di Stefano Nespor
- Il libro che mi ha offerto l’occasione del ricordo di un giurista che ha dedicato molti e preveggenti scritti sul tema della responsabilità civile è di Maria Cristina Zarro ed ha come oggetto l’evoluzione della responsabilità civile per i danni provocati dal cambiamento climatico.[i]
È un argomento di grande attualità, anche se finora scarsamente trattato a livello teorico, non solo in Italia: si moltiplicano infatti in diecine di paesi, soprattutto nell’ultimo decennio, le cosiddette climate litigation, in parte decise e in parte pendenti, certamente destinate ad aumentare nel prossimo futuro con l’estendersi dei danni provocati dal mutamento del clima
Come è sempre accaduto in passato nel settore della responsabilità extracontrattuale, le risposte offerte nella pratica e dai giudici alla pressione della realtà e alle richieste che sorgono dalla società anticipano le riflessioni teoriche e la sistemazione normativa: basti pensare che l’argomento della responsabilità per i danni provocati dal clima si è affacciato nelle negoziazioni internazionali più di trent’anni orsono, senza suscitare alcuna reazione.
2. Infatti già nel 1991, nel corso delle trattative che hanno preceduto l’approvazione della Convenzione quadro sul contenimento del cambiamento climatico, AOSIS, un’associazione appena costituita che riuniva gli Stati formati da piccole isole più esposti alle conseguenze del cambiamento climatico, aveva proposto l’istituzione di un fondo assicurativo internazionale finanziato dagli Stati sviluppati per risarcire le vittime dell’innalzamento del livello dell’oceano. La proposta non venne neppure esaminata per l’opposizione di tutti i paesi industrializzati. Già allora era facile prevedere che la questione della responsabilità per i danni derivanti dal cambiamento climatico si sarebbe sviluppata negli anni seguenti, via via che l’impatto del cambiamento climatico avrebbe prodotto danni consistenti e irreversibili negli Stati più vulnerabili.
Sono stati però necessari vent’anni perché, nel 2013, nel corso della COP-19 svoltasi a Varsavia, il tema dei danni da cambiamento climatico divenisse oggetto di una specifica disciplina: il Warsaw International Mechanism for Loss and Damages (WIM)[ii].
Infine, nel 2015 con l’Accordo di Parigi il risarcimento del danno è riconosciuto come una fondamentale componente della politica climatica, insieme alla mitigazione e all’adattamento.
Le disposizioni risentono tuttavia del compromesso resosi necessario a seguito dell’opposizione dei paesi sviluppati e in particolare degli Stati Uniti, i quali temevano che il riconoscimento avrebbe posto le premesse per proporre innumerevoli richieste di risarcimento del danno da parte degli Stati più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico nei confronti di coloro che storicamente ne erano considerati responsabili.
Il risultato è una disposizione ambigua, accettata a malincuore da tutte le parti. L’art. 8.1 stabilisce che “Le Parti riconoscono l’importanza di evitare e ridurre al minimo le perdite e i danni collegati agli effetti negativi dei cambiamenti climatici, compresi eventi meteorologici estremi e eventi lenti a manifestarsi e di porvi rimedio e riconoscono altresì l’importanza del ruolo dello sviluppo sostenibile nella riduzione del rischio di perdite e danni”. La disposizione è seguita da una ancor più vaga disposizione che fa riferimento alla cooperazione tra Stati (art. 8.3): cooperazione quindi, ma non responsabilità. Per maggior sicurezza i paesi sviluppati hanno preteso l’inserimento di una precisazione nella Decisione (il testo, non vincolante, che forma insieme all’Accordo il Paris Outcome): il paragrafo 51 stabilisce che l’art. 8 non costituisce “una base per richieste di responsabilità o risarcimento”.
