Bonifica dei siti contaminati. Poteri del giudice e posizione delle parti: una situazione di squilibrio?

04 Ago 2022 | giurisprudenza, amministrativo, in evidenza 2

di Eva Maschietto

Consiglio di Stato, Sez. IV 6 giugno 2022, n. 4588 – (Pres. V. Poli, Est. S. Martino) – I. S.p.A. (Avv.ti M. Sella, C. Visco, L.Torlaschi) c. Ministero della transizione ecologica, Ministero dello sviluppo economico, Ministero della Cultura e Ministero della salute, ISS, ISPRA (Avv. gen. Stato), Provincia di Mantova (Avv.ti E. Persegati Ruggerini e L. Salemi) Comune di Mantova e altri n.c., nei confronti di B. (Avv.ti F. Peres e A. Kiniger)

Nella materia ambientale, in quanto materia tecnico-scientifica, si applica il principio per cui le valutazioni delle autorità preposte sono ampiamente discrezionali, e quindi possono essere sindacate in sede di giurisdizione di legittimità nei soli casi di risultati abnormi o evidentemente illogici e contraddittori.

Non è consentito chiedere al giudice di sostituirsi alle valutazioni tecniche riservate alle amministrazioni giungendo ad esiti diversi fondati, ad esempio, su una c.t.u. o una verificazione sollecitate dalla parte, ovvero sulle perizie tecniche di parte o con il richiamo a studi predisposti da propri esperti che potrebbero essere valutabili solo se ritualmente introdotti all’interno del procedimento amministrativo e condivisi espressamente dall’autorità competente.

Il nesso causale tra una determinata presunta causa di inquinamento ed i relativi effetti si basa sul criterio del “più probabile che non” e, quindi, richiede semplicemente che il nesso eziologico ipotizzato dall’autorità competente sia più probabile della sua negazione.

Il Consiglio di Stato decide con la sentenza in commento (insieme ad altre emesse contestualmente) una serie di complesse e annose vicende giudiziarie riguardanti il Sito di interesse nazionale “Laghi di Mantova e Polo Chimico”, che vedono opposta la società appellante (che svolge sul sito attività di raffinazione di petrolio e di commercializzazione di prodotti petroliferi) al Ministero della Transizione Ecologica e alle autorità locali.

Come sovente accade, la ricorrente in appello si lamenta della sentenza di primo grado (che ritiene adagiata sulle posizioni delle amministrazioni in modo acritico), riproponendo i motivi di primo grado e si oppone a prescrizioni (in questo caso reiterate rispetto a precedenti prescrizioni inottemperate) imposte dall’autorità.

Si comprende come tali prescrizioni avessero interessato innanzitutto le modalità di indagine sullo stato ambientale del Sito e, quindi, fossero indirizzate all’imposizione di “interventi di messa in sicurezza d’emergenza e/o bonifica ove necessari”, nell’area esterna al confine della raffineria, anch’essa di proprietà della appellante.

In particolare l’appellante aveva invocato il fatto che la precedente indagine effettuata sull’area (dalla stessa ritenuta sufficiente) era stata condotta sulla base di procedure approvate dall’autorità e aveva obiettato che quindi la nuova richiesta sarebbe stata gravosa e ingiustificata.

Il Consiglio di Stato mette subito le mani avanti, precisando che “va premesso che nelle materie tecnico scientifiche – quale è indubbiamente quella in esame, relativa in generale alla tutela dell’ambiente dall’inquinamento – si applica il principio per cui le valutazioni delle autorità preposte sono ampiamente discrezionali, e quindi possono essere sindacate in sede di giurisdizione di legittimità nei soli casi di risultati abnormi o evidentemente illogici e contraddittori (per tutte, con riferimento alla più ampia materia delle valutazioni ambientali, Cons. Stato, sez. II, 7 settembre 2020 n.5379; sez. IV, 9 gennaio 2014 n. 36)”.

Una sorta di adagio, ripetuto poi nell’ultima parte della sentenza in relazione alla diversa questione dell’adozione di concrete misure, che sostanzialmente allontana l’autorità giurisdizionale da un sindacato nel merito. Tutto corretto, fino a che non si dimostri appunto che i risultati siano “illogici” e “contraddittori”, circostanza che – di norma – qualunque ricorrente contesta.

La sentenza procede, sempre anticipando le conclusioni, ricordando che “non è invece consentito chiedere al giudice di sostituirsi alle valutazioni riservate alle Amministrazioni giungendo ad esiti diversi fondati, ad esempio, su una c.t.u. o una verificazione sollecitate dalla parte (sul punto specifico, Cons. Stato, sez. IV, 8 giugno 2009 n. 3500), ovvero sulle perizie tecniche di parte o con il richiamo a studi predisposti da propri esperti (sul principio, per tutte Cons. Stato, sez. V, 25 marzo 2021 n.2524, e per il caso particolare del parere di un esperto di parte, sez. IV, 7 giugno 2021 n.4331). Studi di questo genere infatti, secondo logica, potrebbero essere valutabili solo se ritualmente introdotti all’interno del procedimento amministrativo e condivisi espressamente dall’autorità competente”.

