Sul momento consumativo dell’art. 328 c.p.: un punto di incontro tra tutela dell’ambiente ed efficienza della pubblica amministrazione.

16 Mar 2020 | giurisprudenza, penale

di Vincenzo Morgioni  

CASSAZIONE PENALE, Sez. VI – 12 novembre 2019 (dep. 16 gennaio 2020), n. 1657 – Pres. Petruzzellis, Est. Villoni – ric. Villani   

Il rifiuto di un atto dell’ufficio, previsto dall’art. 328, comma primo, c.p., ha natura di reato istantaneo e può manifestarsi in forma continuata quando, a fronte di formali sollecitazioni ad agire rivolte al pubblico ufficiale rimaste senza esito, la situazione potenzialmente pericolosa continui a esplicare i propri effetti negativi e l’adozione dell’atto dovuto sia suscettibile di farla cessare.

Apparirà inusuale, vista la sede, commentare una pronuncia dedicata al momento consumativo di un delitto contro la Pubblica Amministrazione, non fosse che l’art. 328 c.p.  ricorre spesso nella casistica dei procedimenti aventi ad oggetto comportamenti pericolosi per l’ambiente.

Difatti, pur non avendo alcun elemento in comune con le più tipiche figure dei reati ambientali, il delitto di rifiuto di atti di ufficio consente tuttavia di sanzionare il comportamento di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio che, non ottemperando ai propri doveri, ometta di emanare un provvedimento necessario per la salvaguardia di interessi generali, non ultimo la tutela dell’ecosistema.

Del resto, che l’art. 328 c.p. sia spesso contestato a fronte di comportamenti dei pubblici uffici potenzialmente pericolosi per l’ambiente è circostanza che si evince chiaramente anche dalle pagine della recente proposta di legge n. 1853 del 16 maggio 2019 volta a metter mano, nuovamente, al comparto della normativa sull’ambiente, intervenendo in maniera trasversale su diversi fronti, partendo dal testo unico in materia ambientale, toccando la responsabilità degli enti e culminando nel codice penale.

Dunque, al fine di agevolare la lettura della recente pronuncia resa dalla Suprema Corte e di poter comprendere i risvolti che la riforma, qualora approvata, potrebbe avere per la tutela dell’ambiente, si rende opportuno un breve inquadramento del delitto in esame.

Il testo del primo comma dell’art. 328 c.p., punisce “il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità deve essere compiuto senza ritardo”.

Ad essere sanzionato è, dunque, un rifiuto proveniente da un soggetto qualificato, che può evidentemente estrinsecarsi sia con una condotta attiva che omissiva e che deve essere “indebito”, ovvero posto in violazione dei doveri che regolano l’esercizio della funzione pubblica.

L’obbligatorietà dell’atto deriva, evidentemente, dalla necessità di tutelare uno o più degli interessi generali richiamati nel testo ovvero giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene e sanità pubblica o privata.

Diversamente, il secondo comma sanziona il comportamento del soggetto qualificato che, a fronte della richiesta di chi vi abbia interesse, entro il termine di trenta giorni non compia l’atto del suo ufficio né si adoperi per esporre le ragioni del ritardo.

Si tratta in questo caso di un reato omissivo proprio che punisce, secondo quanto chiarito dalla Suprema Corte, “non tanto l’omissione dell’atto richiesto, quanto la mancata indicazione delle ragioni del ritardo entro i trenta giorni dall’istanza di chi vi abbia interesse” in modo da colpire “l’inerzia del funzionario, la quale finisce per rendere poco trasparente l’attività amministrativa[i].

In entrambi i commi, il reato è punito a titolo di dolo generico, essendo richiesta la presa di coscienza dell’obbligatorietà dell’atto in ragione di uno dei motivi indicati nel testo, unitamente alla volontà di non farvi fronte.

Ciò posto, la pronuncia in esame affronta una delle forme di manifestazione più gravi dell’art. 328 c.p. ovvero la persistente inerzia di un pubblico ufficiale (un sindaco, nel caso di specie) che ometta di adottare per molto tempo un provvedimento necessario per la salvaguardia della collettività e dell’ambiente circostante.

Soprattutto se si considera che, nel caso di specie, tale atto avrebbe posto fine ad una situazione pericolosa protrattasi in un arco temporale di molti anni, durante il quale membri del Corpo Forestale e privati cittadini avevano segnalato più volte l’abbandono di rifiuti altamente contaminanti su un terreno esposto all’aria aperta, senza ottenere alcun tipo di risposta se non a seguito dell’insediamento del nuovo sindaco.

