Acque reflue industriali. provenienza e diversità dalle reflue domestiche: criteri di individuazione

01 Ott 2024 | giurisprudenza, penale

Corte di Cassazione, Sez. III – 10 aprile 2024 (dep. 16 maggio 2024), n. 19391

Integra il reato di cui all’art. 137, comma 1, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, l’immissione in pubblica fognatura, in difetto della prescritta autorizzazione, delle acque reflue provenienti da una casa di cura specialistica, delle quali risulti appurata, con accertamento insindacabile in cassazione, la non equivalenza qualitativa alle acque reflue domestiche, dovendosi le stesse ritenere assimilabili alle acque reflue industriali perché provenienti da un insediamento funzionale all’erogazione di servizi.

1. Il caso esaminato dalla Corte

Il tema sottoposto all’esame della Corte ha ad oggetto la distinzione tra acque reflue industriali e acque reflue domestiche, rilevante poiché, ai sensi dell’art. 137 D.Lgs. n. 152/2006, soltanto lo scarico delle reflue industriali senza autorizzazione è sanzionato penalmente[1].

Nel caso specifico, gli imputati, legali rappresentanti di una clinica specialistica sita a Formia, sono stati condannati dal Tribunale di Cassino in ordine alla citata contravvenzione per avere effettuato nella rete fognaria adibita ai soli scarichi domestici uno scarico di acque reflue industriali in assenza della prescritta autorizzazione.

Tale decisione è stata censurata dagli imputati che, oltre alla mancata attivazione della procedura estintiva prevista dagli artt. 318 bis ss. D.Lgs. n. 152/2006 da cui a loro parere sarebbe discesa l’improcedibilità dell’azione penale (tematica che non sarà affrontata nella presente nota[2]), hanno lamentato, da un lato, la genericità e apoditticità della motivazione in merito alla natura degli scarichi, erroneamente qualificati come industriali, dall’altro la violazione dell’art. 107, comma 7 D.Lgs. n. 152/2006.

In particolare, a dire dei ricorrenti, il Tribunale, in violazione del disposto di cui all’art. 74, comma 1, lett. g) D.Lgs. n. 152/2006, avrebbe sbagliato nel qualificare i reflui come industriali invece che domestici atteso che le acque provenienti dalla clinica e derivanti dai bagni della struttura erano certamente riferibili al metabolismo umano; inoltre, non avrebbe applicato la previsione di cui all’art. 101, comma 7, lett. e) D.Lgs. n. 152/2006 che assimila alle acque reflue domestiche quelle aventi caratteristiche qualitative ad esse equivalenti e indicate dalla normativa regionale, vale a dire, nella specie, il Piano di Tutela delle Acque Regionali emanato con d.c.r. 27 settembre 2007 n. 42.

2. Inquadramento normativo

Per comprendere appieno le censure mosse e le ragioni del rigetto del ricorso da parte della Corte, è opportuno ripercorrere sin dalla loro introduzione le norme del Codice Ambiente ed extra codicistiche dedicate alle acque reflue e agli scarichi.

Nella sua originaria formulazione, l’art. 74, comma 1 lett. g) D.Lgs. n. 152/2006 definiva le “acque reflue domestiche” come quelle «provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche», mentre la successiva lettera h) faceva rientrare nella nozione di “acque reflue industriali” «qualsiasi tipo di acque reflue provenienti da edifici od installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, differenti qualitativamente dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connessi con le attività esercitate nello stabilimento».

Tale nozione di reflui industriali, volutamente modificata rispetto alla previgente definizione offerta dall’art. 2 D.Lgs n. 152/1999[3] al fine, nelle intenzioni del legislatore, di meglio precisare i criteri distintivi delle acque domestiche rispetto a quelle industriali e ad escludere da tale ultima categoria le acque meteoriche di dilavamento inquinate, già nel 2008 è stata sostituita con l’attuale formulazione che ha recuperato, di fatto, la versione proposta nel 1999, eliminando, tra le varie modifiche, il richiamo alla diversità qualitativa dei reflui.

Il legislatore del 2008 ha ritenuto infatti, in linea con la dottrina maggioritaria, che l’introduzione del criterio qualitativo quale parametro di distinzione tra acque reflue industriali ed acque domestiche rischiasse di portare ad una definizione labile ed equivoca, idonea a compromettere il percorso giurisprudenziale che, nel corso degli anni, aveva portato a distinguere i reflui domestici e industriali sulla base della loro provenienza.

