ILVA: la Cassazione spalanca la porta al danno risarcibile da immissioni intollerabili basate su fatto notorio

22 Set 2021 | civile, in evidenza 3, giurisprudenza

di Eva Maschietto

Cass. Civ, sez. III, 2 luglio 2021, n. 18810; (Pres. R. Vivaldi, Est. E. Iannello, P.M. Pepe) ILVA S.p.A. in amm. Str. (Avv. G. Lombardi, L.B. Dittrich, A. Deasti) c. DGS e altri (Avv.ti M. Moretti) nei confronti di FC e altri

Ai fini del riconoscimento del danno risarcibile da immissioni intollerabili consistente nella “compressione del diritto di proprietà”, non è necessario da parte del soggetto danneggiato provare la sussistenza di un danno alla salute o morale alle persone, né l’esistenza di danni all’immobile neppure in termini di diminuzione del suo valore, ma è sufficiente allegare una diminuzione dell’uso basata su fatti notori (è stato riconosciuto nella specie il danno, di natura patrimoniale, consistente nell’impossibilità di arieggiare i locali a causa delle emissioni di polveri minerali provenienti dallo stabilimento ILVA di Taranto).

La rilevanza delle esigenze produttive e della priorità d’uso, come indicate all’art. 844 comma 2 c.c., si limita ai casi in cui le immissioni non derivino da un fatto illecito; quando è accertata l’illiceità del fatto generatore delle immissioni e del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema dell’azione generale di risarcimento danni di cui all’art. 2043 cod. civ..

Ancora una sentenza sullo stabilimento ILVA di Taranto che farà discutere.

Questa volta si pronuncia la Cassazione civile in una materia di interesse generale e suscettibile di innescare un importante effetto-domino: quella delle immissioni intollerabili (nella fattispecie, di polveri) e del danno risarcibile. La suprema Corte, con la decisione dei primi di luglio in commento, rigetta integralmente il ricorso di ILVA SpA in amministrazione straordinaria e conferma la sentenza n. 45 della Corte d’Appello di Lecce (sez. distaccata di Taranto) del 31 gennaio 2018, che aveva visto l’allora appellante totalmente soccombente e condannata al risarcimento dei danni derivanti dalla “compromissione del diritto di proprietà” in favore di alcune persone fisiche proprietarie di immobili nella città di Taranto, nella misura pari al 20% del loro valore, a causa delle “notorie” immissioni intollerabili di polveri derivanti dal proprio stabilimento industriale.

La corte di legittimità, in trenta pagine di motivazione serratissima senza lasciare spazio a descrizioni in fatto, sviluppa in maniera minuziosa una serie di questioni tecnico-giuridiche di natura processuale e sostanziale, rivelando la ferma intenzione di smontare in modo analitico i diversi motivi del ricorso che, d’altra parte, si intuiscono dettagliati e pungenti.

Una prima parte della sentenza ci regala una sorta di lectio magistralis sulla costruzione dei motivi di cassazione finalizzati alla contestazione della valutazione delle prove, soprattutto atipiche: in questo senso viene sviscerata – sia sotto il profilo del motivo della violazione di legge (violazione del principio dell’onere della prova ex art. 2697 c.c. e dell’efficacia delle prove civili atipiche, nonché in materia di presunzioni) di cui all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., sia sotto quello del motivo dell’omessa considerazione di fatti decisivi ai fini del giudizio di cui all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. – l’intera casistica delle argomentazioni relative alla contestazioni sulla valutazione delle prove e sulla valenza di fatti notori e presunzioni. Una lettura certamente molto utile a qualsiasi avvocato cassazionista che intenda proporre censure analoghe.

In sintesi, le diverse argomentazioni portate dal ricorso, basate soprattutto sulla pretesa insufficienza della prova del carattere intollerabile delle immissioni, fondata su supposti fatti notori e su presunzioni (oltre che su una CTU ritenuta insufficiente), sull’omessa considerazione di fatti decisivi, volti a dimostrare l’insussistenza di alcun comportamento illecito da parte di ILVA (tra i quali la validità dell’AIA e il suo rispetto, motivazioni ben note e spese nei giudizi amministrativi), sono tutte respinte e si conferma[i] la possibilità che il giudice formi il proprio convincimento anche esclusivamente sulla base di prove atipiche o su presunzioni semplici.

La seconda parte della decisione, a partire dal terzo motivo, è più direttamente attinente al tema sostanziale deciso dalla sentenza d’appello, concentrandosi sul punto che riconosce la sussistenza della “compressione del diritto di proprietà” come diritto a godere in modo pieno ed esclusivo di un bene, anche a prescindere dalla sussistenza di un danno patrimoniale inteso come danno materiale all’immobile o deprezzamento commerciale, e anche a prescindere da un danno non patrimoniale (alla salute o morale o esistenziale) del suo proprietario o occupante.

