del 2013 (dell’Adunanza Plenaria) e Sez. VI del 5 ottobre 2016, n. 4099 e 4119, tra le tante.

[iv] Si citano – a conferma – anche Consiglio di Stato Sez. VI, 9 gennaio 2013, n. 56 e Sez. VI, 18 aprile 2011, n. 2376; e Consiglio di Stato, Sez. V, 30 luglio 2015, n.3756.

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