Non va tuttavia trascurato che c’è una disposizione simmetrica e opposta, inserita negli atti allegati alla Convenzione quadro del 1992 su iniziativa di quattro stati aderenti a AOSIS (Figi, Kiribati, Nauru e Tuvalu). La disposizione precisa che la sottoscrizione della Convenzione non comporta in alcun modo la rinuncia a diritti riconosciuti dal diritto internazionale concernenti la responsabilità degli Stati. A ciò va aggiunto che la disposizione dell’art. 51 della Decisione non pare idonea a superare specifici principi del diritto internazionale, quali l’obbligo degli Stati di non provocare danni e la responsabilità dell’inquinatore.
- Torniamo al tema della responsabilità civile affrontato nel libro: un istituto le cui “problematiche da sempre segnano le evoluzioni sociali e culturali degli ordinamenti giuridici”[iii].
Infatti proprio il diffondersi della constatazione, negli anni Sessanta del secolo scorso, dello scollamento della responsabilità extracontrattuale, fissata nei codici e nelle stratificate costruzioni giurisprudenziali[iv], dalle nuove esigenze della società e dei rapporti economici, ha posto le premesse della normativa nazionale e comunitaria della responsabilità per danno ambientale.
Sono questioni approfonditamente esaminate negli ultimi anni da giuristi italiani e stranieri e riprese da Maria Cristina Zarro. Mi limito a ricordare, per la rilevanza che assumono nel tema della responsabilità ambientale, che la tradizionale consolidata costruzione della responsabilità per colpa, “imbalsamata nei codici” (per riprendere l’espressione di Paolo Grossi)[v] è stata dapprima scossa dall’affermarsi dell’esigenza di estendere la responsabilità oggettiva all’esercizio di attività economiche e imprenditoriale, lecite ma rischiose per la collettività[vi], poi è stata contestata nelle sue premesse dagli scritti con i quali Stefano Rodotà ha posto in evidenza che l’attribuzione dei costi sociali alla vittima o all’autore del comportamento dannoso è sempre l’esito di scelte politiche[vii], infine è stata travolta dalla teoria dell’attribuzione della responsabilità con riferimento alla produzione di rischio[viii] (fatta propria dall’Unione europea che, con la direttiva 2004\35, ha previsto la responsabilità oggettiva per le attività che comportano un rischio per la salute e l’ambiente).
- L’adeguamento dell’istituto della responsabilità alla nuova realtà sociale è stato un processo lungo e difficile che ha accompagnato e preceduto il suo inserimento nel diritto dell’ambiente, il più importante tra i nuovi diritti sorti negli anni Settanta.
Non deve sorprendere.
L’alterazione dei confini degli istituti giuridici esistenti e l’introduzione di nuovi diritti è sempre stato ostacolato dal potere dissimulato sotto la maschera di legislatore, con l’obiettivo di rendere le norme impermeabili al decorso del tempo e al mutare della realtà e dei rapporti sociali e economici: finché possibile, i cambiamenti emergenti sono assorbiti e macinati da tribunali, mentre giuristi ed esperti elaborano adattamenti e interpretazioni delle norme esistenti in modo da inglobare e sterilizzare nuove richieste e nuove esigenze.
Tutto cambia con i due eventi che avviano lo sgretolamento di quel “castello cementato di legalità entro il quale si è rinchiuso il complesso delle fonti in una sistemazione rigidamente gerarchica”[ix], la cui pericolosità è stata drammaticamente dimostrata dalle aberrazioni che hanno condotto al secondo conflitto mondiale.
Il primo è l’adozione, in Italia come in molti paesi usciti dalla seconda guerra mondiale, di Costituzioni contenenti norme di rango superiore alle regole codificate, poste come baluardo a tutela dell’ordinamento democratico degli stati e dei diritti fondamentali dei cittadini.
Insieme alle norme costituzionali si afferma anche il riferimento a duttili, e quindi aperti all’interpretazione, “principi generali” dell’ordinamento, anch’essi sovraordinati alle norme giuridiche posta dal legislatore ordinario. Infatti, osserva Dworkin, mentre le norme indicano una soluzione precisa per determinati fatti o comportamenti, i principi offrono regole ragionevoli, condivisibili e tendenzialmente stabili che costituiscono un orientamento o una finalità da perseguire, alle quali il diritto positivo deve conformarsi. Di conseguenza, questi ultimi lasciano ampio spazio alla discrezionalità degli interpreti: possono essere adattati con riferimento alle specifiche fattispecie[x].