L’odierno art. 74, comma 1 lett. h) definisce, infatti, le “acque reflue industriali” come quelle «scaricate da edifici o impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzioni di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento».

In base all’attuale formulazione, quindi, ciò che – secondo la giurisprudenza maggioritaria[4]– distingue le due tipologie di reflui (domestici o industriali) non è la qualità del refluo, vale a dire il grado o la natura dell’inquinamento, ma la tipologia dell’attività (produttiva o meno) da cui provengono. Pertanto, nella nozione di acque reflue industriali rientrano tutti i reflui derivanti da attività che non attengono strettamente al prevalente metabolismo umano e alle attività domestiche, cioè non collegati alla presenza umana, alla coabitazione ed alla convivenza.

Il legislatore ha poi previsto all’art. 107, commi 7 e 7-bis D.Lgs. n. 152/2006 che alcune tipologie di acque che rientrerebbero (in quanto provenienti da attività produttive) nella nozione di reflui industriali siano assimilate, in presenza di determinate caratteristiche, ai reflui domestici. Si tratta, in particolare, delle acque provenienti da imprese dedite esclusivamente a coltivazione, silvicoltura e allevamento di bestiame, nonché – per quanto qui di interesse, trattandosi di parametro la cui violazione è stata denunciata dal ricorrente – delle «acque aventi caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche e indicate dalla normativa regionale»[5].

Infine, il d.P.R. 19 ottobre 2011 n. 227 (“Regolamento per la semplificazione di adempimenti amministrativi in materia ambientale gravanti sulle imprese, a norma dell’art. 49, comma 4-quater, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122”), applicabile alle piccole e medie imprese, stabilisce all’art. 2 e in un’ottica di semplificazione degli adempimenti amministrativi su di esse gravanti  una serie di ipotesi in cui le acque, per provenienza o caratteristiche qualitative, sono assimilabili a quelle domestiche[6].

Tuttavia, al fine di evitare che le esigenze di semplificazione amministrativa dettate a favore delle piccole e medie imprese determinino una disparita di trattamento tra operatori economici a discapito, tra l’altro, degli interessi tutelati dal D.Lgs. n. 152/2006, rimane salva l’applicazione sia delle previsioni dell’Allegato 5 alla parte terza del D.Lgs. n. 152/2006 sia quanto stabilito dall’art. 101, anche con riferimento, quindi, a eventuali valori-limite diversi previsti dalla normativa regionale. A tale ultimo proposito, in particolare, l’ultimo comma dell’art. 2 D.p.r. 227/2011 precisa espressamente che i criteri di assimilazione ivi indicati si applicano soltanto in assenza di una normativa regionale sull’assimilabilità delle acque a quelle domestiche, restando quindi ferma l’applicazione dell’art. 101, comma 7, lett. e) D.Lgs. n. 152/2006. 

3. La decisione della Corte

A parere della Corte non vi è dubbio che le acque provenienti dalla clinica specialistica debbano essere qualificate come reflui industriali con conseguente configurabilità del reato di cui all’art. 137, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006.

Dopo avere brevemente dato atto dell’evoluzione normativa sul punto, infatti, la Corte evidenzia come l’art. 74, comma 1, lett. h), nella sua attuale formulazione, consideri la provenienza quale «criterio cardine per individuare, in prima battuta, il discrimine, all’interno delle acque reflue, tra quelle “domestiche” e quelle “industriali”». Conseguentemente, dovendosi i servizi erogati nella clinica specialistica intendere quali esercizio di un’attività produttiva, i relativi scarichi – diversamente da quanto ipotizzato dal ricorrente – non possono considerarsi reflui domestici.

A supporto di tale conclusione, i Giudici richiamano alcuni precedenti che hanno riconosciuto la qualifica di reflui industriali alle acque scaricate da un centro di emodialisi e da presidi ospedalieri sul presupposto della loro provenienza da un insediamento produttivo e non residenziale[7].

