Climate Change: pericoli all’orizzonte?

16 Set 2019 | articoli, editoriale

di Stefano Nespor

Mentre scrivo queste righe, nell’agosto del 2019, l’Europa è colpita da un’ondata di calore senza precedenti, con temperature che hanno superato per la prima volta nella storia moderna i 40°C in varie località della Germania, in Francia e in Olanda.

Esattamente quindici anni fa, nell’estate del 2003, un’analoga abnorme ondata di calore si era abbattuta sull’Europa: ci furono, in Italia e in Francia, migliaia di morti, soprattutto anziani, le strutture sanitarie si rivelarono impreparate a fronteggiare l’imprevista emergenza climatica e i giornali uscivano con titoli di questo tenore: “Un grado e mezzo al disastro”, “Vicini al punto di non ritorno”, “In Val Padana come ai tropici”.

Articoli e rapporti ufficiali si susseguono ininterrottamente sul procedere del cambiamento climatico, offrendo sempre nuovi dati e nuove allarmanti previsioni (tra questi, ne ricordo uno solo: in vent’anni, nonostante gli investimento nelle energie rinnovabili, la dipendenza dai combustibili fossili nel mondo è  oggi ancora dell’80%). Nello stesso tempo, si succedono sotto gli occhi di tutti notizie sempre più inquietanti sullo scioglimento dei ghiacci polari, sull’incessante incremento dei gas serra nell’atmosfera, sul costante aumento del livello degli oceani, sul pericolo di estinzione di migliaia di specie animali e vegetali, sul ridursi delle aree coltivate nei paesi più poveri e più esposti.

Nonostante ciò, e nonostante che i climatologi abbiano ripetutamente indicato ciò che è necessario fare entro breve tempo per contenere gli effetti del cambiamento climatico, pochi nel mondo, salvo sparuti gruppi di attivisti, sembrano preoccuparsi.

Tutti continuano a comportarsi come se non vi fossero pericoli all’orizzonte.

La distanza tra esperti e la gente comune, tra scienza e pubblica opinione, è enorme.

Non c’è alcuna somiglianza con la vicenda dei vaccini, ove un piccolo gruppo di attivisti contesta immotivatamente o pretestuosamente pacifici dati scientifici, ben consapevole di essere protetto dalla maggioranza della popolazione che vaccina i propri figli.

Nel caso del cambiamento climatico, salvo l’esiguo gruppo dei negazionisti climatici, nessuno contesta i dati scientifici; semplicemente li ignora quando si tratta di trarne le conseguenze e adeguare il proprio comportamento.

È un comportamento però meno sorprendente di quanto si può pensare.

Una spiegazione si ricava dagli scritti dell’economista statunitense premio Nobel Elinor Otrom sui beni comuni, e tali sono l’atmosfera e il clima. La caratteristica fondamentale che contraddistingue il comportamento di coloro che utilizzano un bene comune e vogliono evitarne la disgregazione è la fiducia. La maggior parte degli utenti del bene è disponibile a impegnarsi, purché sappia che anche gli altri lo fanno; non è invece disponibile se è consapevole che il proprio sforzo è inutile, non essendo condiviso.

La fiducia in un impegno condiviso è ciò che permette a un bene comune di essere conservato. Oggi questa fiducia manca: c’è, al contrario, la consapevolezza che il proprio sforzo e le proprie rinunce non hanno alcuna utilità di fronte all’indifferenza della maggior parte della gente e dei Governi.

Un’altra spiegazione è basata sul concetto di rischio. Molti esperti ritengono che il rischio sia un entità oggettiva, misurabile mediante criteri scientifici.

Ma molti sono dell’opinione opposta: il rischio è un concetto soggettivo, che dipende da valutazioni personali e culturali di ciascun individuo.

Aveva affermato Aaron Wildawsky (nel suo libro, scritto nel 1982 con Mary Douglas, Risk and Culture: An Essay on the Selection of Technical and Environmental Dangers) che proprio la soggettività del rischio spiega il fatto che c’è chi rifiuta di mettere il casco in motocicletta o scala l’Hymalaya o decide di vivere a Zafferana ai piedi dell’Etna.

E conferma Paul Slovic, il maggior studioso dei profili psicologici del rischio, che le modalità con cui la gente affronta rischi estremi (quali appunto il cambiamento climatico) sono determinate da scelte che variano a seconda della condizione sociale, della formazione culturale, dei rapporti sociali: la percezione del rischio è il risultato di emozioni e razionalità.

Il comportamento di tutti coloro che, pur rendendosi conto del pericolo, non adottano comportamenti volti a ridurlo, è quindi comprensibile: è il frutto di scelte individuali tra benessere attuale e possibili danni futuri, che tengono conto anche del comportamento collettivo e dell’utilità dei comportamenti da porre in essere.

Per questo, tutte le iniziative che sono sorte negli ultimi anni che coinvolgono realtà vicine alla gente, centri urbani, città, associazioni locali, assumono un’importanza fondamentale: proprio perché inseriscono il comportamento del singolo in meccanismi di partecipazione collettiva e nello stesso tempo permettono di valutare gli effetti del rischio del cambiamento climatico.

Scritto da