Soltanto l’effettiva compromissione delle bellezze naturali costituisce un’alterazione penalmente rilevante ai sensi dell’art. 734 c.p.

26 Lug 2021 | giurisprudenza, penale

Di Vincenzo Morgioni

Corte di Cassazione, Sez. III – 15 dicembre 2020 (dep. 27 aprile 2021), n. 15670 – Pres. Ramacci, Est. Macrì – ric. Briso.

Il reato di distruzione o deturpamento delle bellezze naturali di cui all’art. 734 c.p., considerata la sua natura di reato di danno, si configura soltanto in presenza di un’effettiva compromissione delle bellezze protette, il cui accertamento è rimesso alla concreta valutazione del giudice penale.

  1. Il caso di specie.

Sulla fattispecie contravvenzionale di distruzione o deturpamento delle bellezze naturali di cui all’art. 734 c.p. si è sviluppata nel corso degli anni una casistica molto variegata di procedimenti, costellata da pronunce che progressivamente hanno modellato la struttura e i confini di tale ipotesi di reato[1].

Nello stesso senso, la sentenza in commento verte su uno degli aspetti più problematici e dibattuti di tale disposizione ovvero sul concetto di “alterazione” di bellezze naturali che, unitamente al termine “distruzione” contribuisce a delineare l’evento naturalistico del reato.

Segnatamente, la decisione del Supremo Consesso prendeva le mosse dal ricorso depositato dall’imputato avverso la sentenza resa dalla Corte d’Appello di Palermo che, confermando il giudizio di primo grado, lo aveva ritenuto responsabile, tra l’altro, della fattispecie in esame in quanto erano stati realizzati lavori di livellamento e di pulizia del terreno considerati tali da alterare il paesaggio circostante compromettendone la bellezza.

Il ricorrente, per quanto di interesse in questa sede, eccepiva la violazione di legge e il vizio di motivazione anche in ordine al reato di cui all’ 734 c.p., assumendo non solo che la sentenza non avesse dato indicazioni sul danno e sulle modalità attraverso le quali si sarebbe realizzata la condotta, ma altresì lamentando che, ai fini della configurabilità dell’ipotesi in esame, sarebbe stato necessario un effettivo deturpamento dell’area protetta, del tutto mancante nel caso di specie.

In accoglimento di tale motivo (l’unico tra quelli dedotti dal ricorrente a trovare l’avallo del Supremo Consesso), la Suprema Corte ribadiva l’insegnamento secondo il quale “la contravvenzione di cui all’art. 734 c.p., stante la sua natura di reato di danno, è configurabile [soltanto] in presenza di un’effettiva compromissione delle bellezze protette, il cui accertamento è rimesso alla concreta valutazione del giudice penale”.

In particolare, in considerazione dell’interesse protetto dalla fattispecie da individuarsi nella conservazione e nel godimento “del patrimonio estetico costituito dall’armonica fusione di forme e colori assunta dalla natura in particolari località”, l’organo giudicante, chiamato a valutare la configurabilità del reato di cui all’art. 734 c.p., avrebbe dovuto accertare la sussistenza di una effettiva modifica “totale o parziale delle visioni panoramiche ed estetiche offerte dalla natura”.

Diversamente, secondo quanto riportato nella pronuncia, “il Giudice di primo grado aveva reso una motivazione laconica affermando che, a seguito dei lavori di livellamento e di pulizia del terreno, vi era stata l’alterazione del paesaggio e la distruzione dell’habitat naturale”; invece “la Corte territoriale, nonostante lo specifico motivo di appello, si è limitata a citare la sentenza di questa Sezione n. 1803 del 1981 relativa allo sbancamento e al livellamento di terreno collinare in zona sottoposta a vincolo, per la sola contravvenzione dell’art. 734 c. p.”, con la conseguenza che la sentenza impugnata avrebbe dovuto essere annullata, nella prospettiva della Suprema Corte, per insufficiente motivazione[2].

  1. Gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 734 c.p. – I presupposti e la condotta penalmente rilevante.

Una volta ripercorsi i tratti salienti della decisione oggetto di commento, vale la pena, al fine di valorizzare al meglio le tematiche affrontate dalla Suprema Corte, inquadrare gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 734 c.p., ipotesi di natura contravvenzionale che si inserisce, sia pur in senso lato attesa la peculiare posizione all’interno del codice, nella pletora di disposizioni di natura penale poste a tutela dell’ambiente.