Il secondo è l’inserimento dello Stato all’interno di ordinamenti giuridici internazionali e soprattutto dell’Unione Europea.
Con il passare degli anni, la combinazione di questi eventi accentua la friabilità della legge ordinaria come primaria fonte del diritto e attenua l’assolutezza del principio di sovranità statale.
Si dissolve così il mito della stabilità della legge: la norma giuridica diviene sempre più oggetto di un continuo regolamento di confini tra politica e diritto e, nello stesso tempo, uno strumento flessibile e adattabile alle pressioni provenienti dalla società[xi].
In questa situazione si innestano a partire dagli anni Settanta del secolo scorso le stupefacenti innovazioni scientifiche e tecnologiche nel campo della medicina, della biologia e della genetica e quelle, altrettanto straordinarie, nel campo dell’informazione, dell’informatica e delle comunicazioni.
Sono innovazioni che alterano in profondità i settori della famiglia, della riproduzione, delle scelte di vita dei singoli individui, delle donne in particolare e poi il settore della privacy, dell’accesso alle informazioni, del consumo di beni e servizi e incidono così sull’assetto dell’organizzazione sociale, sui rapporti economici, sui costumi e sui modi di vivere. Sono innovazioni che creano nuovi bisogni, nuove aspirazioni, nuove possibilità di scelta che abbracciano tutta la vita e le relazioni private e pubbliche dell’individuo.
Così, a partire dagli anni Settanta prende forma quella che è stata chiamata “l’età dei diritti”[xii]: è, usando le parole ancora di Stefano Rodotà che queste innovazioni ha studiato, approfondendone le caratteristiche e le conseguenze, “la più intensa esplosione di riconoscimento di diritti che mai sia stata conosciuta”[xiii].
- In questo fenomeno è incluso anche il diritto dell’ambiente, il “nuovo diritto” più significativo ed emblematico. Come altre discipline giuridiche formatesi a partire dagli anni settanta del secolo scorso – si pensi al diritto dell’informazione, dell’informatica, delle telecomunicazioni, o al diritto delle biotecnologie, al diritto della riproduzione, o ancora al diritto dei consumatori – anche il diritto dell’ambiente si forma utilizzando e combinando norme e strumenti giuridici che appartengono ad altre preesistenti discipline giuridiche: amministrativo, al diritto comunitario, al diritto internazionale, al diritto privato, al diritto penale.
Ma nel diritto dell’ambiente c’è qualcosa di più: c’è la costruzione di un sistema che, agganciandosi da un lato allo sviluppo scientifico delle discipline che studiano l’ambiente nei suoi vari aspetti, dall’altro all’economia e alle scienze sociali, offra una comprensione globale dei fenomeni giuridici studiati e, più in generale, della realtà.
È nell’ambito di questa costruzione che si colloca l’istituto della responsabilità che recepisce le innovazioni e le proposte di modifica e di adeguamento dell’istituto elaborate nei decenni precedenti e, in particolare, lo spostamento dell’attenzione dalla colpa, della quale è pur sempre mantenuta la rilevanza, sia pure in dimensioni ridotte, ai costi sociali del danno e alle modalità della sua riparazione.
