Attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti: i presupposti del concorso nel reato del terzo gestore dell’impianto che non ha conseguito alcun ingiusto profitto.

01 Apr 2022 | giurisprudenza, penale

di Andrea Ranghino

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 18 novembre 2021 (dep. 25 gennaio 2022), n. 2842 – Pres. Andreazza, Est. Reynaud– ric. Natale

Concorre nel reato di cui all’art. 452 quaterdecies c.p. il gestore dell’impianto che, pur operando nel rispetto delle autorizzazioni concessegli e senza conseguire alcun ingiusto profitto, riceve rifiuti nella consapevolezza di partecipare all’attività di traffico illecito di rifiuti organizzata da soggetti terzi.

Al legale rappresentante di una società avente in gestione un ecofrantoio veniva applica una serie di misure cautelari interdittive per aver concorso consapevolmente nell’attività di traffico illecito di rifiuti, organizzata da soggetti terzi e anch’essi indagati in ordine al delitto di cui all’art. 452 quaterdecies c.p.

In sede di ricorso per cassazione l’indagato contestava, anzitutto, la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, non essendovi – a suo dire – elementi indicativi di un suo concorso consapevole nel traffico illecito riconducibile ai coindagati. A essere valorizzati, in particolare, erano: la quantità irrilevante di rifiuti smaltiti illecitamente, l’essere stato autorizzato a ricevere quantità ben più consistenti di quella tipologia di rifiuti, l’assenza di rapporti personali da cui poter desumere la condivisione di un comune disegno criminoso e l’insussistenza di un ingiusto profitto per la società di cui era legale rappresentante. L’imprenditore lamentava, inoltre, l’insussistenza delle esigenze cautelari attesa l’attuale insussistenza di rapporti con i concorrenti nel reato.

Prima di vagliare i motivi di gravame dedotti dal ricorrente, poi ritenuti tutti inammissibili per genericità e manifesta infondatezza, il Giudice di legittimità metteva a fuoco gli elementi caratterizzanti la fattispecie in esame, ossia la reiterazione della condotta illecita, la gestione abusiva attuata mediante un’organizzazione professionale (di mezzi e di capitali) in grado di gestire continuativamente un ingente quantità di rifiuti e il dolo specifico dell’ingiusto profitto[1].

Nel richiamare concetti noti e già ampiamente trattati dalla giurisprudenza, la Corte riteneva di dover fare due precisazioni. La prima è che l’ingiusto profitto non discende dall’esercizio abusivo dell’attività di gestione ma dalla condotta reiterata e tesa a conseguire vantaggi non dovuti[2]. La seconda è che il rilascio di un’autorizzazione all’esercizio dell’attività di gestione dei rifiuti non è decisivo per escludere la sussistenza del reato di cui all’art. 452 quaterdecies c.p., dal momento che la gestione di rifiuti può presentare profili di rilevanza penale anche quando è del tutto difforme da quella autorizzata. Viceversa, prosegue la Corte nel proprio ragionamento, il delitto in questione non sussisterà se la mancanza di autorizzazione assume rilievo meramente formale e non è, dunque, collegata agli altri elementi costitutivi della fattispecie. In sostanza, il requisito dell’abusività della gestione non ha rilevanza ex se ma deve essere valutato, necessariamente, in stretta connessione con la reiterazione della condotta illecita e con il dolo specifico di ingiusto profitto[3].

Venendo al caso di specie il Giudice di legittimità, in forza del quadro di gravità indiziaria emerso all’esito delle indagini preliminari, riteneva, anzitutto, che le altre persone indagate per il reato di cui all’art. 452 quaterdecies c.p. – non il ricorrente – avessero organizzato un’attività di gestione di rifiuti illecita, in parte perché non autorizzata, in parte perché difforme dal contenuto delle autorizzazioni ottenute.

Riguardo, invece, all’apporto fornito dal ricorrente, secondo la Corte di Cassazione il concorso nel reato sarebbe consistito nella ricezione – tramite la propria società – dei rifiuti gestiti illecitamente. Detta condotta, essenzialmente di carattere passivo (cioè non attinente alla produzione dei rifiuti ma appunto alla loro presa in carico), veniva considerata penalmente rilevante per due ordini di ragioni. Da un lato, perché i rifiuti erano stati ricevuti senza previa pesatura o dando atto di quantità inferiori a quelle effettive. Dall’altro, perché presso la società del ricorrente vi erano computer in grado di emettere scontrini e documenti di peso identici a quelli ufficiali, nonostante non fossero collegati al sistema di pesatura. La consapevolezza di concorrere nell’altrui attività criminosa, inoltre, veniva desunta anche dalla frequenza e dalla sistematicità degli smaltimenti illeciti.

Da ultimo, con riferimento al requisito dell’ingiusto profitto, la Corte di Cassazione riteneva sufficiente la consapevolezza, in capo al ricorrente, dell’indebito vantaggio economico conseguito dai coindagati attraverso l’attività di smaltimento illecito. Circostanza accertata durante le indagini preliminari e mai contestata. Diversamente da quanto sostenuto nell’impugnazione, dunque, secondo la Corte era del tutto irrilevante se anche il ricorrente – recte la società di cui il medesimo era legale rappresentante – avesse percepito un ingiusto profitto, autonomo o condiviso con i coindagati[4].

A conclusione del proprio ragionamento il Giudice di legittimità ricordava il noto orientamento giurisprudenziale secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 452 quaterdecies c.p., il profitto può dirsi ingiusto quando discende da una condotta abusiva che, oltre a essere anticoncorrenziale, mette anche solo in pericolo l’integrità dell’ambiente impendendo – come accaduto nel caso di specie – il controllo sull’intera filiera dei rifiuti da parte dei soggetti preposti[5].