Collocata nel Libro III, Titolo II del codice penale, tale figura, rientrando nel quartetto delle contravvenzioni introdotte a tutela della cosiddetta attività sociale della Pubblica Amministrazione, mira a proteggere da condotte di distruzione e deturpamento il patrimonio ambientale e le bellezze naturali che siano stati sottoposti a vincolo paesaggistico. E realizza – o quantomeno, aspirerebbe a raggiungere – tale risultato sanzionando con ammenda chiunque, mediante costruzioni, demolizioni, o in qualsiasi altro modo, dovesse distruggere o alterare le bellezze naturali dei luoghi soggetti alla speciale protezione dell’Autorità.

Mentre l’elemento soggettivo risulta essere piuttosto lineare, in considerazione della natura di contravvenzione punibile quindi a titolo di colpa o di dolo, del tutto articolato e maggiormente meritevole di attenzione – atteso il tema della pronuncia in commento – è certamente l’elemento oggettivo, dal quale è possibile trarre diversi spunti di riflessione.

Innanzitutto, costituisce presupposto essenziale ai fini della sussistenza del reato in esame, la sottoposizione dell’area oggetto di distruzione o di alterazione alla speciale protezione della Pubblica Autorità, il che impone una lettura coordinata della norma con le disposizioni del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, meglio noto come Codice dei Beni Culturali, ove sono positivizzati i criteri per la determinazione delle aree di interesse paesaggistico.

Quanto alla condotta, il legislatore, dopo aver precisato che quest’ultima può estrinsecarsi nella costruzione o demolizione di un’opera, chiude l’elenco dei comportamenti rilevanti con una clausola dai contorni molto ampi (“in qualsiasi altro modo”) che rende di fatto il reato a forma libera e, quindi, integrabile da qualsiasi atteggiamento, commissivo od omissivo, che abbia l’effetto di alterare o distruggere il bene oggetto di tutela.

  1. Gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 734 c.p. – L’evento naturalistico.

Per quel che concerne, invece, l’evento di cui all’art. 734 c.p., questo è costituito, come noto, dalla distruzione o dall’alterazione delle bellezze naturali, intendendosi con la prima accezione, come è facile intuire, la soppressione del bene oggetto di intervento.

Più complessa, invece, risulta essere la delimitazione del concetto di alterazione – vero punto di interesse della pronuncia in esame – anche in virtù di una giurisprudenza di legittimità che nel corso del tempo, a parere dello scrivente, ha reso tale aspetto della norma sfuggente, arrivando ad attribuire rilevanza anche a modifiche parziali e non irreversibili[3].

Al fine di arginare, dunque, questa tendenza ad estendere il dato normativo, parrebbe doverosa una interpretazione che tenga conto non solo della rubrica della norma – ove si fa espresso riferimento al deturpamento e quindi all’idea di modifiche in senso peggiorativo dell’ambiente circostante; ma altresì di quell’orientamento giurisprudenziale – cui la sentenza in commento si adegua – che, facendo leva sulla natura di reato di danno dell’art. 734 c.p., subordina la configurabilità di quest’ultimo alla sussistenza di un pregiudizio concreto e tangibile alle bellezze naturali che dovrà scrupolosamente essere accertato dall’organo giudicante.

Si tratterebbe, nel complesso, di una lettura di tale figura in linea con il principio di offensività della norma penale che esige un giudizio di responsabilità volto a verificare la sussistenza di un’effettiva lesione del bene giuridico protetto dalla norma.

Tuttavia, se da un lato la lettura suggerita porrebbe al riparo la norma in esame da censure sotto il profilo dell’offensività, dall’altro permarrebbero alcune criticità sulla determinatezza e sulla precisione del dato testuale.

In altri termini si ritiene che il riferimento alla mera “alterazione” non sembri essere in grado di orientare a priori e con certezza il comportamento dei consociati, destinatari del precetto penale;

con la conseguenza che, a fronte di un intervento o di un’attività volta ad impattare su luoghi protetti o bellezze naturali – ancorché, come si vedrà, oggetto di autorizzazione da parte della Pubblica Autorità –, risulterà sempre latente il rischio di essere sottoposti a procedimento penale, con tutte le conseguenze che ne possono derivare.

