Protezione di habitat e specie di interesse comunitario: riflessioni sull’adeguatezza delle misure da adottare e sui rimedi ad un’amministrazione inadempiente

01 Lug 2024 | giurisprudenza, amministrativo

Consiglio di Stato, Sez. VI – 30 aprile 2024, n. 3945

Nel caso di accertato stato di degrado di un sito di interesse comunitario/zona speciale di conservazione, a seguito di un’istanza-diffida per l’adozione di misure per evitare tale degrado da parte degli enti esponenziali di interessi legittimi collettivi relativi alla tutela dell’ambiente, le amministrazioni competenti hanno l’obbligo di provvedere, anche ai sensi dell’art. 6, paragrafo 2 della direttiva habitat, all’adozione di autonome e ulteriori “opportune misure”. Pertanto, non possono limitarsi a documentare l’adozione di provvedimenti contenenti misure di conservazione, ma debbono dimostrare di aver adottato atti contenenti misure “proattive” e “opportune”, ovvero “non formali” e, dunque, “effettive” “efficaci” e “adeguate”, con effetti misurabili, tali da invertire efficacemente il trend attuale, e quindi specificamente indirizzate a prevenire e contrastare il progressivo deterioramento del sito, ovvero ad assicurare il ripristino delle caratteristiche ecologiche esistenti al momento della sua designazione quale sito di importanza comunitaria. Nel caso di mancata risposta nei sopra indicati termini è ammessa ed è fondata l’azione avverso il silenzio inadempimento ex art. 117 c.p.a. Il contenuto delle misure di prevenzione e di contrasto al degrado degli habitat protetti è di natura tecnico-discrezionale, ma la previsione contenuta nell’art. 6, paragrafo 2 della direttiva habitat, circa la necessità che le misure siano “opportune”, ovvero efficaci e adeguate, riduce il margine discrezionale degli Stati membri e limiti a le eventuali facoltà regolamentari o decisionali delle autorità nazionali alla individuazione dei mezzi da impiegare e alle scelte tecniche da operare nell’ambito delle dette “opportune misure”. L’adeguatezza delle misure e, quindi, l’efficacia dell’adempimento, dovrà essere misurata in concreto, ex post, in termini di effettiva riduzione dei fenomeni indicatori del degrado.

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La sentenza in commento rappresenta un importante punto d’approdo giurisprudenziale, in quanto individua gli obblighi delle pubbliche amministrazioni derivanti dall’applicazione dell’articolo 6, paragrafo 2, della direttiva 92/43/CEE (“Direttiva Habitat”).

Tale direttiva, nello specifico, ha lo scopo di “contribuire a salvaguardare la biodiversità mediante la conservazione degli habitat naturali, nonché della flora e della fauna selvatiche nel territorio europeo degli Stati membri”.

A tal fine, è richiesto agli Stati membri di adottare misure volte a mantenere, o ripristinare, gli habitat e le specie individuate “in uno stato di conservazione soddisfacente”, tenendo comunque in considerazione “le esigenze economiche, sociali e culturali, nonché le particolarità regionali e locali”.

Il tipo di strumento giuridico utilizzato – la direttiva – ha fatto sì che gli Stati membri fossero vincolati solamente al risultato ultimo da raggiungere (i.e., salvaguardare la biodiversità), ben godendo di ampio margine discrezionale circa la forma e i metodi di conseguimento di tale risultato.

Nell’ordinamento italiano, quindi, la direttiva Habitat è stata recepita, seppur con qualche anno di ritardo, mediante l’adozione del Decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357.

In tale quadro normativo si colloca il caso in questione, in cui, nello specifico, la pubblica amministrazione, contrariamente a quanto previsto dalla direttiva, non ha posto in essere le “opportune misure” volte a tutelare l’habitat e le specie protette, ma si è limitata unicamente a rilevare lo stato di degrado.