- Il libro di Maria Cristina Zarro ricostruisce con chiarezza, nel primo capitolo, le difficoltà che hanno caratterizzato l’introduzione della responsabilità per il danno ambientale nel nostro ordinamento e le tormentate revisioni resesi necessarie per adeguare alle disposizioni comunitarie l’istituto, espressione del più generale principio chi inquina paga fissato nel 1992 nella Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992[xiv]. Un principio all’apparenza assai semplice e intuitivo che ha però posto numerosi problemi nel momento in cui si doveva recepirlo e applicarlo nell’ambito degli ordinamenti statali. Mi limito a indicare i tre problemi principali. Diverse sono le possibili definizioni di inquinamento e quindi di danno: si ha inquinamento solo quando si supera il limite fissato dall’Autorità oppure ogni volta che si degradi l’ambiente? Tuttora dibattuto poi è il problema dell’individuazione del soggetto che, in quanto inquinatore, deve pagare i costi. Spesso accade infatti che ci sia una pluralità di inquinatori. In questo caso, tutti sono responsabili in proporzione al loro contributo oppure solo chi abbia contribuito all’inquinamento in misura maggiore o ancora chi abbia maggiori possibilità economiche di assorbire i costi? Infine, controversa è la quantificazione dei costi di cui il responsabile deve rispondere: di devono comprendere solo i costi direttamente provocati dall’attività o anche i costi indiretti oppure anche quelli probabili ma non certi? E poi, qual è il valore del danno arrecato a risorse naturali, il cui valore non è economicamente quantificabile, quale l’estinzione di una specie?[xv]
7. Da questa magmatica e per molti versi irrisolta sistemazione della responsabilità per danni all’ambiente il libro passa ad affrontare il tema centrale, le climate change litigation, accuratamente passate in rassegna, e la responsabilità per i danni provocati dal cambiamento climatico. Qui emergono due aspetti di grande rilevanza: la capacità non solo giuridica, ma politica del diritto privato di supplire alle mancanze del diritto pubblico e la dimensione solidaristica come fondamento della responsabilità civile.
Quanto al primo aspetto, è ancora dalle considerazioni di Stefano Rodotà che dobbiamo prendere le mosse (è sorprendente quanto le sue riflessioni siano oggi ancora attuali a distanza di mezzo secolo!). Osservava nel 1971 che “diviene ogni giorno più arduo ritrovare nella realtà di oggi le ragioni intorno alle quali venne edificandosi la distinzione tra diritto pubblico e diritto privato”. [xvi]
Infatti la separazione dell’area riservata alle scelte dell’individuo nella quale era preclusa l’ingerenza dei poteri pubblici e l’area nella quale dominano gli strumenti autoritativi, se rifletteva l’ideologia del liberismo economico dell’Ottocento, peraltro mai compiutamente realizzatasi, è stata abbattuta dall’irrompere dei fatti e della realtà sulle costruzioni teoriche e dall’affermarsi, in Italia, dei principi posti dalla Costituzione.
Oggi le interconnessioni tra diritto e privato pubblico sono fitte e inestricabili, segnate dall’estendersi del pubblico nell’area riservata al privato e, per converso, dall’espandersi, con la deregulation avviata negli anni Novanta, dell’area riservata al privato in settori prima affidati alla regolamentazione pubblica: “un grande trasloco”, quest’ultimo, “a seguito del quale il potere non risiede più necessariamente solo in palazzi governativi e sedi statali, con note etichette ufficiali, ma ha trovato nuove residenze sia in sedi internazionali, sia specialmente in sedi private, smettendo di indossare i consueti abiti istituzionali sotto l’egida del diritto pubblico”[xvii]. Questo è il contesto nel quale devono essere inquadrate le climate litigation e l’imporsi della tutela dei diritti umani a livello globale.
Quanto al secondo aspetto, correttamente Maria Cristina Zarro osserva che la responsabilità per il danno climatico costituisce “una declinazione della necessità di attuare il principio di solidarietà nel senso più avanzato del diritto costituzionale vigente” dovendo connotare “non soltanto il contenuto del diritto del danneggiato al risarcimento del danno subito, ma anche il dovere di comportamento dell’agente”[xviii]. In questa prospettiva, il rispetto della regola posta dall’art.2043 c.c. significa che ciascun membro della collettività, quale che sia la sua attività, è tenuto a non ledere gli interessi meritevoli di tutela[xix].
- Ma il principio di solidarietà proietta la responsabilità civile sullo scenario globale e intergenerazionale. Per questo il saggio è di grande attualità.
Infatti, proprio nell’estate del 2022, mentre il libro era in corso di pubblicazione, è emerso nelle dichiarazioni ufficiali di importanti personaggi politici a seguito delle catastrofiche inondazioni verificatesi in molti paesi.