I fatti descritti in sentenza sono troppo scarni per poter essere commentati nel merito, ma se certamente è vero che il giudice non può in alcun modo sostituirsi al giudizio tecnico dell’amministrazione (per il principio della separazione dei poteri), altrettanto sicuramente il giudice può (e deve) procedere al sindacato sulla logicità e coerenza di un ragionamento anche tecnico dell’amministrazione ove gli elementi di prova portati dal ricorrente (elementi che sono, generalmente, di fonte “partigiana”, stante il suo stato di contrapposizione all’amministrazione) siano convincenti. In tali casi, il giudice, sia pur nell’ambito di una prova messa a disposizione dalla parte ricorrente (tenendosi a mente la diversa funzione degli accertamenti tecnici nel giudizio amministrativo), ha la possibilità di disporre una verificazione o, in casi estremi, la CTU.

In questo caso il Consiglio di Stato non spende nessuna parola su tali possibilità e si limita ad affermare che le prove portate dal ricorrente non hanno confutato, nella sostanza, le assunzioni relative all’inattendibilità della pregressa indagine, liquidandole di fatto come inidonee.

La seconda parte della decisione si sofferma, invece, sulla annosa questione dell’imposizione nei confronti del proprietario di un sito (nei confronti del quale non vi sia un accertamento patente della responsabilità ambientale) di misure ambientali: nella specie di esecuzione dell’analisi di rischio.

In questo senso, il secondo capo della sentenza esordisce, in modo sempre molto poco incoraggiante, ricordando che il nesso causale tra una determinata presunta causa di inquinamento e i relativi effetti si basa sul criterio del “più probabile che non”, richiedendo semplicemente che il nesso eziologico ipotizzato dall’autorità competente sia più probabile della sua negazione (in questo senso la costante giurisprudenza, per tutte Cons. Stato, Ad. plen. n. 10 del 2019; successivamente, sez. IV, 7 gennaio 2021 n.172). Principio consolidato.

Il passaggio successivo, tuttavia, della decisione appare ancora meno incoraggiante, in quanto adombra una teoria che riconduce la responsabilità ad una precedente attività volontaria: il sillogismo è in sostanza, siccome la società aveva spontaneamente accettato di estendere alcune indagini di caratterizzazione fuori dal sito della raffineria (per la quale la responsabilità era assodata), tale “disponibilità’” avrebbe comportato una sorta di conseguente obbligo ad effettuare l’analisi di rischio, sia pur in assenza di un accertamento positivo della sua responsabilità, ma sulla base di una sorta di aura presuntiva.

Il Consiglio di Stato, aggiunge – con un salto logico che può sembrare impercettibile, ma che è sostanziale – che quindi “l’Amministrazione si è ragionevolmente basata sulla vicinanza della raffineria nonché sulla circostanza che le sostanze ritrovate sia nei suoli che nelle acque di falda corrispondono alle componenti impiegate nel ciclo produttivo dell’azienda” per imporre obblighi al proprietario, senza condurre una specifica analisi sulle responsabilità.

Da qui, il passo all’accertamento della responsabilità è brevissimo: il Consiglio di Stato – non è chiaro se, in questo caso, aggiungendo una propria autonoma considerazione ai rilievi dell’amministrazione, ma così sembra dal tenore motivazionale – afferma che “vi sono invece sufficienti elementi per ritenere che la contaminazione in esame sia il risultato della trasmigrazione dell’inquinamento dall’area della raffineria, secondo il criterio del “più probabile che non” correttamente richiamato dal primo giudice quanto all’accertamento del nesso causale”.

Due pesi e due misure?

Il giudice non si può sostituire al giudizio afflittivo dell’amministrazione in favore del privato solo sulla base di prove unilaterali, ma si può sostituire all’amministrazione nella definizione della responsabilità ambientale a suo sfavore?

Sono domande alle quali, sulla base della scarna ricostruzione operata dalla sentenza, non è possibile dare una risposta.

Ma, da qualche tempo a questa parte, si ha la strana sensazione che nel giudizio amministrativo sulle questioni ambientali vi sia una (pericolosa) tendenza ad abbracciare una giustizia sostanzialistica e basata su elementi presuntivi che si discosta dai principi generali dell’accertamento preventivo della responsabilità del soggetto, più difficili da percorrere, dando rilievo ad aspetti volontaristici e di mero collegamento con la titolarità dell’area (spesso accompagnati da buone disponibilità economiche) che garantiscono un risultato immediato.

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NOTA A CDS 2022 (1)

Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Giustizia Amministrativa) cliccare sul pdf allegato.

Consiglio di Stato 6 giugno 2022 n. 4588

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