Residui di materie plastiche: finalmente una chiara apertura al riutilizzo

01 Mag 2022 | giurisprudenza, amministrativo

di Emanuele Pomini

CONSIGLIO DI STATO, Sez. VII – 24 febbraio 2022, n. 1336 – Pres. Lipari, Est. Morgantini – Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (Avvocatura Generale dello Stato) c. F.P. S.r.l. (avv.ti E. Sprano, A. Sala)

Sono da qualificare come “sottoprodotti” ai sensi dell’art. 183-ter del D.Lgs. 152/2006, e non come rifiuti, gli scarti di lavorazione costituiti da materiale plastico (nella specie, sfridi di poliuretano termoplastico derivanti da attività di stampaggio a caldo) laddove le informazioni contenute nella scheda tecnica del prodotto circa le sue caratteristiche (poi certificate da analisi di laboratorio) e il relativo ciclo di produzione (caratterizzato dalla presenza di appositi macchinari “granulatori” per la macinazione meccanica degli scarti), unitamente a tutta la documentazione contrattuale (contratto di acquisto, bonifico e fattura), appaiono univoci e adeguati nel supportare una valutazione prognostica circa il successivo utilizzo del prodotto come materia prima secondaria.

Il riutilizzo di residui di produzione di materiale plastico rappresenta senza dubbio una pratica rilevante nell’ottica dell’economia circolare, sia per le caratteristiche intrinseche al tipo di produzione – tali processi generano infatti un quantitativo continuo di scarti (a vario titolo) di materia – sia per la facilità e la duttilità del loro reimpiego nello stesso o in ulteriori cicli di produzione. Del pari, le autorità di controllo e la stessa giurisprudenza hanno sempre trattato con una certa diffidenza la prassi di qualificare tali materiali come “sottoprodotti”, in quanto, per tale via, essi vengono sottratti alle garanzie derivanti da una loro gestione in conformità alla normativa sui rifiuti.

Effettivamente, le decisioni della Suprema Corte aventi a oggetto la gestione a vario titolo di materiale plastico di scarto si sono spesso risolte in una negazione della sua qualifica come sottoprodottoi. Tuttavia, ad un’attenta disamina delle decisioni (peraltro non sempre condivisibili) si può notare come le fattispecie sottoposte al vaglio dei giudici di legittimità si caratterizzino per aver in certi casi avuto ad oggetto tentativi un po’ improvvisati di qualificazione del materiale plastico come sottoprodotto, piuttosto che il frutto di una scelta ragionata ex ante di gestire in modo accurato il materiale in conformità a quanto richiesto dall’art. 184-bis del D.Lgs. 152/2006 (recante la definizione di sottoprodotto). Del resto, la gestione dei materiali plastici di risulta come sottoprodotto interessa non solo tipologie di scarti di chiara attinenza al processo produttivo (come ad es. quelli del caso di specie, ossia scarti di produzione derivanti dalle attività di stampaggio a caldo), aggiungendosene ad esse altre di più incerta classificazione (che però non sono state oggetto della decisione in commento): si pensi a tutto il tema dei prodotti che nascono difettosi o che comunque, per svariati motivi, non superano i controlli di qualità o non risultano idonei all’uso per il quale sono stati realizzati o, ancora, agli scarti di materiale plastico per effetto di pose in opera o altre ipotesi simili in cui comunque i materiali di scarto non sono immediatamente originati nel processo produttivo, inteso come l’insieme delle operazioni che hanno dato origine a un prodotto, ma, ciò nonostante, possiedono qualità idonee al loro impiego diretto in altri cicli produttivi.

Se dieci, o anche solo cinque anni fa, potevano essere maggiormente condivise le decisioni volte a dare lettura in un certo senso più garantista della qualificazione di una sostanza o un oggetto come sottoprodotto, in ossequio al principio di prevenzione, oggi non si può che convenire con il pensiero di chi sostiene doversi procedere a un necessario contemperamento di tale principio con altre esigenze – altrettanto importanti e prioritarie nell’agenda dello stesso legislatore comunitario (e di riflesso anche di quello nazionale) – dirette a favorire tutte le iniziative utili alla transizione verso l’economia circolareii; obiettivo che ben si può raggiungere anche prevenendo la produzione di rifiuti e, quindi, attraverso la valorizzazione del riutilizzo dei residui di produzione in un settore rilevante come quello delle materie plastiche.