A tal proposito, prosegue la Corte, la nozione di insediamento produttivo«non può essere collegata solo ad attività di produzione di beni in senso stretto, ma deve essere affermata in relazione ad ogni attività economica, pur se rivolta a prestazione di servizi, quando lo scarico non sia assimilabile a quello proveniente da un normale insediamento abitativo». Pertanto, le «acque reflue in questione non possono considerarsi domestiche in quanto esse non sono derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche».

Secondo i Giudici di legittimità, inoltre, nella sentenza impugnata non sarebbe ravvisabile nemmeno la denunciata violazione dell’art. 101, comma 7, lett. e) D.Lgs. n. 152/2006.

Ferma restando la propria incompetenza a rivalutare gli esiti degli esami effettuati da Arpa e dal consulente tecnico di parte, la Corte esclude, alla luce delle circostanze emerse dalla sentenza impugnata e, nello specifico, del fatto che i liquidi provenissero da bagni dei pazienti assuntori di diverse tipologie di farmaci, che i reflui possano essere qualitativamente assimilabili ai domestici, secondo i parametri indicati nel Piano di Tutela delle Acque Regionali emanato con d.c.r. 27 settembre 2007 n. 42.

Infine, pur non costituendo rilievo sollevato dal ricorrente, i Giudici escludono che possa trovare applicazione la disciplina prevista dal d.p.r. 19 ottobre 2011 n. 227, non risultando accertati, nel caso di specie, i requisiti da essa previsti ai fini dell’assimilabilità delle acque a quelle domestiche.

4. Alcune osservazioni

La Corte, in linea con il dettato normativo e con l’interpretazione giurisprudenziale formatasi sul punto, invoca quello della provenienza (abitativa o produttiva) delle acque quale criterio per qualificare i reflui, rispettivamente, come domestici o industriali.

Tuttavia, all’atto di distinguere l’insediamento abitativo da quello produttivo (da cui discende, per l’appunto, la natura dei reflui), il parametro adottato dai giudici è in realtà sostanziale.

Ciò che rileva, infatti, è l’assimilabilità o meno delle acque a quelle domestiche (da intendersi quali quelle attinenti al metabolismo umano e collegate alla presenza umana, alla coabitazione e alla convivenza di persone) il cui apprezzamento però, nella maggior parte dei casi, non può che avvenire attraverso la loro verifica qualitativa. Criterio, a ben vedere, richiamato anche dallo stesso art. 101, comma 7 D.Lgs. n. 152/2006 che, alla lettera e), assimila alle reflue domestiche quelle aventi caratteristiche qualitative equivalenti e indicate dalla normativa regionale.

Pertanto, come chiarito in alcune pronunce, sono da considerarsi scarichi industriali, «oltre ai reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività artigianali e di prestazioni di servizi, quando le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche»[8].

Se così non fosse, del resto, la circostanza – evidenziata dal ricorrente – che gli scarichi provenissero dai bagni della clinica (e, quindi, per definizione dal metabolismo umano) avrebbe dovuto essere sufficiente a qualificarli come reflui domestici. 

In definitiva, la giurisprudenza considera il criterio della provenienza quale rilevante ai fini della distinzione tra le tipologie di reflui, salvo poi ricorrere a un parametro qualitativo (nella specie, l’estraneità delle acque al metabolismo umano e alle attività domestiche) per individuare effettivamente la natura dell’attività (produttiva o familiare) da cui le stesse provengono.

È ciò che è avvenuto nel caso di specie, in cui la Corte ha desunto la natura industriale degli scarichi sulla base della provenienza da un’attività di prestazione di servizi, a sua volta individuata alla luce della non assimilabilità (e, quindi, della diversità qualitativa) delle acque provenienti dai bagni della clinica.

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NOTE:

[1] Lo scarico di acque reflue domestiche in assenza di autorizzazione è punito dall’art. 133, comma 2 D.Lgs. n. 152/2006 con una sanzione amministrativa.

[2] Volendo, si rinvia a C. Tanzarella, La procedura di estinzione delle contravvenzioni in materia ambientale: quali conseguenze dal suo mancato espletamento?, in questa Rivista, n. 33/2022.

[3] L’art. 2 D.lgs. 152/1999 definiva le “acque reflue industriali” come «qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento».

