Imballaggi e rifiuti di imballaggio Divieto della commercializzazione di sacchetti di plastica non biodegradabili per l’asporto delle merci

04 Feb 2024 | giurisprudenza, corte costituzionale

di Luciano Butti

Corte di giustizia dell’Unione europea, Terza Sezione, causa C-86/22 del 21 dicembre 2023 – Pres. K. Jürimäe, Rel. M. Gavalec, Avv. gen. M. Campos Sánchez-Bordona – P. M. I. s.r.l. contro Ministero della transizione ecologica (oggi Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica), Ministero dello sviluppo economico (oggi Ministero delle imprese e del made in Italy), con l’intervento di Associazione Italiana delle Bioplastiche e dei Materiali Biodegradabili e Compostabili – Assobioplastiche

Gli articoli 8 e 9 della direttiva 98/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 giugno 1998, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione, come modificata dal regolamento (UE) n. 1025/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, devono essere interpretati nel senso che: essi ostano all’adozione di una normativa nazionale che vieti la commercializzazione di sacchi monouso fabbricati a partire da materiali non biodegradabili e non compostabili, ma rispondenti agli altri requisiti stabiliti nella direttiva 94/62/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 dicembre 1994, sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio, come modificata dalla direttiva 2013/2/UE della Commissione, del 7 febbraio 2013, quando tale normativa sia stata comunicata alla Commissione europea solo qualche giorno prima della sua adozione e pubblicazione.

L’articolo 18 della direttiva 94/62, come modificata dalla direttiva 2013/2, in combinato disposto con l’articolo 9 e con l’allegato II alla direttiva 94/62, come modificata, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che vieti la commercializzazione di sacchi monouso fabbricati a partire da materiali non biodegradabili e non compostabili, ma rispondenti agli altri requisiti stabiliti nella direttiva 94/62, come modificata. Detta normativa può tuttavia trovare giustificazione nella finalità di assicurare un livello più elevato di tutela dell’ambiente, qualora siano soddisfatte le condizioni di cui all’articolo 114, paragrafi 5 e 6, TFUE.

L’articolo 18 della direttiva 94/62, come modificata dalla direttiva 2013/2, in combinato disposto con l’articolo 9, paragrafo 1, e con l’allegato II alla direttiva 94/62, come modificata, deve essere interpretato nel senso che esso ha effetto diretto, cosicché un giudice nazionale, in una controversia tra un singolo e delle autorità nazionali, deve disapplicare una normativa nazionale contraria a detto articolo 18.

L’articolo 18 della direttiva 94/62, come modificata dalla direttiva 2013/2, deve essere interpretato nel senso che una normativa nazionale che vieti la commercializzazione di sacchi monouso fabbricati a partire da materiali non biodegradabili e non compostabili, ma rispondenti agli altri requisiti stabiliti nella direttiva 94/62, come modificata, può costituire una violazione sufficientemente qualificata di detto articolo 18.

Questa sentenza della Corte di Giustizia, pur riguardando una normativa nazionale ed europea ormai superata, è importante, soprattutto per una serie di passaggi della motivazione.

Ma andiamo per ordine, descrivendo in primo luogo il caso affrontato dai Giudici europei e il contenuto della loro decisione.

La normativa italiana dell’epoca (DM 18 marzo 2013) aveva vietato la commercializzazione di sacchetti monouso in plastica (ad eccezione di quelli compostabili).

Un produttore dei sacchetti allora vietati si era appellato al TAR del Lazio, che a sua volta aveva investito del problema la Corte di Giustizia.

La domanda di pronuncia pregiudiziale verteva sull’interpretazione degli articoli 1, 2, 9, 16 e 18 della direttiva 94/62/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 dicembre 1994, sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio (oggi sostituita da una diversa disciplina).

La domanda venne presentata nell’ambito di una controversia tra un produttore di sacchetti e i Ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo Economico, relativamente, da un lato, alla legittimità di un decreto ministeriale che aveva imposto il rispetto di talune caratteristiche tecniche per la commercializzazione di sacchetti di plastica per l’asporto delle merci e, dall’altro, al risarcimento dei danni asseritamente causati dall’adozione di detto decreto.