Ed è proprio in questo senso che sembra potersi leggere la decisione in commento, attraverso la quale il Consiglio di Stato, nel respingere il gravame avanzato dall’autorità di controllo nei confronti della decisione di primo gradoiii che aveva dichiarato l’illegittimità del proprio provvedimento, ha confermato la correttezza dell’operato dei giudici di prima istanza, che avevano valorizzato quanto più possibile, e in modo del tutto condivisibile, gli sforzi profusi ex ante dall’azienda nel predisporre un’accurata gestione degli residui/scarti di produzione al fine di assicurare il rispetto delle condizioni poste dall’art. 184-bis per poter qualificare e gestire i residui e scarti di materiale plastico dalla stessa prodotti (e potenzialmente rifiuti) come sottoprodotti. È quindi utile passare brevemente in rassegna il caso di specie per capire quali sono gli elementi ritenuti decisivi dai giudici amministrativi al fine di confermare la legittimità dell’operato dell’azienda (anche) in un’ottica di valorizzazione dei principi dell’economia circolare.

In particolare, mediante la sentenza appellata era stato accolto il ricorso avverso il provvedimento della sezione antifrode e controlli dell’Ufficio delle Dogane con cui l’autorità, a seguito di un controllo e riclassificazione come rifiuto di merce costituita da sfridi di materiale plastico (residui degli stampi), che venivano gestititi e commercializzati come sottoprodotto destinato all’esportazione, ne aveva imposto lo smaltimento in impianto autorizzato. Il ricorso era stato presentato da un’azienda svolgente attività di stampe di materie plastiche e per calzature tramite iniezione utilizzando come materia prima il poliuretano termoplastico denominato Apilon, dal cui processo produttivo originano scarti di materiale plastico (sfridi) che vengono sottoposti a macinazione tramite macchinari appositamente acquistati (c.d. granulatori) e reimmessi sul mercato come sottoprodotti, dal momento che l’elevato standard qualitativo richiesto dalla propria clientela (moda c.d. di lusso) non consente all’azienda il loro riutilizzo diretto nel proprio ciclo produttivo. Il provvedimento dell’autorità era stato motivato dal sospetto che i residui in questione, pur essendone chiara la provenienza da un processo produttivo e nonostante l’esito positivo delle analisi effettuate dal laboratorio dell’ufficio Antifrode, che ne avevano confermato la natura e la qualità di sfrido di lavorazione di sola materia termoplastica, non venissero poi effettivamente reimpiegati in un successivo processo produttivo, dal momento che la merce veniva venduta a una società straniera (Hong Kong) esercente la sola attività commerciale di intermediazione (“general trading”) e non invece attività produttiva (né erano stati forniti dal ricorrente i dati dell’azienda che li avrebbe poi effettivamente utilizzati); da ciò ne sarebbe conseguita, a giudizio dell’autorità, l’indeterminatezza circa l’utilizzatore finale della merce e il venir meno del requisito della “certezza” del riutilizzo in altro processo produttivo richiesta dall’art. 184-bis del D.Lgs. 152/2006.

Il Consiglio di Stato, investito del gravame avverso la sentenza di primo grado, ha tuttavia condiviso la decisione dei giudici di prima istanza, secondo i quali, se l’attività di natura prettamente commerciale e di intermediazione poteva inizialmente giustificare qualche dubbio sull’effettiva natura della merce in questione, tuttavia tale circostanza non può di per sé sola costituire motivo determinante per riqualificare degli scarti di lavorazione come rifiuto, dovendosi altresì considerare i numerosi elementi offerti dal produttore degli scarti in senso opposto. In particolare, è stata data importanza decisiva alle modalità di gestione del sottoprodotto sin dalla sua origine, che l’azienda è stata in grado di dimostrare in quanto frutto di una precisa scelta aziendale e non di un improvvisato tentativo di mascherare una gestione illecita di rifiuti. Infatti, non solo le analisi chimiche svolte in esito al controllo da parte dell’autorità hanno dimostrato e confermato la qualità del sottoprodotto dal punto di vista materiale, ma sono stati altresì valutati (in quanto allegati e dimostrati dal ricorrente):

  1. i) la creazione e l’utilizzo di un’apposita scheda tecnica di accompagnamento del sottoprodotto contenente informazioni rivelatesi corrette ed esaustive circa le caratteristiche del materiale e del ciclo di produzione;
  2. ii) l’implementazione in stabilimento di un sistema di macinazione degli sfridi onde renderli compatibili con le caratteristiche di impiego richieste per il successivo riutilizzo (acquisto di appositi macchinari granulatori);

iii) la sussistenza di un contratto di acquisto del materiale con l’acquirente, nonché di fatture e di documentazione bancaria attestante l’effettivo pagamento dei corrispettivi concordati;

  1. iv) la sussistenza di un solido mercato della tipologia di sottoprodotto in questione (poliuretano termoplastico).

