Rifiuti o prodotti, non c’è differenza per la prevenzione degli incidenti rilevanti

01 Dic 2022 | contributi, in evidenza 4, articoli

di Luciano Butti

La linea di confine tra rifiuti e “non rifiuti” (materie prime, sottoprodotti, End of Waste) è sempre stata un tema critico di discussione, quanto meno a partire da quando in sede europea è stata coniata la famosa definizione di rifiuti, da intendersi come i materiali di cui il detentore “si disfa, ovvero ha l’intenzione o l’obbligo di disfarsi”.

Sul piano dell’interpretazione, la linea di tendenza per lo più prevalsa è stata quella di allargare al massimo l’ambito applicativo della nozione di rifiuto, nella convinzione – esplicita od implicita – che ciò di per sé assicuri una più efficace protezione ambientale.

Si è così inizialmente affermato che anche scarti con un valore residuo possono costituire rifiuti.

La nozione di sottoprodotto è stata poi ristretta ad ambiti molto specifici. Nell’interpretazione delle condizioni che ne legittimano la presenza, si è per lungo tempo adottata una nozione molto restrittiva di “normale pratica industriale”, che costituisce – come è noto – il solo tipo di trattamento compatibile con la natura di sottoprodotto di un residuo di produzione.

Per quanto riguarda l’End of Waste, nella maggior parte dei casi la cessazione della qualifica di rifiuto viene riconosciuta limitatamente alle situazioni coperte dai decreti attuativi che sono stati emanati con riferimento a singoli cicli produttivi.

Più in generale, si afferma ormai ripetitivamente, nella giurisprudenza, che, poiché la natura di rifiuto è la regola e le figure alternative sono eccezioni, spetta a chi invoca l’eccezione provare i presupposti per la sua sussistenza in concreto.

La conseguenza di tutto ciò è una forte dilatazione della definizione di rifiuto nella pratica delle attività industriali, promossa nella convinzione che ciò sia di per sé protettivo per l’ambiente rispetto alla gestione dei medesimi materiali come “non rifiuti”.

E’ per lo meno discutibile che questa sia una convinzione fondata in ogni situazione concreta.

In alcuni casi, infatti, la necessità di attribuire la qualifica di rifiuto a determinati materiali di scarto rende molto meno agevole, e molto più costoso, anche dal punto di vista documentale, il recupero effettivo di questi materiali a nuovi cicli di produzione o di consumo.

In altri casi è la stessa giurisprudenza a chiarire che la qualifica di rifiuto, ovvero di prodotto, di determinati materiali, è del tutto ininfluente rispetto all’applicazione di normative di protezione, come quella sugli impianti ad alto rischio di incidenti rilevanti. Mi riferisco alla recente sentenza del Consiglio di Stato 20 settembre 2022, n. 8113, che ha così stabilito:

“La pericolosità di una sostanza ai fini dell’applicazione del Dlgs 105/2015 (Seveso III) sul rischio di incidenti rilevanti connessi a sostanze pericolose, prescinde da fatto che tale sostanza sia o meno un “rifiuto”.

Nella fattispecie si trattava della granella di zinco ottenuta mediante attività di trattamento/recupero consistente in frantumazione/vagliatura, con mulino rotativo, delle ceneri schiumate. Poiché l’articolo 3, comma 1, lettera l), del Dlgs 105/2015, è qualificabile come “sostanza pericolosa” ogni sostanza – indicata nell’allegato 1 del medesimo Dlgs 105/2015 – presente “sotto forma di materia prima, prodotto, sottoprodotto, residuo o prodotto intermedio”. Irrilevante dunque che la sostanza citata (granella di zinco) sia qualificabile come rifiuto o come “non rifiuto” a seguito di recupero End of waste.

In conclusione, pare auspicabile che la distinzione fra rifiuti e materiali che non lo sono (o non lo sono più) venga in futuro sottratta a criteri meramente  formali o burocratici, perseguendo invece una efficace tutela ambientale con modalità sostenibili per il mondo produttivo.

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RIFIUTI O PRODOTTI

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