Sul disturbo dell’occupazione o del riposo delle persone: soglia di rilevanza penale e obbligo giuridico del gestore di un’attività commerciale

01 Mag 2022 | giurisprudenza, penale

di Vincenzo Morgioni

Corte di Cassazione, Sez. III – 6 ottobre 2021 (dep. 4 febbraio 2022), n. 3952 – Pres. Di Nicola, Est. Cerroni – ric. Giannecchini

Per la configurabilità della contravvenzione di cui all’art. 659, comma 1, c.p., non sono necessarie né la vastità dell’area interessata dalle emissioni sonore, né il disturbo di un numero rilevante di persone essendo sufficiente che il disturbo venga arrecato a un gruppo indeterminato di persone e non solo ad un singolo.

Risponde del reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone il gestore di un pubblico esercizio che non impedisca i continui schiamazzi provocati dagli avventori in sosta d’avanti al locale anche nelle ore notturne, essendogli imposto l’obbligo giuridico di controllare, anche con ricorso allo ius excludendi o all’Autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica.

  1. Premessa

L’art. 659 c.p. costituisce una delle ipotesi contravvenzionali meno note ma certamente di interesse, soprattutto per chi esercita attività in grado di generare, direttamente o indirettamente, emissioni rumorose idonee ad arrecare disturbo alla pubblica quiete.

In tale ambito, il caso di specie si inserisce in maniera del tutto peculiare, considerato che il ricorrente era, appunto, un gestore di un pub posto in una via principale di un centro cittadino, quindi molto frequentato e affollato, che veniva ritenuto responsabile all’esito dei precedenti gradi di giudizio del reato di cui all’art. 659, comma 1, c.p., per non aver adottato idonee cautele atte ad evitare rumori e disturbo da parte della propria clientela anche nelle ore notturne.

Ciò premesso, la pronuncia resa dalla Suprema Corte consente in questa sede di approfondire tre diverse tematiche legate al reato di cui all’art. 659 c.p., attinenti alla differenza intercorrente tra le ipotesi contemplate nei due diversi commi di cui si compone, alla soglia di rilevanza penale delle emissioni sonore e all’astratta configurabilità della fattispecie anche in forma omissiva.

  1. La struttura dell’art. 659 c.p. e le differenti ipotesi dei commi 1 e 2

            Si ritiene necessario, al fine di comprendere al meglio il contenuto del primo motivo di ricorso e, di conseguenza, le statuizioni adottate sul punto dalla Suprema Corte, inquadrare brevemente gli elementi che distinguono, come anticipato, le ipotesi contemplate dai due commi dell’art. 659 c.p.

In particolare, secondo tale disposizione di legge, è punito chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici. Diversamente, il secondo comma, che disciplina una distinta ipotesi di reato e non una mera circostanza aggravante[1], sanziona invece chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni di legge o le prescrizioni dell’Autorità.

Apparirà evidente, già dalla semplice lettura del dettato normativo, come le due ipotesi di reato si fondino su presupposti diversi, laddove, ai fini dell’integrazione del primo comma, occorrerà che la condotta, tra quelle descritte dalla norma, sia in grado di superare la soglia della normale tollerabilità, mentre per il secondo comma sarà sufficiente accertare l’effettiva violazione dei parametri previsti dalla legge.

La distinzione, ovviamente, non è scevra di conseguenze sul piano pratico. In particolare, con riguardo al secondo comma, la Suprema Corte ha ritenuto che una volta “accertata l’esistenza di apposite prescrizioni che qualifichino come rumorosa una determinata attività e la violazione di tali prescrizioni” divenga, di fatto, irrilevante l’indagine circa l’intensità e la tollerabilità dei rumori[2]. Quella contemplata al secondo comma si configura, dunque, come una fattispecie di pericolo astratto a differenza del primo comma, ove invece la configurabilità della diversa ipotesi non potrà prescindere da una verifica in concreto che, tenendo conto di criteri oggettivi riferibili alla sensibilità media degli abitanti di un determinato ambiente, attesti che l’intensità dei rumori sia tale da disturbare il riposo delle persone (questo in quanto si tratta, per l’appunto, di un reato di pericolo concreto).

Tale tipo di accertamento potrà essere effettuato non solo tramite perizia fonometrica, ben potendo il Giudice formare il proprio libero convincimento anche sulla base di altri mezzi di prova più tradizionali, quali, per esempio, l’escussione testimoniale.

Ora, con il primo motivo di impugnazione, il ricorrente lamentava la violazione degli artt. 6, par. 1 e 4 CEDU, nonché 516 e 521 c.p.p. per essere stato condannato in relazione ad un fatto diverso da quello oggetto di contestazione. In particolare, secondo la prospettiva della difesa, si era giunti ad una dichiarazione di responsabilità per l’ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 659 c.p. solamente sulla base di una valutazione ad personam e delle rilevazioni effettuate dall’ARPA (che, per l’appunto, si erano svolte unicamente presso l’abitazione della parte civile), quindi esclusivamente sulla constatazione di un superamento dei limiti delle emissioni sonore.