Il concorso di tutti questi elementi costituisce senz’altro indice univoco e adeguato per permettere una valutazione prognostica positiva circa il successivo ed effettivo riutilizzo degli scarti di produzione come sottoprodotto, e quindi della dimostrazione del requisito della certezza di cui all’art. 184-bis del D.Lgs. 152/2006iv, anche ove il primo destinatario sia, come nel caso di specie, una società commerciale di intermediazione e il produttore non sia a conoscenza di quale sarà poi in concreto il soggetto destinatario finale della merce; circostanza, quest’ultima, peraltro non infrequente nel contesto del commercio internazionale, dove i rapporti commerciali tra Paesi molto distanti tra loro, non solo geograficamente ma anche culturalmente, sono spesso facilitati o addirittura  resi possibili solo grazie all’attività di intermediari che facilitano l’incontro tra domanda e offerta. Del resto, ciò appare in linea con quanto precisato dal D.M. n. 264/2016 (recante i criteri indicativi per dimostrare la sussistenza dei requisiti di sottoprodotto), il cui art. 5 prevede che “il produttore ed il detentore assicurano, ciascuno per quanto di propria competenza, l’organizzazione e la continuità di un sistema di gestione (…) che, per tempi e per modalità, consente l’identificazione e l’utilizzazione effettiva del sottoprodotto”, aggiungendosi al successivo art. 8, comma 4, che “la responsabilità del produttore o del cessionario in relazione alla gestione del sottoprodotto è limitata alle fasi precedenti alla consegna dello stesso all’utilizzatore o a un intermediario”.

Non resta quindi che auspicare, da parte non solo della giurisprudenza, ma anche in primis delle autorità di controllo, un’applicazione sempre più convinta e diffusa dell’orientamento fatto proprio dal Consiglio di Stato nel caso di specie, attraverso il quale sembra infatti possibile valutare con minor diffidenza (ma sempre con il giusto rigore) le molteplici situazioni in cui originano e sono gestiti i materiali plastici di scarto passibili di successivo riutilizzo, nel pur non sempre agevole contemperamento tra le note esigenze di tutela dell’ambiente e le nuove esigenze dettate dai principi dell’economia circolare, tra cui la prevenzione della produzione di rifiuti.

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Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Giustizia Amministrativa) cliccare sul pdf allegato.

Cons. Stato 1336_2022

i Cfr.: Cass. pen., Sez. III, 16 maggio 2012, n. 25203, in Riv. pen., 2012, p. 1117 (fattispecie relativa a imballaggi in plastica che, in quanto sottoposti ad apposito procedimento di triturazione, non sono stati ritenuti assoggettabili alla disciplina delle materie prime secondarie o dei sottoprodotti, ma costituiscono rifiuti); Cass. pen., Sez. III, 7 febbraio 2013, n. 20886 (fattispecie relativa a rocche di plastica di tessitura che, in quanto sottoposte, successivamente al processo produttivo, ad operazione di separazione del materiale plastico dal filato, sono state escluse dall’ambito dei sottoprodotti e qualificate come rifiuto); Cass. pen., Sez. III, 4 giugno 2015, n. 40109, in Foro it., 2016, 1, II, 15 (fattispecie relativa a sfridi e residui di plastica e PVC ricevuti in conto lavorazione per essere sottoposti a macinazione a freddo e frantumazione, ma conferiti dal committente come rifiuti e, solo per tale motivo, sottratti alla possibilità di essere poi gestiti come sottoprodotto); Cass. pen., Sez. III, 3 settembre 2018, n. 39400, in AS, 2018, p. 763 (fattispecie relativa a materiale plastico che, non essendo costituito da residui ma da scarti di produzione e dovendo essere sottoposto a ulteriore trattamento al fine di diventare materiale tessile (pile), con conseguente perdita delle originarie caratteristiche merceologiche e di qualità ambientali, non è stato ritenuto qualificabile come sottoprodotto, bensì solamente come rifiuto); Cass. pen., Sez. III, 8 giugno 2021, n. 22313, in questa Rivista, n. 23/2021 (fattispecie relativa a scarti da lavorazione in polietilene e lastre di plastica sottoposti a operazioni di riduzione volumetrica mediante triturazione, come tali qualificati come rifiuti e non come sottoprodotti).

ii Cfr., in questo senso, F. Peres, Per la qualifica di sottoprodotto sono necessari l’assenza di trattamento e la certezza del riutilizzo, in questa Rivista, n. 23/2021.

iii Ossia T.A.R. Liguria, 23 marzo 2021, n. 253.

iv Come precisato nella circolare del Ministero della Transizione Ecologica del 30 maggio 2017, n. 7619 “deve essere chiarito come la certezza dell’utilizzo possa venire dimostrata tramite indici rivelatori che – soprattutto in concorso tra loro – siano in grado rendere affidabile una valutazione prognostica circa il prodursi di un evento futuro, consistente nel successivo utilizzo” (par. 6.3).

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