La Corte di Giustizia su Ilva: impatti immediati e potenziali

01 Set 2024 | corte di giustizia, in evidenza 1, giurisprudenza

Corte di Giustizia UE Grande Sezione 25 giugno 2024 n. 626

Massime Ufficiali

  1. La Direttiva 2010/75/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, relativa alle emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento), letta alla luce dell’articolo 191 TFUE e degli articoli 35 e 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretata nel senso che: gli Stati membri sono tenuti a prevedere che una previa valutazione degli impatti dell’attività dell’installazione interessata tanto sull’ambiente quanto sulla salute umana costituisca atto interno ai procedimenti di rilascio e riesame di un’autorizzazione all’esercizio di una tale installazione ai sensi di detta direttiva.
  2. La direttiva 2010/75 deve essere interpretata nel senso che: ai fini del rilascio o del riesame di un’autorizzazione all’esercizio di un’installazione ai sensi di tale direttiva, l’autorità competente deve considerare, oltre alle sostanze inquinanti prevedibili tenuto conto della natura e della tipologia dell’attività industriale di cui trattasi, tutte quelle oggetto di emissioni scientificamente note come nocive che possono essere emesse dall’installazione interessata, comprese quelle generate da tale attività che non siano state valutate nel procedimento di autorizzazione iniziale di tale installazione.
  3. La direttiva 2010/75 deve essere interpretata nel senso che: essa osta a una normativa nazionale ai sensi della quale il termine concesso al gestore di un’installazione per conformarsi alle misure di protezione dell’ambiente e della salute umana previste dall’autorizzazione all’esercizio di tale installazione è stato oggetto di ripetute proroghe, sebbene siano stati individuati pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute umana. Qualora l’attività dell’installazione interessata presenti tali pericoli, l’articolo 8, paragrafo 2, secondo comma, di detta direttiva esige, in ogni caso, che l’esercizio di tale installazione sia sospeso.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, sollecitata dal Tribunale delle Imprese di Milano all’interpretazione della direttiva in materia di emissioni industriali e prevenzione integrata dell’inquinamento in una pronuncia pregiudiziale probabilmente decisiva per la definizione della class action in materia di danno da inquinamento provocato da Ilva, boccia lo Stato italiano e i provvedimenti di gestione straordinaria dell’Ilva (i c.d. decreti “Salva Ilva”), con una motivazione che fa riflettere e apre a conseguenze inedite.

Il giudizio principale è la class action proposta da circa 300.000 residenti della zona di Taranto che hanno citato Ilva e Acciaierie d’Italia[i] per vedersi riconoscere la tutela del loro diritto alla salute, alla serenità e alla tranquillità nello svolgimento della vita, e del diritto al clima, affermando di aver subito la lesione di tali diritti da parte dei comportamenti dolosi imputabili alle società, ritenute responsabili di gravi fenomeni di inquinamento di aria, acqua e suolo che, a loro volta, sarebbero la causa degli eventi mortali e delle patologie riscontrati nell’area.

Il giudizio proposto si fonda su alcuni rapporti di valutazione di danno sanitario del 2017, 2018 e 2021 e su studi svolti dal Consiglio dei Diritti Umani delle nazioni Unite nel 2022, a supporto della prova del nesso causale tra lo stato di salute dei residenti nell’area di Taranto e la presenza di particelle di polveri sottili (PM10) e di anidride solforosa (SO2). 

La sentenza esordisce con l’inquadramento normativo, ricordando la assoluta peculiarità della situazione di Ilva e della sua AIA (autorizzazione integrata ambientale).  In sintesi, Ilva è uno stabilimento sottoposto ad AIA nazionale che, a seguito dei noti fatti del luglio 2012 (quando il Tribunale di Taranto dispose il sequestro preventivo degli impianti della c.d. “area a caldo”), è stato oggetto di una serie di normative nazionali specifiche e straordinarie, finalizzate a contemperare le esigenze di tutela ambientale con quelle occupazionali ed economiche. In particolare, per consentire la continuità della produzione, a seguito dell’AIA del 26 ottobre 2012 di riesame della precedente autorizzazione del 2011, una prima qualificazione come “stabilimento di interesse strategico nazionale” è intervenuta a opera del d.l. 207 del 3 dicembre 2012 (convertito con modifiche dalla l. 231/2012) e ha determinato la possibilità di prosecuzione dell’attività per 36 mesi (in ragione dell’assoluta necessità di salvaguardia dell’occupazione e della produzione) tramite riesame dell’AIA da parte del Ministero dell’Ambiente, nonostante l’intervenuto sequestro.