Le quattro questioni pregiudiziali che vennero sollevate dal TAR del Lazio riguardavano in sintesi i seguenti aspetti:

  1. La possibilità per una normativa nazionale di vietare la commercializzazione di sacchi da asporto monouso fabbricati con materiali non biodegradabili, quando tale disciplina nazionale, contenente regole tecniche più restrittive rispetto alla normativa comunitaria, non sia stata previamente notificata dallo Stato membro alla Commissione europea, ma solo comunicata successivamente all’adozione e prima della pubblicazione del provvedimento;
  2. Se, comunque, le ulteriori norme tecniche stabilite dalla normativa nazionale potessero trovare giustificazione in base alla finalità di assicurare una più alta tutela dell’ambiente;
  3. Se le norme europee all’epoca vigenti costituissero una norma chiara e precisa, atta a vietare qualsiasi ostacolo alla commercializzazione dei sacchetti conformi ai requisiti stabiliti dalla direttiva e a comportare la necessaria disapplicazione della normativa nazionale eventualmente difforme ad opera di tutti gli organi dello Stato, ivi incluse le amministrazioni pubbliche;
  4. Se, infine, l’adozione di una normativa nazionale di divieto di commercializzazione di sacchetti da asporto monouso non biodegradabili, ma fabbricati nel rispetto dei requisiti stabiliti dalla direttiva 94/62, ove non giustificata dalla finalità di assicurare una più alta tutela dell’ambiente, dalla particolarità delle problematiche della raccolta dei rifiuti nello Stato membro e dalla necessità dello Stato stesso di dare attuazione anche agli obblighi comunitari previsti in tale connesso ambito, potesse costituire violazione grave e manifesta dell’articolo 18 della direttiva 94/62.

Respinte le eccezioni di ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale, principalmente perché le risposte ad esse avrebbero consentito al giudice del rinvio di statuire sul ricorso per risarcimento danni proposto nella causa italiana (la disciplina nazionale era infatti stata nel frattempo modificata), la Corte di Giustizia è entrata nel merito delle varie questioni pregiudiziali.

LA PRIMA QUESTIONE DI INTERPRETAZIONE

Quanto alla prima questione, la Corte ha in primo luogo ricordato che “la direttiva 98/34 è volta a tutelare, mediante un controllo preventivo, la libera circolazione delle merci, che costituisce uno dei fondamenti dell’Unione, e l’utilità di tale controllo emerge nei casi in cui regole tecniche che rientrano nel campo di applicazione di tale direttiva possano costituire ostacoli agli scambi delle merci fra Stati membri, ostacoli che sono ammissibili solo se necessari per soddisfare obblighi imperativi diretti al conseguimento di uno scopo d’interesse generale” [i].

Dalla giurisprudenza costante della Corte risulta altresì che una regola tecnica non può essere applicata quando essa non è stata comunicata, oppure quando, pur essendo stata comunicata, essa è stata approvata e posta in esecuzione prima della scadenza del periodo di sospensione di tre mesi previsto dalla normativa europea.

Orbene, nel caso in questione non venne comunicato alla Commissione (come richiesto dalla normativa europea) un “progetto di regola tecnica”, ma una versione finale di quest’ultima, che si trovava in una fase in cui non era allora possibile apportare emendamenti sostanziali.

Pertanto, in questo caso, non è stato consentito alla Commissione di poter valutare se i progetti di misure che le sono sottoposti siano o meno compatibili con il diritto dell’Unione e, se del caso, di trarne le opportune conseguenze giuridiche. Conseguentemente, ritiene la Corte che alla prima questione si debba rispondere nel senso che:

“Gli articoli 8 e 9 della direttiva 98/34 devono essere interpretati nel senso che essi ostano all’adozione di una normativa nazionale che vieti la commercializzazione di sacchi monouso fabbricati a partire da materiali non biodegradabili e non compostabili, ma rispondenti agli altri requisiti stabiliti nella direttiva 94/62, quando tale normativa sia stata comunicata alla Commissione solo qualche giorno prima della sua adozione e pubblicazione”.