Del resto, la ragione principale di tale problematica, come è stato acutamente rilevato, va ricercata nel fatto che “sia la misura dell’alterazione, sia il grado di reversibilità e, comunque, di permanenza della stessa rispetto alle «bellezze naturali dei luoghi» risultano criteri inevitabilmente condizionati da valutazioni soggettive e, nondimeno, destinati a incidere sull’effettiva ravvisabilità del reato” [4].

  1. Gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 734 c.p. – La rilevanza dell’autorizzazione amministrativa.

Come anticipato, alla luce di una breve analisi della giurisprudenza di legittimità formatasi sull’art. 734 c.p., sembrerebbe che neanche il rilascio da parte della Pubblica Amministrazione dell’autorizzazione ad intervenire sulle bellezze naturali oggetto di protezione sia in grado a priori di tenere esente il privato cittadino da contestazioni per il reato in esame, attesa la diversità di orientamenti sviluppatasi sul tema.

Problema non certo di poco conto e destinato a concretizzarsi maggiormente nell’ambito delle attività produttive ad elevato impatto ambientale il cui esercizio è generalmente subordinato al rilascio di apposito nulla osta amministrativo.

In particolare, secondo un primo filone, l’autorizzazione sarebbe ininfluente per quel che concerne l’elemento oggettivo del reato, sicché qualora l’evento di alterazione o distruzione si dovesse verificare, a nulla varrebbe l’avallo ricevuto dalla Pubblica Amministrazione all’esecuzione dell’opera o allo svolgimento dell’attività[5].

Questa prima tesi si fonda sul fatto che il Giudice penale, notoriamente, godrebbe di una propria discrezionalità valutativa del tutto autonoma rispetto all’attività amministrativa e che verrebbe esercitata in un momento successivo al rilascio dell’autorizzazione, ove occorrerà decidere non sull’idoneità astratta dell’intervento a non deturpare le bellezze naturali, quanto se l’opera, una volta realizzata, abbia o meno integrato l’offesa descritta dal 734 c.p.

A tale orientamento si è contrapposta un’altra tesi, sia pur sostenuta da pronunce molto risalenti nel tempo e prive di seguito nei tempi più recenti, per la quale il nulla osta fungerebbe da scriminante in quanto, di fatto, in grado di ridisegnare i confini della norma. In altri termini, la Pubblica Amministrazione interverrebbe non solo in una fase genetica di apposizione del vincolo paesaggistico, quanto anche nella gestione di quest’ultimo attraverso il rilascio dei permessi a intervenire, che di fatto consentirebbero di attribuire un carattere di liceità alle attività oggetto di autorizzazione[6].

Completa il quadro sinora delineato l’ultima soluzione interpretativa, a cavallo tra le due sopra prospettate, tendente a valorizzare il provvedimento della Pubblica Autorità sul piano dell’elemento psicologico.

Segnatamente, ferma restando la facoltà del giudice di vagliare, anche in presenza del nulla osta, la sussistenza del concreto verificarsi degli eventi naturalistici descritti dall’art. 734 c.p., l’autorizzazione sarebbe in grado di porre in discussione la colpevolezza del soggetto agente, dal momento che quest’ultimo avrebbe potuto – in maniera del tutto ragionevole – fare affidamento sulle valutazioni e sull’attività svolta dall’amministrazione[7].

Invero, tra le soluzioni che tutt’oggi continuano a spartirsi il panorama giurisprudenziale, quest’ultima appare essere la più ragionevole, in quanto non solo in grado di non snaturare completamente la valenza del provvedimento amministrativo, ma altresì di imporre all’organo giudicante un serio ed approfondito giudizio sulla consapevolezza dell’illiceità del fatto da parte del soggetto agente.

  1. Conclusioni.

Una volta presa contezza delle diverse criticità che caratterizzano la disposizione di cui all’art. 734 c.p., risulterà più agevole condividere la decisione assunta dalla Suprema Corte che, rimarcando la natura del reato di danno della contravvenzione in esame, ha certamente fornito una lettura del dato normativo conforme ai principi fondamentali del diritto penale.

Difatti, invitare l’organo giudicante ad una seria analisi degli elementi costitutivi della fattispecie e ad un’attenta valutazione dell’effettiva compromissione delle bellezze naturali significa, in altri termini, dare concreta e corretta applicazione al principio di offensività della norma per il quale non vi può essere reato senza offesa al bene giuridico.