[4] Cass. pen., Sez. III, 5 febbraio 2009, n. 12865; Cass. pen., Sez. III, 10 maggio 2016, n. 35850; nonché, negli stessi termini, con riferimento alla formulazione del D.Lgs. n. 152/1999, Cass. pen., Sez. III, 1° luglio 2004, n. 35870, secondo cui la distinzione fra acque reflue domestiche ed acque reflue industriali non è determinata dal grado o dalla natura dell’inquinamento delle acque, ma esclusivamente dalla natura dell’attività dalla quale provengono, così che qualunque tipo di acqua derivante dallo svolgimento di un’attività produttiva rientra tra le acque reflue industriali, ed il suo scarico, in difetto di autorizzazione, configura il reato di cui all’art. 59 D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152.

[5] Si riporta il testo integrale dell’art. 107 commi 7 e 7-bis D.Lgs. n. 152/2006: «salvo quanto previsto dall’articolo 112, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, sono assimilate alle acque reflue domestiche le acque reflue: a) provenienti da imprese dedite esclusivamente alla coltivazione del terreno e/o alla silvicoltura; b) provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame [che, per quanto riguarda gli effluenti di allevamento, praticano l’utilizzazione agronomica in conformità alla disciplina regionale stabilita sulla base dei criteri e delle norme tecniche generali di cui all’articolo 112, comma 2, e che dispongono di almeno un ettaro di terreno agricolo per ognuna delle quantità indicate nella Tabella 6 dell’Allegato 5 alla parte terza del presente decreto]; c) provenienti da imprese dedite alle attività di cui alle lettere a) e b) che esercitano anche attività di trasformazione o di valorizzazione della produzione agricola, inserita con carattere di normalità e complementarietà funzionale nel ciclo produttivo aziendale e con materia prima lavorata proveniente in misura prevalente dall’attività di coltivazione dei terreni di cui si abbia a qualunque titolo la disponibilità; d) provenienti da impianti di acqua coltura e di piscicoltura che diano luogo a scarico e che si caratterizzino per una densità di allevamento pari o inferiore a 1 Kg per metro quadrato di specchio d’acqua o in cui venga utilizzata una portata d’acqua pari o inferiore a 50 litri al minuto secondo; e) aventi caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche e indicate dalla normativa regionale; f) provenienti da attività termali, fatte salve le discipline regionali di settore.

7-bis. Sono altresì assimilate alle acque reflue domestiche, ai fini dello scarico in pubblica fognatura, le acque reflue di vegetazione dei frantoi oleari. Al fine di assicurare la tutela del corpo idrico ricettore e il rispetto della disciplina degli scarichi delle acque reflue urbane, lo scarico di acque di vegetazione in pubblica fognatura è ammesso, ove l’ente di governo dell’ambito e il gestore d’ambito non ravvisino criticità nel sistema di depurazione, per i frantoi che trattano olive provenienti esclusivamente dal territorio regionale e da aziende agricole i cui terreni insistono in aree scoscese o terrazzate ove i metodi di smaltimento tramite fertilizzazione e irrigazione non siano agevolmente praticabili, previo idoneo trattamento che garantisca il rispetto delle norme tecniche, delle prescrizioni regolamentari e dei valori limite adottati dal gestore del servizio idrico integrato in base alle caratteristiche e all’effettiva capacità di trattamento dell’impianto di depurazione».

[6] L’art. 2 comma 1 D.p.r. 19 ottobre 2011 rubricato “Criteri di assimilazione delle acque reflue domestiche” così recita: «Fermo restando quanto previsto dall’articolo 101 e dall’Allegato 5 alla Parte terza del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, sono assimilate alle acque reflue domestiche: a) le acque che prima di ogni trattamento depurativo presentano le caratteristiche qualitative e quantitative di cui alla tabella 1 dell’Allegato A; b) le acque reflue provenienti da insediamenti in cui si svolgono attività di produzione di beni e prestazione di servizi i cui scarichi terminali provengono esclusivamente da servizi igienici, cucine e mense; c) le acque reflue provenienti dalle categorie di attività elencate nella tabella 2 dell’Allegato A, con le limitazioni indicate nella stessa tabella».

[7] Il richiamo è a Cass. pen., Sez. III, 10 maggio 2016, n. 35850 e Cass. pen., Sez. III, 17 novembre 1999, n. 3433.

[8] In tal senso, Cass. pen., Sez. III, 2 ottobre 2014, n. 3199.

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