In questo senso, la limitazione del godimento accertata dai giudici di merito e relativa all’impossibilità di arieggiamento degli immobili dei proprietari a causa della presenza di polveri invasive (fatto notorio, la cui certezza ai fini probatori viene smarcata dalla Corte nel rigetto dei primi due motivi), è ritenuta sufficiente a costituire quel pregiudizio di carattere patrimoniale, nella forma del danno emergente, meritevole di essere risarcito ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. (diversamente da quanto sostenuto dalla difesa di ILVA per cui la “compressione” o “limitazione” del diritto di proprietà è associata a un indennizzo e non a un risarcimento, non costituendo un vero illecito).

La motivazione muove da una sintesi delle decisioni in materia risarcitoria, per ricordare come quello che rileva è il solo danno-conseguenza, che va allegato e provato, non potendosi riconoscere un danno risarcibile in re ipsa che coincida con il semplice fatto lesivo. A questo punto, si intuisce che la difesa di ILVA abbia, quindi, concluso che, nel caso della presenza di polveri che impediscano l’arieggiamento dei locali, in assenza di danni materiali all’immobile, della prova di una diminuzione del valore del medesimo, in assenza di pregiudizi per la salute delle persone e di allegazione di danni esistenziali o morali, non sia possibile riconoscere un risarcimento, essendo la “compressione del diritto di proprietà” proprio il fatto lesivo. Ma la Cassazione con un passaggio logico estremamente rapido e diretto, invece, afferma che la limitazione del diritto di proprietà, nella specifica forma descritta, è senza dubbio alcuno un c.d. “danno conseguenza” pienamente risarcibile, comportando “una compromissione dei poteri (e correlativamente delle situazioni di vantaggio) che concretano il contenuto del diritto di proprietà”, affermando che tale pregiudizio ha natura patrimonialeIn tal senso cita il precedente della seconda sezione, Cass. Civ. II n. 33439/2019[ii] e quello della stessa terza sezione, Cass. Civ. III 22824/2018[iii] per stabilire che la compressione o la limitazione del diritto di proprietà o di altro diritto reale che siano causate dall’altrui fatto illecito sono suscettibili di valutazione economica, a prescindere da altre valutazioni e altri danni (anch’essi risarcibili in via autonoma), in quanto costituiscono una “perdita di oggettive potenzialità di godimento” del diritto di proprietà derivante, nella specie, dalle immissioni. E ciò, ribadisce la sentenza quasi a dare un’indicazione per il futuro, anche al di là delle ragioni soggettive di sofferenza che ne derivino, o dal danno esistenziale relativo alla lesione alla vita di relazione collegato al diritto alla esplicazione piena della vita familiare e quotidiana (garantiti costituzionalmente e ai sensi dell’art. 8 CEDU), tutte voci che non erano state dedotte nel giudizio di merito e che avrebbero potuto formare oggetto di un danno non patrimoniale.

Il quarto motivo si sofferma, invece, sull’esegesi del secondo comma dell’art. 844 c.c. in relazione alla rilevanza della priorità d’uso e dell’applicazione del criterio del contemperamento tra le esigenze della produzione e le ragioni della proprietà.  Anche in questo ultimo caso, la Cassazione conferma la pronuncia della Corte d’Appello, che interpreta la disposizione del secondo comma, che attribuisce rilevanza quindi alle condizioni ivi descritte, come limitata ai casi in cui l’immissione non derivi da un fatto illecito.  In questo senso, si intuisce come la difesa di ILVA avesse sostenuto che il criterio del preuso dovesse essere utilizzato per l’individuazione e l’applicazione del concetto di “normale tollerabilità”, facendosi forza sul fatto che le emissioni di polveri causa delle immissioni erano intervenute prima del 1995 (quando ILVA era in mano pubblica). Corollario dell’interpretazione proposta dalla ricorrente era poi che il necessario bilanciamento tra diritto dominicale e le esigenze della produzione dovesse rientrare in questo giudizio relativo al preuso e, anche in considerazione del fatto che i proprietari non si erano per molti anni mai lamentati dell’intollerabilità delle immissioni, si dovesse concludere che le immissioni non potessero essere considerate intollerabili.  Tale ricostruzione, che risulta obiettivamente piuttosto convincente, viene anch’essa spazzata via dalla Suprema Corte che interpreta l’articolo 844 c.c. come riferito all’ipotesi di emissioni normalmente tollerabili e derivanti da fatto lecito, le quali sole possono essere valutate nell’ambito dell’uso precedente e del contemperamento delle diverse esigenze, affermando che una volta riconosciuta l’illiceità della condotta, non vi è ragione per imporre un sacrificio neppure minimo al diritto dominicale. In sostanza, secondo quanto affermato da diversi precedenti in termini[iv], una volta accertata l’illiceità del fatto generatore delle immissioni (in questo senso lo spargimento delle polveri) e del fatto che queste abbiano determinato la compromissione del diritto di proprietà come accertato nell’esame del terzo motivo, non vi era più spazio per una valutazione sull’applicabilità dei requisiti di cui al secondo comma dell’art. 844 c.c.