La più grave si è verificata in Pakistan: nel settembre del 2022 un terzo della superficie del paese, abitata da 33 milioni di persone, è stata allagata da piogge incessanti. Oltre 1500 sono state le vittime, più di 1 milione le case distrutte o rese inabitabili, milioni di ettari di campi coltivati o destinati all’allevamento sono stati sommersi dall’acqua[xx].
Ha affermato Sherry Rahman, la Ministra dell’ambiente e del clima del Pakistan, commentando l’alluvione che ha colpito il suo paese, che i costi per gli interventi d’urgenza sono stati elevatissimi e saranno incalcolabili quelli per la ricostruzione. Ha poi aggiunto: “il cambiamento climatico è un disastro umanitario e una crisi esistenziale mondiale di cui il Pakistan è una delle vittime pur avendo contribuito per meno dell’1% alle emissioni di gas serra, mentre tutti gli impegni assunti dai paesi ricchi non sono stati rispettati. Perché il Pakistan dovrebbe pagare per eventi catastrofici che non ha in alcun modo provocato?”[xxi].
Tra i paesi non sviluppati e, in particolare, tra i paesi più poveri (attualmente 48 secondo dati delle Nazioni Unite) sono in numero crescente i Governi che non si limitano a collegare gli eventi estremi al cambiamento climatico, ma introducono con sempre maggior forza anche i due temi della giustizia climatica e della responsabilità: dei danni provocati dal riscaldamento globale e dagli eventi catastrofici che si succedono sono responsabili i paesi ricchi, non solo per ragioni storiche ma anche perché sono rimasti per anni inattivi nell’adottare misure di mitigazione dell’aggravarsi del cambiamento climatico e nel fornire ai paesi poveri e più esposti gli aiuti necessari per fronteggiare le prevedibili emergenze.
Lee White, il Ministro dell’ambiente del Gabon, uno dei paesi più attivi nel preservare le proprie foreste e la biodiversità, ha osservato che i paesi in via di sviluppo non hanno ormai più fiducia nelle promesse dei paesi ricchi che non rispettano gli impegni di ridurre le emissioni di gas serra e di finanziare le opere di adattamento nei paesi poveri[xxii].
Più recentemente, in apertura della COP 27 del novembre, Mia Mottley, la prima Ministra di Barbados, ha osservato che la prosperità dei paesi industrializzati era stata raggiunta in passato con le emissioni di gas serra a spese dei paesi poveri che ora sono costretti ancora a pagare, come vittime di un disastro che non hanno contribuito a provocare[xxiii].
- Come si vede, anche l’allargamento dei confini della responsabilità civile nell’accezione solidaristica evidenziata dall’autrice del libro vacillano se si sposta lo sguardo dall’orizzonte statale alla scena internazionale. Infatti, con l’estendersi delle conseguenze più aspre del cambiamento climatico quel principio solidaristico che si è gradualmente affermato nelle concezioni della responsabilità all’interno degli Stati è assai lontano dal realizzarsi su scala globale, dove non solo per decisioni politiche, ma anche per l’iniziativa di soggetti privati sono stati occupati gli spazi normativi che si aprivano a livello globale, ponendo regole, standard, valutazioni delle prestazioni pubbliche, tutte finalizzate alla realizzazione di profitti e di vantaggi competitivi[xxiv]. Si tratta di un’occupazione quindi che ha ben poco interesse per la solidarietà che imporrebbe il dovere di fondare la responsabilità non solo sulla violazione di impegni assunti, ma anche su danni storicamente provocati dagli Stati più ricchi anche quando, secondo una versione più rigorosa, mancava la consapevolezza di porre in essere comportamenti idonei a provocare effetti sul clima o quantomeno quando l’acquisita consapevolezza avrebbe dovuto imporre scelte e comportamenti diversi, e poi, in generale, sulla violazione di diritti umani.