Ed invero, la Suprema Corte, richiamandosi all’orientamento consolidato in tema di accertamento del superamento della normale tollerabilità, ha chiarito che nulla impedisce al Giudice di trarre le proprie conclusioni sulla base di ogni elemento probatorio capace “di dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete”. Si tratta di una conclusione sulla quale non si ritiene di dissentire considerato che talvolta, come nel caso di specie, l’espletamento di accertamenti tecnici e, nello specifico, di una perizia fonometrica risulta essere l’unico mezzo per superare l’impasse generata da risultanze probatorie contrastanti e non in grado evidentemente di gettare le basi per una decisione equa e realmente attenta alle sfumature del caso di specie[3].

A conclusione della disamina del primo motivo di ricorso incentrato, per l’appunto, sulla diversa natura dei due commi di cui all’art. 659 c.p., si segnala che la giurisprudenza di legittimità ammette in ogni caso la possibilità di concorso tra i due reati qualora, oltre all’esercizio irregolare di un’attività rumorosa in sé, l’agente abbia aggiunto rumori eccedenti quelli propri dell’attività svolta[4].

  1. L’idoneità lesiva della condotta e la soglia minima di rilevanza penale

            Sempre facendo perno sulla diversa natura delle ipotesi contravvenzionali di cui all’art. 659 c.p., quale secondo motivo di ricorso la difesa rilevava, in ogni caso, che nei precedenti gradi di giudizio non era stata raggiunta la prova in ordine all’idoneità delle emissioni sonore provenienti dal locale del ricorrente ad arrecare un disturbo indifferenziato della pubblica quiete.

In merito, la Suprema Corte, nel ribadire, come di consueto, che nel giudizio di legittimità sono precluse la rilettura degli elementi di fatto posti alla base della decisione impugnata e l’adozione di diversi e nuovi parametri di valutazione dei fatti, coglie l’occasione per fare il punto sulle caratteristiche dell’evento di “disturbo”, elemento portante della fattispecie incriminatrice.

In particolare, secondo quanto disposto dall’art. 659, comma 1, c.p., le diverse condotte descritte dovranno dar luogo, come risultato, al turbamento del riposo pubblico e, quindi, di un numero indifferenziato di persone non rilevando il nocumento arrecato ad un singolo individuo o ad una singola famiglia.

Sul punto viene precisato all’interno della pronuncia che non è tuttavia necessario che il rumore investa un numero rilevante di persone, essendo sufficiente che quest’ultimo arrechi disturbo alla generalità di coloro che sono a diretto contatto con la fonte acustica, come gli occupanti di tutto un condominio o di una parte notevole di esso.

Si ritiene opportuno segnalare in relazione a tale statuizione che in precedenti casi analoghi a quello di specie, la Suprema Corte aveva altresì ammesso la possibilità per il Giudice di prendere in considerazione, nell’ambito della propria valutazione, anche le dimensioni dello stabile in cui si verificano i rumori, ben potendosi escludere la configurabilità del reato nel caso di condomìni con poche unità abitative[5].

Ed inoltre che, ai fini della configurabilità della fattispecie, sono insufficienti le lamentele di una o più singole persone, dato che la valutazione sull’idoneità offensiva della propagazione rumorosa deve avere come punto di riferimento la media sensibilità del gruppo sociale in cui tale fenomeno si verifica (con la conseguenza che si potrà imputare alcuna responsabilità in assenza di elementi non in grado di dare effettiva contezza del limite di tollerabilità di una pluralità di persone viventi in un medesimo contesto abitativo)[6].

In altri termini, sembra corretto affermare, alla luce dei diversi orientamenti menzionati e di quanto disposto dalla pronuncia in esame, che l’attitudine dei rumori a ledere il bene giuridico protetto, costituito dalla tutela delle occupazioni e dal riposo di un numero indeterminato di persone, costituisca la soglia minima di offensività necessaria cui il Giudice dovrà riferirsi per orientare il proprio libero convincimento, dovendo, per contro, giungere ad una pronuncia assolutoria ogniqualvolta per l’intensità dell’immissione, per la conformazione dei luoghi o per l’inesistenza della pluralità di persone potenzialmente esposte alla fonte nociva, il nocumento venga di fatto cagionato ad un solo soggetto (o comunque, interessi un numero irrisorio di destinatari potendo in tal caso gli interessati trovare tutela al più tramite l’esperimento di azioni risarcitorie in sede civile, come altresì rilevato da alcune pronunce della Suprema Corte)[7].

  1. La forma omissiva e l’obbligo giuridico gravante sul titolare di attività commerciali

L’ultimo aspetto trattato nella pronuncia, tra quelli maggiormente attinenti agli argomenti di interesse per questa sede, riguarda la configurabilità dell’ipotesi in esame anche in forma omissiva e, di conseguenza, il contenuto dell’obbligo giuridico gravante sul gestore di un esercizio pubblico.