Successivamente con il d.l. 61 del 2013 (convertito con la l. 89/2013) è stata disposta la possibilità di commissariamento straordinario di Ilva, posto che l’attività produttiva comportava pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute a causa della inosservanza reiterata dell’AIA, con la conseguenza per cui un comitato di tre esperti avrebbe dovuto elaborare un piano di azione per garantire il rispetto delle prescrizioni dell’AIA e di legge (con valore di modifica dell’AIA), con interventi (indicati poi dal DPCM 14 marzo 2014) da concludersi entro il 3 agosto del 2016, termine poi (d.l. n. 1 del 2015, convertito con l. 20 del 2015) rimodulato, per l’80% degli interventi entro il 31 luglio 2015, e successivamente rinviato al 30 settembre 2017. Con d.l. 98 2016 (convertito nella l. 151 del 2016) e con d.l. 244 del 2016 (convertito nella l. 19 del 2017), sulla base di tali provvedimenti con DPCM del 29 settembre 2017 si è giunti alla nuova AIA e il termine per la realizzazione degli interventi di risanamento è stato poi rinviato sino al 23 agosto 2023.

La class action si dirige contro questi provvedimenti, che di fatto hanno consentito a Ilva di operare, ritenendo che gli stessi siano stati assunti in violazione della direttiva 2010/75/UE in materia di emissioni industriali e prevenzione integrata dell’inquinamento.

Il Tribunale di Milano, sezione imprese (competente per la class action), si è trovato quindi a dover decidere di una azione nella quale i ricorrenti hanno proposto domande volte all’inibitoria dell’attività industriale[ii] e, nell’ambito dell’analisi della normativa in materia di AIA, si è reso conto del fatto che la VDS – e cioè la valutazione di danno sanitario – non sia in effetti un prerequisito per il rilascio dell’AIA e, se con esito anche nettamente negativo, non determini necessariamente il riesame della medesima AIA: in questo senso il giudice si è domandato se la normativa nazionale possa essere considerata in contrasto con la direttiva 2010/75/Ue del Parlamento Europeo e del Consiglio del 24 novembre 2010 relativa alle emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento), interpretata alla luce del principio di precauzione.

A tale questione se ne sono affiancate altre due, sempre di compatibilità con la direttiva 2010/75/UE, relative rispettivamente alla completezza del set analitico da tenere in considerazione ai fini dell’AIA (e quindi al fatto che, al di là delle sostanze prevedibilmente rilevanti a priori, dovessero includersene altre, effettivamente rilevate) e alla legittimità delle molteplici proroghe previste – a livello di normazione primaria nazionale – per l’effettivo adempimento delle misure a tutela dell’ambiente e della salute delle persone (che, sostanzialmente, a distanza di undici anni, non risultava ancora completato).

Come prevedibile, stante anche la prospettazione delle diverse questioni, la Corte di Giustizia conclude per una incompatibilità della normativa nazionale rispetto soprattutto alle esigenze di tutela della salute delle persone rappresentate dalla direttiva 2010/75/UE in relazione a tutte le questioni – superando il bilanciamento di interessi tra il diritto all’occupazione e allo sviluppo industriale, da una parte, e il diritto alla salute e all’ambiente, con una decisione netta in favore di quest’ultimo – ma la decisione perviene a tali conclusioni, non inattese anche se fortemente impattanti sotto diversi profili, tramite alcune argomentazioni inedite e certamente meritevoli di un commento. 

