Sulla qualifica giuridica dei materiali provenienti da demolizione

02 Feb 2023 | giurisprudenza, penale

di Francesca Procopio

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 29 settembre 2022 (dep. 13 dicembre 2022), n. 47040 – Pres. Ramacci, Est. Zunica – ric. D.M.G.

Ai fini della configurabilità dei reati contravvenzionali di gestione non autorizzata e di abbandono o deposito incontrollato di cui all’art. 256, commi 1 e 2 D.Lgs. n. 152/2006, i materiali provenienti da demolizione devono essere qualificati come rifiuti, in quanto oggettivamente destinati all’abbandono, salvo che l’interessato non fornisca la prova della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per l’applicazione di un regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al “deposito temporaneo” o al “sottoprodotto”, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria di tali regimi rispetto alla disciplina ordinaria.

  1. Premessa

Con la sentenza n. 47040 del 29 settembre 2022 qui annotata, la Cassazione torna a pronunciarsi sulla qualifica giuridica dei materiali provenienti da demolizione, nella specie in rapporto alla configurabilità delle contravvenzioni di gestione non autorizzata e di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti previste dall’art. 256, commi 1 e 2 D.Lgs. n. 152/2006.

La sentenza si pone in continuità con il costante e consolidato orientamento della Corte – apparentemente interrotto da recenti e più restrittive pronunce – che attribuisce la qualifica di rifiuti ai materiali derivanti dalle attività di demolizione, allorché l’interessato non fornisca evidenza delle condizioni di liceità del deposito controllato o temporaneo di cui all’art. 183, comma 1, lett. bb) D.Lgs. n. 152/2006, ovvero della certezza oggettiva del loro riutilizzo, circostanza quest’ultima che consentirebbe di qualificarli come sottoprodotti ai sensi dell’art. 184 bis D.Lgs. n. 152/2006 ([1]).

  1. La vicenda sottoposta al vaglio della Cassazione e i motivi di ricorso

I fatti oggetto della sentenza in commento riguardano l’attività imprenditoriale di una società attiva nel settore edile cui, nella ricostruzione del Giudice di prime cure, era attribuibile la condotta di gestione dei rifiuti derivanti dai lavori di ristrutturazione di un ospedale, depositati in maniera incontrollata sul suolo, in assenza delle necessarie autorizzazioni e dei formulari per lo smaltimento.

Nella specie, il Tribunale di Castrovillari aveva dichiarato il legale rappresentante della società responsabile dei reati contravvenzionali di gestione non autorizzata e di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti di cui all’art. 256, commi 1 e 2 D.Lgs. n. 152/2006.

L’imputato ricorreva per cassazione avverso la sentenza di condanna, enunciando tre motivi di impugnazione.

Con il primo motivo, la difesa muoveva censure di illogicità e contraddittorietà al ragionamento con cui il Tribunale aveva affermato, in via presuntiva, che l’imputato avrebbe ininterrottamente depositato, in un terreno adiacente all’ospedale oggetto dei lavori, i materiali di demolizione per un lasso di tempo di oltre un anno, laddove dall’istruttoria dibattimentale sarebbe emerso che il deposito dei residui di lavorazione risaliva, al più, a qualche mese prima del sopralluogo degli operanti che aveva determinato il sequestro.

Analoghe censure venivano sollevate in relazione all’argomento con cui il Tribunale aveva ritenuto integrato il deposito irregolare sulla scorta del volume complessivo di rifiuti accumulati, e ciò nonostante avesse riconosciuto che la maggior parte del materiale rinvenuto nel sito al momento del sequestro non fosse riconducibile all’attività edile della società del ricorrente ([2]).