L’ultima cartuccia sparata dalla difesa di ILVA è quella relativa alla quantificazione del danno che, come sopra ricordato, la Corte d’Appello aveva riconosciuto nella misura del 20% del valore dell’immobile a ciascuno dei proprietari. Si comprende che ILVA cerchi di differenziare le quantificazioni rispetto ai diversi soggetti attori nel merito (e al loro uso degli immobili), oltre a contestare la ragionevolezza e le basi di un criterio matematico secco, costituito da una percentuale del valore dell’immobile.  La Cassazione in modo deciso rigetta anche questo quinto motivo osservando come la liquidazione intervenuta in via equitativa del danno mantenga la decisione nell’ambito di un giudizio in diritto nel quale il giudice del merito ha utilizzato lo strumento correttivo e integrativo dell’equità per liquidare un danno la cui quantificazione sia obiettivamente difficile se non impossibile.  Una volta accertato il corretto esercizio del relativo potere da parte del giudice del merito, tale valutazione equitativa non è censurabile in sede di legittimità.

Per il testo della sentenza cliccare sul pdf allegato.

Cass. civile 18810_2021

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CASS 2021 ILVA

Note:

[i] Richiamando tra le altre: Cass. Civ., III, n. 840/2015 per cui “Il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio convincimento anche in base a prove atipiche come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, delle quali la sentenza ivi pronunciata costituisce documentazione, fornendo adeguata motivazione della relativa utilizzazione, senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento, relative all’ammissione e all’assunzione della prova”, ancora Cass. Civ. II n. 20719/2018 e Cass. Civ. III, 16916/2019 per cui “nell’ordinamento processualcivilistico, mancando una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purchè idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se e in quanto non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze del processo (Cass. 25 marzo 2004, n. 5965). In base al principio del libero convincimento, pertanto, il giudice civile può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente, le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali. In tale contesto, deve ritenersi che il giudice civile possa trarre elementi di convincimento – sempre che li sottoponga ad adeguato vaglio critico – anche dalle dichiarazioni c.d. autoindizianti rese da un soggetto in un procedimento penale, non potendo la sanzione di inutilizzabilità prevista dall’art. 63 c.p.p., posta a tutela dei diritti di difesa in quella sede, spiegare effetti al di fuori del processo penale. L’utilizzabilità, difatti, è categoria del solo rito penale, ignota al processo civile, e le prove precostituite, quali gli stessi documenti provenienti da un giudizio penale, entrano legittimamente nel processo, attraverso la produzione e nella decisione in virtù di un’operazione di logica giuridica, e tali risultanze probatorie appaiono contestabili solo se svolte in contrasto con le regole, rispettivamente, processuali o di giudizio, che vi presiedono (Cass. 4 giugno 2014, n. 12577, con riferimento, in particolare, al valore probatorio delle dichiarazioni indizianti ex art. 63 c.p.p.)”.

[ii] Che, in un precedente deciso dalla Corte d’Appello di Napoli, pur riconoscendo in generale il principio, aveva escluso il diritto al risarcimento per insufficienza della prova.

[iii] Che, nel cassare con rinvio una decisione della Corte d’Appello di Catanzaro, si era pronunciato sulla compromissione di una falda derivante dall’inquinamento del terreno derivante dalla fuoriuscita di benzina da un distributore, disconoscendone la possibilità di una valutazione equitativa del danno, che – invece – non viene affatto escluso da parte della Suprema Corte, aveva affermato che “Il dimostrato inquinamento delle falde acquifere è infatti indubitabilmente esso stesso un danno conseguenza, comportando una grave ed evidente compromissione di una risorsa preziosa del terreno, suscettibile di valutazione economica”.

[iv] Cass. Civ. II, 3 settembre 2018 n. 21554; Cass. Civ. III, 13 marzo 2007 n. 5844, e altre antecedenti.

 

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