LA SECONDA QUESTIONE DI INTERPRETAZIONE

Quanto alla seconda questione, che riguardava la possibilità per lo Stato membro di introdurre restrizioni maggiori rispetto alla normativa europea in nome di una più elevata tutela dell’ambiente, la Corte ha in primo luogo rilevato che l’articolo 18 della direttiva 94/62, intitolato “Libertà di immissione sul mercato”, prevede che gli Stati membri non possano ostacolare l’immissione sul mercato nel loro territorio di imballaggi conformi alle disposizioni di tale direttiva, miranti ad armonizzare in modo completo le discipline nazionali [ii]. Del resto, come rilevato anche dall’Avvocato generale al paragrafo 72 delle sue conclusioni, “quando procedono ad un’armonizzazione completa, le istituzioni dell’Unione provvedono al necessario bilanciamento tra l’obiettivo della libera circolazione del prodotto di cui trattasi e quello della tutela di interessi generali e particolari, cosicché il risultato di tale bilanciamento non può essere messo in discussione dalle autorità nazionali”.

Se il governo italiano avesse inteso adottare disposizioni più rigorose per l’immissione sul mercato dei sacchi di plastica per ragioni ambientali, esso avrebbe potuto farlo solo conformemente all’articolo 114, paragrafi 5 e 6, TFUE, e pertanto sulla sola base di “nuove prove scientifiche inerenti alla protezione dell’ambiente”, a condizione di aver tempestivamente notificato il progetto alla Commissione, con indicazione precisa delle nuove evidenze scientifiche.

Conseguentemente, ritiene la Corte che alla seconda questione si debba rispondere nel senso che:

L’articolo 18 della direttiva 94/62, in combinato disposto con l’articolo 9 e con l’allegato II a quest’ultima, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che vieti la commercializzazione di sacchi monouso fabbricati a partire da materiali non biodegradabili e non compostabili, ma rispondenti agli altri requisiti stabiliti in tale direttiva. Detta normativa può tuttavia trovare giustificazione nella finalità di assicurare un livello più elevato di tutela dell’ambiente, qualora siano soddisfatte le condizioni di cui all’articolo 114, paragrafi 5 e 6, TFUE” (e pertanto sulla sola base di “nuove prove scientifiche inerenti alla protezione dell’ambiente”).

LA TERZA QUESTIONE DI INTERPRETAZIONE

Come sopra anticipato, la terza questione riguardava la natura chiara e precisa delle norme europee all’epoca vigenti circa la commercializzazione dei sacchetti con la conseguente necessaria disapplicazione della normativa nazionale eventualmente difforme ad opera di tutti gli organi dello Stato, ivi incluse le amministrazioni pubbliche.

Ricorda la Corte, a tale riguardo, che, per essere riconosciuta come avente effetto diretto, una disposizione di una direttiva deve apparire, dal punto di vista sostanziale, incondizionata e sufficientemente precisa [iii].

Tali requisiti, secondo la Corte, nel caso di specie ricorrevano pienamente nel momento in cui la questione di interpretazione venne formulata (infatti soltanto la successiva direttiva 2015/720 – qui non applicabile ratione temporis – ha autorizzato gli Stati membri ad introdurre misure più restrittive

per la commercializzazione delle borse di plastica in materiale leggero).

Conseguentemente, ritiene la Corte che alla terza questione si debba rispondere nel senso che:

L’articolo 18 della direttiva 94/62, in combinato disposto con l’articolo 9, paragrafo 1, e con l’allegato II a quest’ultima, deve essere interpretato nel senso che esso ha effetto diretto, cosicché un giudice nazionale, in una controversia tra un singolo e delle autorità nazionali, deve disapplicare una normativa nazionale contraria a detto articolo”.