Un ulteriore vizio argomentativo della sentenza veniva individuato nel richiamo, operato dal Tribunale a supporto della tesi d’accusa, alla mancanza dei formulari di smaltimento del materiale alla data del sequestro; nella ricostruzione difensiva, in quel momento non sarebbe ancora sorto l’obbligo giuridico di provvedere allo smaltimento in quanto, essendo i lavori iniziati da pochi mesi, non era decorso il termine annuale previsto dall’art. 183 D.Lgs. n. 152/2006.

In ogni caso, secondo la tesi della difesa, i materiali di risulta derivanti dall’attività edile della società si sarebbero trovati sul piazzale adiacente al nosocomio in attesa di essere prelevati dalla ditta incaricata dello smaltimento.

Con il secondo motivo veniva lamentata la mancata concessione delle attenuanti generiche ex art. 62 bis c.p., ancorché la sentenza non desse atto di elementi a ciò ostativi; infine, con il terzo motivo si censurava il mancato riconoscimento della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p., pur ritualmente richiesta in sede di conclusioni dalla difesa, senza che il Tribunale si fosse espresso in merito.

La Corte rilevava l’infondatezza dei primi due motivi di ricorso, evidenziando anzitutto come i rifiuti rinvenuti nella zona adiacente al cantiere fossero coerenti con i lavori che la ditta amministrata dall’imputato portava avanti da oltre un anno, di talché era senz’altro da escludersi l’eventualità di un legittimo riutilizzo del materiale inerte abbandonato ([3]). Le deduzioni difensive, secondo cui il deposito dei residui di lavorazione sarebbe risalito, al più, a qualche mese prima del sopralluogo degli operanti, a parere della Corte non trovavano adeguato riscontro nell’istruttoria; né poteva riconoscersi nella fattispecie un deposito temporaneo o controllato, in attesa del futuro smaltimento, considerato che alcun formulario era stato rinvenuto. Ne derivava l’assenza di vizi motivazionali della sentenza di primo grado e, anzi, la correttezza della tesi della continuità nel tempo dell’abbandono di rifiuti sostenuta dal Tribunale. Parimenti infondato, come detto, veniva ritenuto il motivo sul mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, non essendo stati illustrati nel ricorso elementi suscettibili di positivo apprezzamento tali da giustificare valutazioni diverse in punto di determinazione della pena.

Diversamente, la Corte riteneva meritevole di accoglimento il motivo riguardante il mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto, atteso che il Tribunale aveva omesso di pronunciarsi sulla richiesta – ritualmente avanzata dalla difesa – di applicazione di tale causa di non punibilità, con conseguente lacuna motivazionale che imponeva l’annullamento con rinvio della sentenza in parte qua, trattandosi di questione di merito non valutabile in sede di legittimità.

  1. La qualifica giuridica dei materiali provenienti da demolizione: rifiuti o (anche) sottoprodotti?

La sentenza in commento propone interessanti spunti in diritto in merito al primo motivo di ricorso, attinenti alla qualifica dei materiali di demolizione come rifiuti ai fini della configurabilità del reato contravvenzionale di gestione non autorizzata e di abbandono o deposito incontrollato di cui all’art. 256, commi 1 e 2 D.Lgs. n. 152/2006. Come anticipato in premessa, il decisum rappresenta una conferma del risalente e consolidato orientamento della Corte che attribuisce ai materiali di demolizione siffatta qualifica giuridica ([4]), ponendo a carico del produttore-detentore l’onere della prova della sussistenza dei presupposti per l’applicazione della disciplina eccezionale e più favorevole del deposito controllato o temporaneo ovvero del sottoprodotto ([5]).

In merito, occorre fare una breve digressione sull’interpretazione che, nel tempo, ha dato della questione la giurisprudenza di legittimità, essendosi registrato negli anni recenti anche un orientamento più restrittivo di quello dianzi citato e sposato dalla sentenza in analisi.