Enormi sono quindi i compiti che attendono i giuristi (e, nei loro rispettivi campi, gli economisti e gli scienziati sociali), non solo nel settore della responsabilità civile: debbono cominciare a esaminare gli scenari dei futuri impatti del cambiamento climatico e domandarsi quali risposte dovrà dare l’ordinamento nazionale e quello internazionale, in modo da predisporre un insieme coerente e efficace di regole di fronte a cambiamenti imprevedibili e magari irreversibili in modo da garantire certezze, sicurezza e eguaglianza: ha osservato un noto giurista dell’ambiente statunitense che sarà il più grande esercizio di futurismo legale mai in precedenza concepito[xxv].
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NOTE:
[i] Maria Cristina Zarro, Danno da cambiamento climatico e funzione sociale della responsabilità civile, Edizioni Scientifiche Italiane, 2022.
[ii]L’espressione loss and damage riguarda gli impatti del cambiamento climatico che non possono essere controllati mediante strategie di adattamento e che producono effetti dannosi permanenti.
[iii] Così Mariacristina Zarro, cit., pag.146
[iv]L’istituto della responsabilità civile extracontrattuale era un tempo trattato solo dalla giurisprudenza: non ne parlavano i trattati di diritto civile e solo nel 1925 è inserita nella Prima Raccolta completa di giurisprudenza sul Codice civile a cura di Fadda, Porro e altri. Sul punto si veda P.G.Monasteri, Responsabilità civile, in Digesto delle discipline privatistiche, vol. XVII, pag.1
[v] Si veda in proposito il saggio di Paolo Grossi, Sull’odierna incertezza del diritto, in Giustizia civile n.4, 2014, pag.921 e segg.
[vi] Pietro Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, Giuffrè, 1961
[vii] Soprattutto Stefano Rodotà, Il problema della responsabilità civile, 1967
[viii] Guido Calabresi, The Cost of Accidents: A Legal and Economic Analysis, Yale University Press 1970
[ix] Paolo Grossi, Ritorno al diritto, Laterza 2015
[x] Ronald Dworkin, Taking Rights Seriously, Oxford University Press, 1977, pag. 24 e 26
[xi] Stefano Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli 2006.
[xii] Così il noto saggio di Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi 1990
[xiii] Stefano Rodotà in Rodotà-Tallacchini, Trattato di biodiritto, Giuffré 2010, pag.192
[xiv] Principio 21 della Dichiarazione di Rio de Janeiro: “Gli Stati devono promuovere la internalizzazione dei costi ambientali utilizzando appropriati strumenti economici, prendendo in considerazione il meccanismo secondo cui chi inquina dovrebbe, in linea di massima, sopportare i costi provocati, tenendo conto dell’interesse pubblico e in modo da non alterare il commercio internazionale e gli investimenti”.
[xv] È una questione assai dibattuta un tempo che avevo affrontato in Il prezzo delle balene in Micromega 1991 pag.157
[xvi] Stefano Rodotà, Ipotesi sul diritto privato in (a cura di Stefano Rodotà) Il diritto privato nella società moderna, Il Mulino 1971, pag.9
[xvii] Maria Rosaria Ferrarese, Poteri nuovi, Il Mulino 2022
[xviii] Pag.149
[xix] Pag.151
[xx] Un’idea della devastazione provocata è offerta da questa documentazione: Devastating Floods in Pakistan (nasa.gov)
[xxi] Sherry Rehman terms Pakistani floods ‘climate-induced humanitarian disaster’ – Pakistan Today, 25 agosto 2022
[xxii] Patrick Grenfeld, Nothing will change on climate until death toll rises in west, says Gabonese minister | Cop27 | The Guardian 31 ottobre 2022
[xxiii] Barbados PM launches blistering attack on rich nations at Cop27 climate talks | Cop27 | The Guardian 2 novembre 2022
[xxiv] Maria Rosaria Ferrarese, cit., pag.6
[xxv] J.B. RUHL, How will Climate Change Change Law? An Exercise in Legal Futurism, in 2050. A Forum about the Legal Future in https://law2050.com/2013/02/22/howwill-climate-change-change-law-an-exercise-in-legal-futurism/ e, dello stesso autore, General Design Principles,