Riguardo alla sussistenza delle esigenze cautelari la Corte di Cassazione si limitava a prendere atto che l’attività di traffico illecito di rifiuti si era protratta anche successivamente ai controlli di polizia effettuati. Alla luce di tale circostanza e dell’abitualità del reato contestato si riteneva quindi irrilevante che la società del ricorrente svolgesse prevalentemente attività lecita.

Con la pronuncia in commento la Corte di Cassazione, richiamando appunto principi di diritto del tutto consolidati, ha ritenuto che il ricorrente, pur operando entro i limiti delle autorizzazioni ottenute e pur senza aver percepito alcun indebito vantaggio economico, potesse essere chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 452 quaterdecies c.p. perché, nel ricevere i rifiuti dai coindagati, aveva consapevolmente contribuito alla realizzazione del traffico dai medesimi organizzato.

In altri termini, la condotta del gestore dell’impianto, astrattamente del tutto lecita, essendo lo stesso stato regolarmente autorizzato a ricevere – e in quantità ben superiori – la tipologia di rifiuti conferiti dai coindagati, si colora di rilevanza penale nel momento in cui la ricezione del rifiuto diventa atto di consapevole rilevante partecipazione all’altrui traffico illecito. La consapevolezza del conseguimento, da parte dei terzi, di un ingiusto profitto, a quel punto, diventa quasi scontata.

Al di là della sua applicazione nel caso di specie – in cui la gravità indiziaria sembra sia stata ritenuta più in ragione delle palesi anomalie organizzative dell’impianto di smaltimento che di un effettivo coinvolgimento del ricorrente nel contestato traffico illecito di rifiuti –, in astratto, il principio di diritto sancito dal Giudice di legittimità appare condivisibile.

Come noto, del resto, l’istituto del concorso di persone nel reato rappresenta una clausola di estensione della punibilità che attrae nella sfera di rilevanza penale condotte che, diversamente, andrebbero esenti da pena in base alle singole fattispecie di reato[6].

Di conseguenza, in presenza di un contributo consapevole e rilevante[7] rispetto alla realizzazione della condotta tipica poco importa se lo stesso sia stato meramente passivo e confinato alla sola fase finale di un’attività illecita commessa da altri o se chi l’ha fornito non ha conseguito alcun profitto illecito.

Nel nostro caso, benché non siano stati ricondotti all’agire del ricorrente, vi erano, comunque, elementi plurimi e piuttosto eclatanti idonei dimostrare una concertazione o, quantomeno, un’intesa implicita tra chi conferiva illecitamente i rifiuti e chi li riceveva. Su tutti l’allestimento di una strumentazione per la pesatura dei rifiuti parallela a quella ufficiale.

Restano invece dei dubbi su come tale principio di diritto possa essere applicato in situazioni più difficili da interpretare, perché meno nette. L’impressione è che, per poterne affermare la responsabilità penale, al ricorrente dovranno pur sempre essere riconducibili anomalie nella gestione dei rifiuti, magari di per sé non penalmente rilevanti, ma comunque potenzialmente idonee a ledere il bene giuridico dell’integrità dell’ambiente. Quantomeno nella forma più lieve della messa in pericolo, come accaduto nel caso di specie.

In definitiva, la stessa condotta del concorrente, per quanto atipica, dovrà comunque presentare un connotato minimo di offensività.

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Cass. III, 2842_2022 (Ranghino)

[1] Sul punto si veda Corte Cass. pen., sez. III, 14 luglio 2016, n. 52838.

[2] A riguardo si richiama Corte Cass. pen., Sez. III, 30 maggio 2017, n. 35568.

[3] Su questo tema il riferimento è Corte Cass. pen., Sez. III, 15 ottobre 2013, n. 44449.

[4] Sull’irrilevanza di un profitto illecito direttamente riconducibile al concorrente nel reato è stata citata Corte Cass. pen., Sez. II, 17 ottobre 2000, n. 13501, secondo cui «il profitto ingiusto non deve necessariamente essere conseguito dal soggetto che pone in essere la condotta fraudolenta, atteso che la norma esige soltanto il nesso causale tra tale condotta e il profitto, restando indifferente che sia un terzo – consapevole – a trarre il beneficio illecito dal raggiro, e fatta salva comunque l’ipotesi di concorso nel reato, in forza del quale gli atti dei singoli sono considerati nel contempo loro propri e comuni anche agli altri compartecipi».

[5] Corte Cass. pen., Sez. II, 28 febbraio 2019, n. 16056.

[6] E. Dolcini, G. Marinucci (fondato da), Codice Penale Commentato, IV ed., p. 1772.

[7] Secondo un primo orientamento della giurisprudenza di legittimità è sufficiente un contributo idoneo alla realizzazione del fatto tipico, ossia che ne abbia almeno aumentato le possibilità di verificazione. A riguardo si rimanda, tra le altre, a Corte Cass. pen., sez. VI, 6 novembre 1991, in Cass. pen., 1993, 295. Secondo altro orientamento della Corte di Cassazione, invece, occorre accertare un vero e proprio contributo causale, almeno nei termini dell’agevolazione, alla realizzazione della condotta tipica. Si veda a riguardo, tra le tante, Corte Cass. pen., sez. V, 13 aprile 2004, n. 21082. La giurisprudenza più attuale ritiene validi entrambi gli orientamenti richiedendo che la condotta di partecipazione si manifesti attraverso un comportamento esteriore idoneo ad arrecare un contributo apprezzabile alla commissione del reato anche solo nella forma dell’agevolazione. A riguardo, tra le più recenti, Corte Cass. pen., sez. V, 21 giugno 2019, n. 43569.

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