Non diversamente può dirsi – sia pur con riguardo ad un tema non oggetto di attenzione della sentenza in commento – in relazione all’orientamento espresso dal Supremo Consesso circa la valenza del nulla osta amministrativo sul piano dell’elemento psicologico del reato, in grado, dal canto proprio, di imporre un serio approfondimento dell’effettiva colpevolezza del soggetto agente, aspetto spesso trascurato in sede decisionale.

Tuttavia, si rileva come in entrambi casi si tratti pur sempre di pronunce di natura quasi “ortopedica” che riescono, come argomentato, soltanto in parte a correggere le storture di una fattispecie tutt’altro che residuale nel panorama della normativa ambientale.

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V Morgioni – luglio 2021

Per il testo della sentenza (estratto dal sito della Corte di Cassazione)cliccare sul pdf allegato

Cass. III, 15670_2021 (Morgioni)

Note

[1] Basta scorrere le diverse pronunce di legittimità che hanno preceduto quella in esame per rendersi immediatamente conto della eterogeneità dei casi in cui il reato in esame è stato oggetto di contestazione. In particolare, senza alcuna pretesa di esaustività, si evidenzia come la casistica vada, per quel che concerne le condotte attive, dalle pratiche di deforestazione e sradicamento di fusti secolari (Cass. pen., Sez. III, 28 maggio 2004, n. 29483), all’installazione di apparati satellitari su edifici di interesse storico – culturale (Cass. pen., Sez. III, 6 giugno 1990, n. 923), dai ripetuti scarichi in area fluviale che hanno provocato la morte di specie ittiche (Cass. pen., Sez. II, 19 settembre 1990, n. 3852), allo sbancamento di una collina (Cass. pen., Sez. II, 7 dicembre 1958, n. 3817). Per quel che concerne la forma omissiva, appaiono meritevoli di menzione i casi in cui pubblici funzionari sono stati ritenuti responsabili ai sensi dell’art. 734 c.p. per non aver adottato provvedimenti amministrativi di loro competenza idonei ad evitare il deturpamento di aree vincolate (Cass. pen., Sez. III, 4 luglio 1995, n. 9233; Cass. pen., Sez. VI, 11 aprile 1980, n. 7652).

[2] Il condizionale è d’obbligo atteso che la Suprema Corte, nel caso in esame, ha ritenuto tale “epilogo decisorio precluso dall’assorbente circostanza dell’intervenuta estinzione dei reati per prescrizione”.

[3] Sulla rilevanza di una modificazione anche solo parziale e reversibile si veda di recente si veda Cass. pen., Sez. III, 4 aprile 2019, n. 29508. Sono certamente meritevoli di essere segnalate altresì Cass. pen., Sez. 3, 17 settembre 2014, n. 48004, per la quale “la contravvenzione di cui all’art. 734 cod. pen., in quanto reato “a forma libera”, è integrata da qualsiasi condotta, commissiva od omissiva, dolosa o colposa, che distrugga o alteri le bellezze naturali” e Cass. pen., Sez. III, 5 dicembre 1968, n. 1700 ove si afferma che “ai sensi dell’art.734 cod. pen. l’alterazione deve essere considerata non soltanto in senso naturalistico, cioè come sostituzione arbitraria e modificazione di una situazione preesistente, ma anche in senso giuridico, per l’arbitraria trasformazione di un interesse, che attiene alla comunità sociale destinataria del bene tutelato”.

[4] C. Parodi, Illeciti ambientali e deturpamento di bellezze naturali, in Ambient e sicurezza, XVI, 2013, p. 71.

[5] Così, Cass. pen., Sez. III, 1 ottobre 1998, n. 1773; Cass. pen., Sez. VI, 22 marzo 2004, n. 32125; Cass. pen., sez. III 3 marzo 2004, 15299; Cass. pen., Sez. III, 24 settembre 2015, n.44012.

[6] Cass. pen., Sez. III, 6 febbraio 1996, 3125; Cass. pen., Sez. I, 14 marzo 1988, n. 8974; Cass. pen., Sez. III, 10 febbraio 1987, n. 5257.

[7] Così, Cass. pen., Sez. III, 24 settembre 2015, n. 44012; Cass. pen., Sez. III, 17 giugno 2010, n. 34205; Cass. pen., Sez. IV, 29 marzo 2005, n. 32152; Cass. pen., Sez. III, 3 marzo 2004, 15299.

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