LA QUARTA QUESTIONE DI INTERPRETAZIONE

La quarta questione posta dal Tribunale italiano riguardava la natura della violazione commessa dallo Stato membro che vieti la commercializzazione di sacchi monouso fabbricati a partire da materiali non biodegradabili e non compostabili, ma rispondenti agli altri requisiti stabiliti da tale direttiva. In particolare, si chiedeva se ciò possa costituire una violazione sufficientemente qualificata dell’art. 18 della direttiva 94/62, come modificata dalla direttiva 2013/2 (questa disposizione vieta agli Stati membri di ostacolare l’immissione sul mercato nel loro territorio di imballaggi conformi alle disposizioni della direttiva).

Ha ricordato al riguardo la Corte di Giustizia, nella decisione in commento, che il diritto al risarcimento di un singolo presuppone, segnatamente, che la violazione della norma giuridica dell’Unione di cui trattasi sia “sufficientemente qualificata”. Viene considerata tale, per costante giurisprudenza, “una violazione grave e manifesta da parte dello Stato membro dei limiti posti al suo potere discrezionale”. Vengono a tal fine in rilievo “il grado di chiarezza e precisione della norma violata, l’ampiezza del potere discrezionale che tale norma riserva alle autorità nazionali interessate, la scusabilità o inescusabilità di un eventuale errore di diritto, il carattere intenzionale o involontario della trasgressione commessa o del danno causato o, ancora, la circostanza che i comportamenti adottati da un’istituzione dell’Unione abbiano potuto concorrere all’omissione, all’adozione o al mantenimento in vigore di provvedimenti o prassi nazionali contrari al diritto dell’Unione” [iv]. Peraltro, nell’ipotesi in cui lo Stato membro non si trovi di fronte a scelte normative e disponga di un margine discrezionale considerevolmente ridotto, se non inesistente, la semplice trasgressione del diritto dell’Unione può essere sufficiente per integrare una violazione sufficientemente qualificata [v].

Venendo al caso in questione, poiché l’articolo 18 della direttiva 94/62 istituisce, in termini inequivocabili, un obbligo di non fare, esso costituisce una “disposizione sufficientemente precisa”; pertanto, sulla base di esso, gli Stati membri devono astenersi dall’adottare qualsiasi misura che limiti la commercializzazione di imballaggi conformi alle norme di detta direttiva, senza alcun margine di discrezionalità per le autorità nazionali.

Conseguentemente, ritiene la Corte che alla quarta questione si debba rispondere nel senso che:

L’articolo 18 della direttiva 94/62 deve essere interpretato nel senso che una normativa nazionale che vieti la commercializzazione di sacchi monouso fabbricati a partire da materiali non biodegradabili e non compostabili, ma rispondenti agli altri requisiti stabiliti in tale direttiva, può costituire una violazione sufficientemente qualificata di detto articolo 18”.

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

La complessa decisione della Corte di Giustizia merita attenzione essenzialmente per due aspetti, uno di natura procedurale e uno di natura sostanziale.

Il profilo procedurale riguarda le modalità, soprattutto temporali, con le quali gli Stati membri sono tenuti a comunicare preventivamente alla Commissione i progetti di regole tecniche. Considerato che questa forma di controllo preventivo mira a salvaguardare uno dei pilastri fondanti l’Unione europea – vale a dire la libera circolazione delle merci – la Corte di Giustizia ha comprensibilmente deciso di adottare un approccio anche formalmente rigoroso, rispondendo alla prima questione di interpretazione posta dal Tribunale italiano. Non è stato quindi giudicato possibile, come aveva invece fatto l’Italia, comunicare questi progetti all’ultimo momento, quando ormai la normativa nazionale era in dirittura d’arrivo.