Queste argomentazioni si evidenziano soprattutto nella parte della decisione della Corte che supera le censure di irricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale sollevate da Ilva e dallo Stato italiano.  In particolare, questi ultimi, avevano obiettato alla ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale sulla base di tre motivi, sul terzo dei quali vale la pena di soffermarsi: in particolare avevano eccepito l’irricevibilità del ricorso, poiché – trattandosi dell’interpretazione di una direttiva non avente effetti diretti tra le parti private – una pronuncia pregiudiziale non avrebbe avuto alcun effetto sulla causa nazionale, posto che sarebbe stato necessario per il legislatore adottare un atto di trasposizione. La Corte sul punto afferma che la circostanza che la controversia pendente innanzi al giudice di rinvio sia una controversia tra privati non comporta di per sé l’irricevibilità e che, anche se è vero che secondo quanto previsto art. 288 comma 3 TFUE il carattere vincolante di una direttiva può essere fatto valere nei confronti dello Stato membro, nella specifica fattispecie all’esame della Corte, questa circostanza sarebbe sussistente.

Il passaggio logico è tutt’altro che diretto, ma di fatto arriva a equiparare il gruppo Ilva allo Stato.

Vediamone la sequenza: al punto 59 della sentenza la Corte ricorda che “i singoli, qualora siano in grado di far valere una direttiva, non nei confronti di un privato, ma di uno Stato membro, possono farlo indipendentemente dalla veste nella quale questo agisce. E’ opportuno evitare, infatti, che lo Stato membro possa trarre vantaggio dalla sua inosservanza del diritto dell’Unione (sentenza del 22 dicembre 2022, Sambre & Biesme e Commune de Farciennes, C-383/21 e C-384/21, EU:2022;1022, punto 37 e giurisprudenza ivi citata).

Al punto 60, poi la Corte si spinge oltre affermando che “devono essere assimilati a uno Stato membro e ai suoi organi amministrativi gli organismi o entità, anche se disciplinati dal diritto privato, che sono soggetti all’autorità o al controllo di un’autorità pubblica o che sono stati incaricati da uno Stato membro di svolgere un compito di interesse pubblico e che, a tal fine, dispongono di poteri eccezionali rispetto a quelli derivanti dalle norme applicabili nei rapporti tra privati (…).

E al punto 61 si comprende quale sia il fattore che ha determinato nella Corte l’idea dell’equiparazione di Ilva allo Stato: “risulta che il decreto-legge n. 207/2012 dispone, al suo articolo 1, comma 1 che “[lo stabilimento Ilva] costituisce stabilimento di interesse strategico nazionale”, passando poi, al punto 62 a esaminare le altre norme sul commissariamento che renderebbero, quindi, Ilva una sorta di “appendice statale”.

Ci sembra che questo ragionamento, se portato alle conseguenze più estreme, comporti una sorta di imputazione della responsabilità finale per la situazione di Ilva in capo allo Stato, facendo così tornare – in una sorta di ricorso storico che per il caso Ilva risulta davvero emblematico – in capo allo Stato italiano gli oneri di risoluzione in via diretta delle questioni industriali e occupazionali, delle quali invece il legislatore ha chiaramente inteso distaccarsi, tramite gli strumenti normativi assunti in tutti questi anni. Forse questo risulta il profilo veramente rivoluzionario della decisione, sulla cui portata anche generale c’è sicuramente da riflettere.

Sotto il profilo del merito, la Corte conclude che i principi contenuti nella direttiva 2010/75, interpretata sulla base dell’art. 191 TFUE, comportano la necessità che gli Stati membri includano all’interno dei procedimenti autorizzativi la preventiva necessaria valutazione degli impatti dell’attività di una qualsiasi installazione sia sull’ambiente sia sulla salute umana. Questo nel quadro delle azioni di cui all’art. 192 comma 1 TFUE che impongono il perseguimento di obiettivi di salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità ambientale e di protezione della salute umana, due componenti strettamente collegate fra loro (conformemente anche a quanto disposto dagli art. 35 e 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).

Lo stabilimento Ilva in quanto installazione sottoposta ad AIA nazionale, quindi, non si sottrae ai principi della direttiva e deve soggiacere alle disposizioni previste dalla direttiva e il soggetto gestore deve quindi fornire in fase procedimentale la visione completa delle emissioni e degli impatti generati dalla propria installazione sia per quanto riguarda gli aspetti ambientali sia per quanto riguarda gli aspetti relativi alla salute.