Storicamente, gli inerti provenienti da demolizioni di edifici sono stati considerati rifiuti speciali ([6]), trattandosi di materiale qualificato espressamente come tale dalla legge all’art. 183, comma 1, lett. b quater) D.Lgs. n. 152/2006. Secondo la definizione legislativa, tali sono i materiali di cui il produttore-detentore si disfi, ovvero abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi ([7]), avviandoli al recupero – prodromico a un successivo reimpiego – ovvero allo smaltimento.

L’eventualità del recupero di siffatti materiali ha condotto la giurisprudenza a precisare che “esso è condizionato a precisi adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali vanno considerati cose di cui il detentore ha l’obbligo di disfarsi”, e che l’assoggettamento a regimi più favorevoli rispetto alla disciplina ordinaria dei rifiuti implica la dimostrazione, da parte di chi li invoca, di tutti i relativi presupposti previsti dalla legge ([8]).

In sintesi, secondo giurisprudenza consolidata, i materiali provenienti da demolizione vanno considerati come rifiuti speciali e non come sottoprodotti, ancorché tale ultima qualificazione non sia da escludersi in radice; le sentenze citate contemplano infatti l’evenienza del riconoscimento di una diversa natura giuridica, purché ricorrano tutte le condizioni all’uopo previste dalla legge e “l’onere della prova certa […] del loro utilizzo, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione […] incomba sull’interessato” ([9]).

Nel tempo, tuttavia, si è assistito a pronunce che sposavano una interpretazione più stringente, tale da escludere qualsivoglia possibilità che i materiali provenienti da demolizione potessero essere ritenuti sottoprodotti: ciò in quanto “per essere qualificati come sottoprodotto, i materiali devono ‘trarre origine’ – quindi provenire direttamente – da un ‘processo di produzione’, dunque da un’attività chiaramente finalizzata alla realizzazione di un qualcosa ottenuto attraverso la lavorazione o la trasformazione di altri materiali, mentre l’attività di mera demolizione di manufatti non è finalizzata alla produzione di alcunché” ([10]). Da tale lettura è derivato un vero e proprio ostacolo alla invocabilità della categoria del “sottoprodotto” in relazione agli inerti da demolizione, essendo questa ontologicamente inidonea a essere definita quale “processo di produzione” come indicato dall’art. 184 bis D.Lgs. n. 152/2006.

Sulla base di tale più rigorosa interpretazione, quindi, i materiali derivanti da demolizione non potrebbero mai essere considerati sottoprodotti, a prescindere dal loro riutilizzo, anche nell’ipotesi in cui ciò fosse certo e adeguatamente documentato dall’interessato.

Ricostruita l’evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali sul tema, occorre verificare come si collochi in tale contesto la sentenza in commento.

Discostandosi dal più rigido orientamento sviluppatosi nel passato recente, la Cassazione torna a mostrare un’apertura alla possibilità che gli inerti da demolizione vengano qualificati sottoprodotti, bypassando l’argomento secondo cui essi sarebbero catalogabili esclusivamente come rifiuti in quanto non provenienti da un processo di produzione.

Più in dettaglio, nel riconoscere la legittimità della decisione con cui il Tribunale, nel caso di specie, aveva ritenuto configurabile il reato di cui agli artt. 256, comma 1 e 2, D.Lgs. n. 152/2006, la Corte richiamava lo storico orientamento secondo cui “i materiali provenienti da demolizione debbono essere qualificati dal giudice come rifiuti, in quanto oggettivamente destinati all’abbandono, salvo che l’interessato non fornisca la prova della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per l’applicazione di un regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al ‘deposito temporaneo’ o al ‘sottoprodotto’, dovendosi al riguardo ribadire che, in tema di gestione dei rifiuti, l’onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità del deposito cosiddetto controllato o temporaneo, fissate dal D.Lgs. n. 152/2006, art. 183, grava sul produttore dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria di tale deposito rispetto alla disciplina ordinaria”.