Visto il protrarsi dei fatti a partire dal 2010, anno in cui si colloca il primo invito formale, fino al 2014, il Pubblico Ministero aveva contestato l’art. 328 c.p., primo comma, come reato permanente, nonostante l’interpretazione più tradizionale tenda a inquadrarlo tra i reati a consumazione istantanea[ii].

Un’impostazione questa ripresa nel testo delle pronunce che hanno definito i giudizi di merito all’esito dei quali l’imputato è stato ritenuto responsabile per il reato ascrittogli, non avendo adottato, nonostante le innumerevoli denunce, alcun provvedimento nell’arco dei numerosi anni di reggenza e fino all’ordinanza emessa dal sindaco subentrato.

Tuttavia, tale lettura, secondo le argomentazioni sottese al ricorso presentato dall’imputato di fronte alla Suprema Corte, farebbe confusione tra i concetti di permanenza e di istantaneità del reato, arrivando a tradire lo spirito della norma e rendendo così la motivazione, addotta sul punto dalla Corte d’Appello, censurabile in quanto manifestatamente illogica e contraddittoria.

Il ragionamento condotto tra le pagine della decisione in esame parte, dunque, da una constatazione dettata dal buon senso ovvero che “l’affermazione dell’eguale rilevanza penalistica della persistente inerzia omissiva rispetto al rifiuto formale può suscitare incertezze interpretative circa la struttura dell’illecito penale, con la possibilità di considerarlo reato eventualmente permanente[iii].

Invero, afferma Supremo Consesso, “il Collegio non intende discostarsi dalla concezione e dalle affermazioni giurisprudenziali tradizionali per le quali l’art. 328, comma 1, c.p. costituisce reato di natura istantanea, ma deve confrontarsi con la fattispecie in esame che ha visto il pubblico ufficiale reiteratamente e formalmente sollecitato ad adottare un atto del proprio ufficio, da intendersi come atto dovuto per le più volte segnalate esigenze di tutela sanitaria[iv].

Ciò premesso, pur aderendo all’indirizzo consolidato che inquadra l’art. 328, primo comma, c.p. come reato istantaneo, la Suprema Corte ammette che questo possa “manifestarsi come reato continuato (concorso materiale omogeneo) quando, a fronte di formali sollecitazioni ad agire rivolte al pubblico ufficiale rimaste senza esito, la situazione potenzialmente pericolosa continui a esplicare i suoi effetti negativi e l’adozione dell’atto dovuto sia suscettibile di farla cessare[v].

Tale soluzione interpretativa appare ossequiosa del granitico orientamento sinora espresso e non manca nel contempo di prendere contezza delle sfumature del caso di specie, lasciando invero qualche perplessità sulla possibilità di configurare un vero e proprio reato continuato.

Non si deve dimenticare infatti che l’essenza di tale figura disciplinata dall’art. 81, secondo comma, c.p. è proprio il medesimo disegno criminoso che dovrebbe tenere avvinte le diverse condotte perpetrate nel tempo e che, secondo l’orientamento unanime, dovrebbe essere presente nella prospettiva del soggetto agente, quanto meno per sommi capi, sin dal compimento del primo atto[vi].

Tuttavia questo è un aspetto sul quale la pronuncia in esame sorvola, limitandosi a constatare la sussistenza di una pluralità di violazioni della stessa fattispecie incriminatrice e la permanenza di un unico contesto criminoso in cui si sono iscritte le condotte contestate.

Spostandosi sul piano strettamente normativo, è possibile ora interrogandosi sulla sorte dell’art. 328 c.p. nell’ambito della proposta di legge del 16 maggio 2019 che, come accennato, propone una rivisitazione organica della normativa ambientale.

Soffermandosi sugli interventi nel codice penale, qui ad essere interessato sarebbe innanzitutto l’art. 452decies c.p. con l’eliminazione del limite massimo dei tre anni per la sospensione del procedimento, al fine di consentire l’espletamento delle attività riparative elencate nel primo comma e l’inserimento di un nuovo capoverso volto a escludere la punibilità per i delitti colposi in caso di avvio spontaneo delle attività di risanamento ambientale in conformità alla legge.