Quando sussistano, poi, evidenze secondo le quali il livello di salute non è sufficientemente garantito – sostiene la Corte – l’autorizzazione deve “imperativamente e tempestivamente” (punto 100 della sentenza) “essere rivista” e cioè assoggettata alla procedura di revisione prevista dalla direttiva.

Le obiezioni del governo italiano sull’assenza di una specifica norma a supporto dell’inserimento della valutazione del danno sanitario all’interno del procedimento e sulla necessaria attenzione alla natura dinamica dell’attività industriale non convincono la Corte, che ricorda come sia insita alla normativa la necessità di una considerazione effettiva e tempestiva degli impatti sulla salute umana.  Sul primo punto, la Corte conclude, quindi, con la prima massima ufficiale sopra riportata.

Sul secondo punto, quello relativo al set delle sostanze inquinanti, la Corte, abbracciando un orientamento sostanzialistico oramai considerato tradizionale, osserva come, conformemente al principio di prevenzione su cui si fonda la direttiva, rilievo vada dato a tutte le sostanze nocive e inquinanti anche se non considerate nella prima autorizzazione e che in sede di riesame, il procedimento non può limitarsi a fissare valori soglia per le sole sostanze inquinanti la cui emissione era prevedibile, ma che debba svolgere una valutazione globale che tenga conto di “tutte le fonti inquinanti e del loro effetto cumulativo, in modo da garantire che la somma delle loro emissioni non possa comportare alcun superamento dei valori limite per la qualità dell’aria” definiti dalla direttiva 2008/50/CE, ritenuti norme di qualità ambientale applicabili, quindi, anche a Ilva.

La conclusione è quindi quella rappresentata nella seconda massima.

Nel merito la sentenza chiude, quindi, con la critica alle numerose proroghe concesse al gestore dell’installazione Ilva per conformarsi alle misure di protezione dell’ambiente della salute umana previste dall’AIA, ricordando che – nelle more di un periodo di 11 anni – l’installazione ha continuato a operare con una attività industriale ritenuta dallo stesso legislatore gravemente rischiosa per la salute umana e per l’ambiente. La Corte ricorda che in caso di violazione dell’autorizzazione, la direttiva esige che l’esercizio dell’installazione sia sospeso: a fronte delle deduzioni del governo italiano in relazione al problema occupazionale, la Corte ha ricordato che la direttiva prevede la possibilità di concedere un tempo “sufficiente” per adeguarsi alle prescrizioni tecniche necessarie a escludere il pericolo.  Spetterà al giudice del rinvio valutare se le disposizioni previste da Ilva abbiano avuto l’effetto di differire eccessivamente l’attuazione di quelle misure necessarie per conformarsi all’autorizzazione integrata ambientale, tenuto conto del grado di gravità dei danni causati all’ambiente e alla salute umana. 

Al di là, quindi, degli impatti della decisione sulla causa di rinvio e della rilevanza sui profili industriali e occupazionali, certamente più che significativi e sui quali l’attenzione anche mediatica è massima, c’è da chiedersi se il ragionamento logico seguito dalla Corte ai fini di superare l’eccezione di irricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale, possa portare a conseguenze ulteriori e di carattere sostanziale in relazione alla responsabilità dello Stato italiano nella vicenda Ilva. 

Volendo utilizzare il medesimo schema, si può concludere che gli impatti anche della decisione e della sua portata andranno valutati nel loro insieme attuale e prospettico.

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NOTE:

[i] Più precisamente Ilva S.p.A. in amministrazione straordinaria, Acciaierie d’Italia Holding S.p.A. e Acciaierie d’Italia S.p.A.

[ii] Le domande in via gradata sono dirette a ottenere (i) la chiusura dell’”area a caldo” dello stabilimento Ilva, oppure in via subordinata (ii) la chiusura delle cokerie o la cessazione delle relative attività, ovvero (iii) di cessare la produzione dell’”area a caldo” fino a completo recepimento delle prescrizioni dell’AIA del 2017, con domanda di ordinare, in ogni caso, la predisposizione di un piano industriale con abbattimento di almeno il 50% delle emissioni di gas serra o comunque di eliminare gli effetti delle violazioni accertate.

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