Senonché, l’articolo 6, paragrafo 2, della Direttiva Habitat prevede che “Gli Stati membri adottano le opportune misure per evitare nelle zone speciali di conservazione il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione delle specie per cui le zone sono state designate, nella misura in cui tale perturbazione potrebbe avere conseguenze significative per quanto riguarda gli obiettivi della presente direttiva”.

Il paragrafo 2 – in piena attuazione del principio di prevenzione – pone in capo agli Stati membri un’obbligazione di risultato, atteso che la protezione dei siti e delle specie dal degrado deve essere effettiva, efficacie, adeguata e misurabile nei risultati. Il rispetto dei parametri di efficacia e adeguatezza, quindi, sarà riscontrabile solo a seguito di una verifica ex post, volta a misurare in concreto la riduzione e il contrasto dei fenomeni degradanti.

Inoltre, come anche riportato dai giudici di Palazzo Spada, il campo di applicazione dell’articolo 6, paragrafo 2, è ben più amplio rispetto alle altre ipotesi previste negli altri paragrafi dello stesso articolo[i], ricomprendendo, di fatto, anche il degrado derivante da eventi naturali e/o fortuiti (come ad esempio incendi o inondazioni), nella misura in cui essi sono prevedibili (i.e., se tendono a verificarsi ogni pochi anni)[ii].

Le pubbliche amministrazioni, quindi, per rispettare l’obbligo di protezione dei siti e delle specie, dovranno considerare anche il degrado derivante dalle dinamiche legate ai cambiamenti climatici.

Da quanto precede, poi, consegue anche un’ulteriore considerazione, opportunamente riportata dal Consiglio di Stato.

Infatti, nonostante il contenuto delle misure di prevenzione adottate dalle pubbliche amministrazioni sia di natura tecnico-discrezionale, il carattere di adeguatezza richiesto dalla disposizione in questione riduce e limita il potere di scelta delle pubbliche amministrazioni alle sole misure che garantiscano, in concreto, un’effettiva riduzione dei fenomeni di degrado.

Una volta accertata l’esistenza di uno stato di degrado in un Sito di Interesse Comunitario o in una Zona Speciale di Conservazione, quindi, occorre verificare che l’amministrazione competente abbia provveduto, ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 2, all’adozione di “opportune misure”, ossia misure in grado di fronteggiare le situazioni di degrado e, per quanto possibile, ripristinare le condizioni di habitat naturale.

Se, come nel caso di specie, l’amministrazione non adempie, allora è possibile che i privati avanzino diffide e siano legittimati ad avviare anche le necessarie azioni giudiziarie. Infatti, nel caso in cui le amministrazioni competenti non riscontrino le istanze, ovvero implementi misure non idonee ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 2, i privati potranno presentare adire il giudice amministrativo.

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Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Giustizia Amministrativa) cliccare sul pdf allegato.

NOTE:

[i] In estrema sintesi, si riporta che l’articolo 6 della Direttiva Habitat si compone di 4 paragrafi, due di carattere più generico (paragrafi 1 e 2), e due di carattere più puntuale e specifico (paragrafi 3 e 4). Il paragrafo 1 tratta dell’introduzione delle necessarie misure di conservazione ed è incentrato su interventi positivi e proattivi volti a mantenere in uno stato soddisfacente gli habitat naturali e le popolazioni di specie e fauna. Il paragrafo 2, come ampiamente esaminato supra, contiene disposizioni intese ad evitare il degrado degli habitat e la perturbazione significativa delle specie. I paragrafi 3 e 4, invece, stabiliscono una serie di salvaguardie procedurali e sostanziali che disciplinano piani e progetti atti ad avere incidenze significative su un sito Natura 2000.

[ii] Sul punto, si veda la giurisprudenza della Corte di Giustizia, in particolare: Causa C-6/04, punto 34 “ai fini dell’attuazione dell’articolo 6, n.2, della direttiva habitat, può essere necessario adottare sia misure dirette ad ovviare ai danni e alle perturbazioni provenienti dall’esterno e causati dall’uomo, sia misure per neutralizzare evoluzioni naturali che potrebbero comportare un degrado dello stato di conservazione delle specie e degli habitat delle SCS”; causa C

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