Quanto all’art. 328 c.p., nel preambolo questo viene presentato come una fattispecie priva di una reale efficacia repressiva a causa, in buona sostanza, “dell’assenza nel nostro ordinamento di termini perentori a carico della pubblica amministrazione entro cui completare procedimenti e rilasciare provvedimenti, [il che] pone nel nulla la già difficile possibilità di esercizio dell’azione penale nei confronti dei medesimi soggetti[vii].

Pertanto, le modifiche proposte, attraverso un rimaneggiamento della fattispecie, perseguirebbero “un chiaro e oggettivo intento di moralizzazione e di incremento della trasparenza dell’azione della pubblica amministrazione[viii].

Ciò posto, l’intervento, che avrebbe per oggetto soltanto il secondo comma dell’art. 328 c.p., darebbe al Pubblico Ufficiale, o all’incaricato di pubblico servizio, la scelta di compiere, nel termine perentorio di trenta giorni dalla ricezione della richiesta, l’atto del proprio ufficio o comunque di rispondere comunicando il termine entro cui tale provvedimento verrà adottato.

Riportando dunque il nuovo testo, la previsione modificata punirebbe “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio o comunque non risponde comunicando i termini entro cui l’atto dovrà essere compiuto[ix].

Appare chiaro, dunque, come si cerchi di rispondere alle criticità indicate nel preambolo obbligando il soggetto agente a darsi e, quindi, a comunicare un termine tassativo entro cui l’atto dovrà necessariamente essere emesso.

Se il pubblico agente non dovesse ottemperare nel termine comunicato all’interessato, allora verrebbe sanzionato con la reclusione “di cui al primo comma[x], espressione che lascerebbe intendere, se non dovesse mutare, che il reo andrebbe incontro ad una pena compresa tra i sei mesi e i due anni.

Questo vorrebbe dire punire in maniera inspiegabilmente più severa il comportamento di chi abbia quantomeno risposto alla richiesta, comunicando un termine per l’adempimento senza poi rispettarlo, rispetto alla totale inerzia del pubblico agente.

Ma al di là di tale aspetto, ciò che non convince della fattispecie così scritta è il chiaro tentativo di risolvere “l’assenza nel nostro ordinamento di termini perentori” rimettendo, di fatto, al pubblico agente la possibilità di scegliere liberamente una scadenza entro cui adempiere, spalancando così la via a pratiche dilatorie potenzialmente pericolose per gli interessi della collettività, del tutto analoghe a quella dalla quale ha preso le mosse la pronuncia esaminata.

In conclusione, la sensazione che trapela tra le righe della riforma è che si sia nuovamente incorsi nel classico errore di rispondere ad una situazione di emergenza mettendo le mani tra i circuiti del diritto penale e arrivando a toccare persino una delle figure più classiche dei delitti contro la Pubblica Amministrazione.

Tale disegno, del resto, si inserisce nell’ambito di una stagione animata da iniziative maldestre volte a rimaneggiare anche gli istituti più tradizionali del codice, il che spinge a domandarsi se non sia il caso che lo sguardo del legislatore si orienti verso altri orizzonti.

Per il testo della sentenza (estratto dal sito della Corte di Cassazione) cliccare sul pdf allegato.

Morgioni_Cass. pen. n. 1657

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Morgioni_1657-2020

[i] Così, Cass. pen., sez. VI, 6 ottobre 2015, n. 42610.

[ii] Si vedano, ex multis, Cass. pen., sez. VI, 13 luglio 2018, n. 43903; Cass. pen., Sez. VI, 19 febbraio 2008 n. 27044; Cass. pen., sez. VI, 26 aprile 2007, n. 35837; Cass. pen., sez. VI, 27 gennaio 2004, n. 12238.

[iii] Cfr. p.6 della pronuncia in esame.

[iv] Cfr. p.7 della pronuncia in esame.

[v] Ibidem.

[vi] Sul punto Cass. pen., sez. Un., 18 maggio 2017, n. 28659; Cass. pen., sez. III, del 17 novembre 2015, n. 896; Cass. pen., sez. V, 3 ottobre 2013, n. 5599; Cass. pen., sez. I, 2 luglio 2013, n. 35639; Cass. pen., sez. III, 24 settembre 1982, n. 228; Cass. pen., sez. I, 12 gennaio 1976, n. 4267.

[vii] Cfr. Camera dei deputati, proposta di legge del 16 maggio 2019 n. 1853, p. 4.

[viii] Ibidem.

[ix] Cfr. Camera dei deputati, proposta di legge del 16 maggio 2019 n. 1853, p. 14.

[x] Ibidem.

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