In merito, prima di illustrare il contenuto della pronuncia, giova evidenziare come in precedenza la Suprema Corte avesse avuto modo di precisare che dalla titolarità di un esercizio commerciale derivi in capo al gestore l’obbligo di controllare che la frequentazione del locale da parte degli avventori non sfoci in condotte contrastanti con le norme dell’ordine e della tranquillità pubblica[8].

Ora, con il terzo motivo di ricorso, la difesa dava atto dell’adozione di una pluralità di cautele, da parte del proprio assistito, quali l’installazione di doppi vetri e la predisposizione di tavolini in area distante dall’abitazione della parte civile, mirate proprio ad attenuare le emissioni rumorose della clientela.

In realtà, queste ultime non erano state ritenute sufficienti, né nei precedenti gradi di giudizio, né dalla Suprema Corte in considerazione del fatto che l’obbligo giuridico gravante sul gestore di un pubblico esercizio avrebbe un contenuto più ampio, potendo di fatto l’interessato esercitare un vero e proprio controllo sulla clientela, con la possibilità di ricorrere persino allo “ius excludendi” e, nel caso, di adire anche la pubblica autorità.

Sul punto, a parere di scrive, tale principio di diritto è meritevole di essere letto e attuato solo ed esclusivamente in via coordinata con altri precedenti arresti giurisprudenziali che, se da un lato avevano confermato la sussistenza dell’obbligo giuridico in capo al gestore di un’attività commerciale, dall’altro avevano specificato, in maniera del tutto corretta, che si potrà addivenire ad una dichiarazione di responsabilità soltanto all’esito di un’adeguata verifica in sede di merito, volta ad accertare la consistenza degli spazi fruibili dagli avventori, la tipologia delle emissioni sonore e, dunque, tutte le iniziative assunte dal gestore del locale per eliminarle o almeno per contenerle.

Con la conseguenza che quest’ultimo ben potrà essere assolto qualora emerga, all’esito della fase istruttoria, la concreta attuazione di diverse cautele concretamente idonee a contenere i rumori provenienti dalla propria attività[9].

In altri termini, si ritiene che non si debba incorrere nell’errore di considerare l’obbligo soddisfatto soltanto in presenza di iniziative estreme e drastiche (quali appunto, il ricorso alla pubblica autorità) tralasciando di valutare in concreto l’attitudine di altri presidi.

Diversamente opinando si arriverebbe al paradosso di disincentivare i titolari dei locali ad effettuare investimenti ad hoc per prevenire emissioni rumorose costringendoli, di fatto, a ricorrere a comportamenti che talvolta potrebbero rivelarsi antieconomici per la propria attività.

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Morgioni

Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Giustizia Amministrativa) cliccare sul pdf allegato.

Cass. pen., sez. III, 4 febbraio 2022, n. 3952 (morgioni)

[1] In merito, Cfr. Cass. pen., Sez. I, 12 giugno 2012, n. 39852.

[2] Ne consegue, quale ulteriore differenza tra le due ipotesi sulla quale si tornerà più nel dettaglio nel prosieguo, che il reato di cui al secondo comma costituisce una fattispecie di pericolo astratto considerato che l’evento perturbante è presunto iuris et de iure, sulla base del solo esercizio irregolare della professione o del mestiere rumoroso contro le disposizioni di legge o le prescrizioni dell’autorità (sul punto, cfr. Cass. pen., Sez. I, 28 maggio 2013, n. 28874, Cass. pen., Sez. I, 17 dicembre 1998; Cass. pen., Sez. I, 23 febbraio 1998, Cass. pen., Sez. I, 15 aprile 1996, n. 6276).

[3] In particolare, come rilevato nella pronuncia, il giudice del primo grado aveva dato seguito ad indagini tecniche proprio in ragione degli esiti incerti dell’istruttoria testimoniale, che si era risolta in definitiva nella contrapposizione tra le deposizioni rese dai testi rispettivamente introdotti dalle parti.

[4] Così, Cass. pen., Sez. III, 20 aprile 2016, n. 35422; Cass., Sez. I, 6 dicembre 2006, n. 1075.

[5] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 26 giugno 2012, n. 25225.

[6] In argomento, Cass. pen., Sez. III, 5 giugno 2016, n. 25424.

[7] Sul punto Cass. pen., Sez. I, 18 ottobre 2007, n. 40502.

[8] Cfr. Cass., pen., Sez. I, 3 dicembre 2008, n. 48122; Cass. pen., Sez. I, 28 marzo 2003, Cass. pen., Sez. VI, 24 maggio 1993.

[9] Si segnala in tal senso Cass. pen., Sez. III, 18 dicembre 2014, n. 9633 per la quale il gestore di un esercizio commerciale, in capo al quale vi è un obbligo giuridico di controllare che la frequentazione del proprio locale da parte dei clienti non sfoci in condotte contrastanti con le norme sulla pubblica sicurezza, non può essere ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 659, comma 1, c.p. per i rumori molesti fuori dal proprio locale, allorquando abbia posto in essere quanto gli è possibile per evitare che gli avventori disturbino la quiete pubblica e ciò faccia, per esempio, avvisandoli mediante apposito cartello, posto all’esterno del locale, oppure tramite avvisi personali ai clienti.

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