Ancor più interessante è il profilo sostanziale, affrontato dalla Corte di Giustizia nel rispondere alla seconda questione di interpretazione. Essa riguardava la possibilità o meno, per lo Stato membro, di introdurre restrizioni maggiori rispetto alla normativa europea sulla libera circolazione in nome di una più elevata tutela dell’ambiente. Su questo la Corte ha evitato una risposta semplicistica, che avrebbe potuto spingerla ad ammettere in qualsiasi caso norme nazionali sull’ambiente più restrittive rispetto agli standard definiti in sede europea. In realtà, la Corte si è mostrata ben consapevole che tali standard vengono definiti dopo un attento bilanciamento tra l’obiettivo della libera circolazione dei prodotti e quello della tutela di interessi generali, e che – salvo il caso in cui sia la stessa disciplina europea ad autorizzare gli Stati membri ad approvare normative più restrittive – questo bilanciamento non può essere messo in discussione dalle autorità nazionali senza precisi limiti e requisiti. Essi consistono, spiega la Corte, nell’esistenza di “prove scientifiche” nuove che dimostrino l’insufficienza dei requisiti definiti in sede europea. E pertanto, quando tali (nuove) prove scientifiche vengono prodotte dallo Stato che intende irrigidire la disciplina in nome della tutela ambientale, tale disciplina è pienamente legittima; qualora invece tali nuove prove manchino, non è legittimo per uno Stato membro appesantire i vincoli in nome di un generico richiamo al principio di precauzione [vi]. La conclusione raggiunta dalla Corte di Giustizia appare rigorosa e convincente, e indirettamente ricorda il principio affermato dalla Corte costituzionale italiana circa la necessità per il legislatore di basarsi sui pareri degli organismi tecnici e scientifici ufficiali dello Stato e dell’Unione (cd. “riserva di scienza”), quanto interviene in materie scientificamente rilevanti, come quasi sempre sono quelle ambientali [vii].

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NOTE:

[i] Cfr., in tal senso, sentenze del 30 aprile 1996, CIA Security International, C-194/94, EU:C:1996:172, punti 40 e 48; dell’8 settembre 2005, Lidl Italia, C-303/04, EU:C:2005:528, punto 22, nonché del 9 giugno 2011, Intercommunale Intermosane e Fédération de l’industrie et du gaz, C-361/10, EU:C:2011:382, punto 10).

[ii] V. sentenze del 14 dicembre 2004, Radlberger Getränkegesellschaft e S. Spitz, C-309/02, EU:C:2004:799, punto 56, nonché del 14 dicembre 2004, Commissione/Germania, C-463/01, EU:C:2004:797, punto 44. Cfr. inoltre sentenze dell’8 maggio 2003, ATRAL, C-14/02, EU:C:2003:265, punto 44, e del 12 aprile 2018, Fédération des entreprises de la beauté, C-13/17, EU:C:2018:246, punto 23.

[iii] V., in tal senso, sentenza dell’8 marzo 2022, Bezirkshauptmannschaft Hartberg-Fürstenfeld (Effetto diretto), C-205/20, EU:C:2022:168, punti 17 e 18, nonché sentenza dell’8 marzo 2022, Bezirkshauptmannschaft HartbergFürstenfeld (EffettoS), C-205/20, EU:C:2022:168, punto 19.

[iv] Cfr. sentenza del 5 marzo 1996, Brasserie du pêcheur e Factortame, C-46/93 e C-48/93, EU:C:1996:79, punto 55, nonché – in merito ai vari indicatori delle violazioni qualificate – sentenze del 5 marzo 1996, Brasserie du pêcheur e Factortame, C-46/93 e C-48/93, EU:C:1996:79, punto 56, e del 4 ottobre 2018, Kantarev, C-571/16, EU:C:2018:807, punto 105.

[v] V. sentenza del 16 ottobre 2008, Synthon, C-452/06, EU:C:2008:565, punto 38.

[vi] Cfr. la Comunicazione (COM(2000) 1final) della Commissione europea sul principio di precauzione, per la quale ogni misura precauzionale deve basarsi su una attenta valutazione scientifica e su una comparazione fra costi e benefici.

[vii] Cfr. ad esempio Corte costituzionale n. 116/2006, in materia di divieti relativi agli OGM.

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