Sulla scorta di tale principio di diritto, la Corte addiveniva alla conclusione che la sentenza del Tribunale fosse scevra di profili di irrazionalità e coerente con gli elementi di prova disponibili, sottintendendo che il protratto deposito degli inerti da demolizione nel piazzale adiacente all’ospedale sottoposto a ristrutturazione a cura della società del ricorrente appariva incompatibile con la finalità di riutilizzo e di recupero, nonché con l’intenzione di prossimo smaltimento, non constando alcun formulario né autorizzazione. In ogni caso, la Corte rilevava altresì che l’applicazione del più mite regime del deposito temporaneo o controllato invocato in sede di ricorso avrebbe importato una differente lettura del materiale probatorio, operazione con ogni evidenza preclusa in sede di legittimità.

  1. Considerazioni conclusive

La pronuncia annotata sembra fare un dietro-front rispetto all’orientamento più recente che, muovendo da una lettura più severa del dato normativo, era giunto ad escludere l’eventualità che i materiali provenienti da demolizione potessero essere ricondotti alla nozione di sottoprodotti.

Nondimeno, essa riconferma la natura di rifiuti di siffatti materiali, quantomeno fino alle eventuali operazioni di recupero, e riconferma altresì in capo al produttore-detentore dei rifiuti l’onere della prova della sussistenza dei presupposti di legge che legittimino l’applicazione di un regime giuridico maggiormente di favore, tale da escludere la configurabilità dei reati contravvenzionali di cui all’art. 256, commi 1-3, D.Lgs. n. 152/2006.

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Nota a Cass. Pen. n. 47040-2022 – Francesca Procopio (rev.)

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Cass. III, 47040_2022 (Procopio)

NOTE:

([1])  Si veda, ex multis, Corte Cass. pen., Sez. III, 14 maggio 2015, n. 29084: “I materiali provenienti da demolizioni rientrano nel novero dei rifiuti in quanto oggettivamente destinati all’abbandono, l’eventuale recupero è condizionato a precisi adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali vanno considerati, comunque, cose di cui il detentore ha l’intenzione di disfarsi; l’eventuale assoggettamento di detti materiali a disposizioni più favorevoli che derogano alla disciplina ordinaria implica la dimostrazione, da parte di chi le invoca, della sussistenza di tutti i presupposti previsti dalla legge”.  Conformi, Corte Cass. pen., Sez. III, 28 giugno 2017, n. 53136; Corte Cass. pen., Sez. III, 10 maggio 2016, n. 35494; Corte Cass. pen., Sez. III, 27 aprile 2015, n. 17380; Corte Cass. pen., Sez. III, 17 aprile 2014, n. 23497; Corte Cass. pen., Sez. III, 1° aprile 2014, n. 14952.

([2]) Nella specie, i rifiuti rilevanti erano costituiti da materiale di risulta, essendo stata esclusa dal Tribunale la riconducibilità all’attività edile dell’imputato dei rifiuti pericolosi pure ivi presenti, quali infissi dismessi, termosifoni arrugginiti, pezzi igienici danneggiati e simili.

([3]) Con riferimento al concetto di “abbandono”, la giurisprudenza ha chiarito che tale condotta è intrinsecamente connotata dalla volontà di “disfarsi e disinteressarsi completamente della cosa”: così Corte Cass. pen., Sez. III, 29 novembre 2013, n. 47501. Vi è abbandono o deposito incontrollato, quindi, in tanto in quanto la condotta sia incompatibile con una qualsiasi delle forme di legittima gestione dei rifiuti: sul punto, si veda C. Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, Torino, 2016, p. 154.

([4]) La materia ha da ultimo trovato una regolamentazione normativa con il decreto ministeriale 27 settembre 2022, n. 152, cd. “Regolamento End of Waste”, in vigore dallo scorso 4 novembre, con cui sono stati stabiliti i criteri specifici in base ai quali i rifiuti inerti da costruzione e demolizione – ossia i rifiuti individuati al capitolo 17 dell’Elenco europeo dei rifiuti di cui alla decisione 2000/532/CE, indicati al punto 1 della Tabella 1 dell’Allegato 1 al Regolamento n. 152/2022 – cessano di essere qualificati come tali. Il decreto citato, adottato dal Ministero della Transizione Ecologica, è rubricato “Regolamento che disciplina la cessazione della qualifica di rifiuto dei rifiuti inerti da costruzione e demolizione e di altri rifiuti inerti di origine minerale, ai sensi dell’articolo 184-ter, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”. In particolare, il decreto stabilisce i criteri specifici cui i rifiuti inerti, derivanti dalle attività di costruzione e demolizione, devono essere conformi per la cessazione della loro qualifica di “rifiuto” in favore di quella di “aggregato recuperato”. La nuova disciplina, quindi, vede con favore la generazione di sottoprodotti; sul punto, per un’analisi critica della giurisprudenza in materia alla luce dei recenti sviluppi normativi, si veda, in questa Rivista, R. Losengo, End of Waste e sottoprodotti: l’onere della prova nell’epoca dell’economia circolare, n. 38, gennaio 2023.

([5]) In proposito, è stato osservato che, a rigore, di regime giuridico “più favorevole” può parlarsi in relazione al deposito controllato o temporaneo, ma non anche in relazione al sottoprodotto. Invero, la differenza fra rifiuti e sottoprodotti non si caratterizzerebbe per una regolamentazione più mite di questi ultimi rispetto ai primi; piuttosto, la distinzione risiederebbe nella diversa natura e destinazione delle due tipologie di sostanze, tale da legittimare una disciplina dei sottoprodotti autonoma e separata da quella dei rifiuti. Secondo tale impostazione, sarebbe pertanto improprio attribuire al regime giuridico dei sottoprodotti i caratteri della eccezionalità e della deroga, nell’ambito della stessa categoria/tipologia dei rifiuti (e relativa regolazione), trattandosi di una disciplina ab origine diversa, che si pone al di fuori di tale ambito normativo. In questo senso, si veda Corte Cass. Pen., Sez. III, 26 giugno 2012, n. 25203, secondo cui “sottoprodotto è ciò che non è mai stato rifiuto, costituendo invece materiale immediatamente riutilizzabile”.

([6]) Si vedano Corte Cass. pen., Sez. III, 12 ottobre 2009, n. 39728; Corte Cass. pen., Sez. III, 13 settembre 2013, n. 37541.

([7]) Così l’art. 183, comma 1, lett. a) D.Lgs. n. 152/2006, che definisce rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”.

([8]) Così Corte Cass. pen., Sez. III, n. 14952/2014, cit.

([9]) Così Corte Cass. pen., Sez. III, 13 aprile 2011, n. 16727.

([10]) Così Corte Cass. pen., Sez. III, 18 gennaio 2018, n. 8848, che precisa altresì come “la demolizione di un edificio, che può avvenire per motivi diversi, non è finalizzata alla produzione di alcunché, bensì all’eliminazione dell’edificio medesimo, né può assumere rilevanza, come già ritenuto da questa Corte, il fatto che la demolizione sia finalizzata alla realizzazione di un nuovo edificio, che non può essere considerato il prodotto finale della demolizione, in quanto tale attività non costituisce il prodromo di una costruzione, che può essere effettuata anche indipendentemente da precedenti demolizioni”. Conforme, Corte Cass. pen., Sez. III, 28 luglio 2015, n. 33028. Nello stesso senso, nella recente giurisprudenza di merito, Trib. Siracusa, Sez. II, 8 gennaio 2020, n. 2209: “I rifiuti derivanti da demolizione di lavori edili costituiscono rifiuti speciali e non sottoprodotti, i quali derivano da un’attività di produzione attraverso la lavorazione e a nulla rileva che dopo la demolizione vi sia una ricostruzione dovendo in ogni caso i rifiuti essere portati in discarica e non riutilizzati”.

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