Precauzione…ma non troppo: la Corte di Giustizia UE si pronuncia sulla classificazione dei rifiuti con codici “a specchio”

04 Giu 2019 | giurisprudenza, corte di giustizia, in evidenza 1

di Emanuele Pomini

CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sez. X – 28 marzo 2019 – cause riunite da C-487/17 a C-489/17 – Pres. A. Calot Escobar, Rel. F. Biltgen, Avv. Gen. M. Campos Sanchez Bordona.

Con riferimento alla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dalla Suprema Corte di Cassazione con ordinanza n. 37460 del 21 luglio 2017i in merito all’operatività delle disposizioni dell’Unione Europea relative alla classificazione dei rifiuti con codici cd. «a specchio», la Corte di Giustizia UE ha statuito che:

“1) L’allegato III della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008 (…), nonché l’allegato della decisione 2000/532/CE della Commissione, del 3 maggio 2000 (…) e la decisione 94/904/CE del Consiglio (…), devono essere interpretati nel senso che il detentore di un rifiuto che può essere classificato sia con codici corrispondenti a rifiuti pericolosi sia con codici corrispondenti a rifiuti non pericolosi, ma la cui composizione non è immediatamente nota, deve, ai fini di tale classificazione, determinare detta composizione e ricercare le sostanze pericolose che possano ragionevolmente trovarvisi onde stabilire se tale rifiuto presenti caratteristiche di pericolo, e a tal fine può utilizzare campionamenti, analisi chimiche e prove previsti dal regolamento (CE) n. 440/2008 della Commissione, del 30 maggio 2008 (…) o qualsiasi altro campionamento, analisi chimica e prova riconosciuti a livello internazionale”;

“2) Il principio di precauzione deve essere interpretato nel senso che, qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore di un rifiuto che può essere classificato sia con codici corrispondenti a rifiuti pericolosi sia con codici corrispondenti a rifiuti non pericolosi si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che detto rifiuto presenta, quest’ultimo deve essere classificato come rifiuto pericoloso”.

Sono dunque questi i principi di diritto enunciati nella decisione della CGUE sull’annosa questione della classificazione dei rifiuti con codici “a specchio”, tanto attesa dagli operatori in quanto volta a dirimere il contrasto tra le due opposte tesi interpretative che, in tale contesto, hanno diviso dottrina e giurisprudenza nel corso dell’ultimo decennio, e che qui brevemente si ricordanoii:

  • da un lato, la tesi della “certezza” (o della pericolosità presunta), ispirata al principio di precauzione, secondo la quale il detentore dei rifiuti, ai quali possono essere assegnati codici speculari, sarebbe tenuto a rovesciare una presunzione di pericolosità degli stessi mediante l’effettuazione di un’analisi completa diretta a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa ivi contenuta al fine di poterli classificare come non pericolosi;
  • dall’altro, la tesi della “probabilità”, che, ispirata al principio dello sviluppo sostenibile, ritiene invece sufficiente che il detentore dei rifiuti con codici a specchio esegua un’analisi sugli stessi limitata alla ricerca delle sole sostanze che, con un livello di probabilità elevato, possano essere contenute nei prodotti dai quali i rifiuti sono generati.

È chiaro come l’applicazione dell’una piuttosto che dell’altra tesi abbia delle conseguenze non di poco conto, soprattutto in fase di eventuale procedimento penale a carico del detentore dei rifiuti erroneamente classificati: infatti, mentre nel primo caso il detentore si trova a dover vincere una presunzione di pericolosità del rifiuto stesso, con tutto ciò che ne consegue  in termini di onere della prova, nel secondo caso lo stesso detentore avrebbe un compito più agevole, potendo contare su di un certo margine di discrezionalità nell’esecuzione delle attività di accertamento della pericolosità del rifiuto in questione.

La Corte di Giustizia interviene sul punto fornendo utili indicazioni sia in merito al rapporto tra principio di precauzione e principio dello sviluppo sostenibile nella loro applicazione alla problematica della classificazione dei rifiuti con codici speculari, sia in merito alla determinazione dei criteri da seguire nella valutazione delle caratteristiche di pericolo presentate da tale tipologia di rifiuti.

Nel risolvere il ragionevole dubbio sollevato dalla Suprema Corte con l’ordinanza già citata, i giudici comunitari confermano – nella sostanza – quanto prospettato dai giudici italiani in sede di rinvio, ossia, da un lato, la necessità di mantenere fermo il riferimento al principio comunitario di precauzione, in quanto necessario anche nel contesto di cui si discute al fine di garantire un’adeguata protezione dell’ambiente e della salute, ma, dall’altro, senza che ciò significhi obbligare il detentore del rifiuto ad operare una caratterizzazione spinta e sistematica del rifiuto tout court al fine di escluderne la pericolosità, dovendosi tenere conto anche della fattibilità tecnica e della praticabilità economica dell’onere imposto agli operatori.

Il percorso motivazionale seguito dalla CGUE, che appare logico e lineare, può essere così riassunto.

Al fine di decidere se un rifiuto rientri tra quelli pericolosi la Direttiva 2008/98/CE impone di tenere conto dell’”origine e della composizione dei e della composizione dei rifiuti e, ove necessario, dei valori limite di concentrazione delle sostanze pericolose” (cfr. l’art. 7, par. 1), poiché questi ultimi consentono di verificare se un rifiuto presenti una o più caratteristiche di pericolo di cui all’allegato III di tale direttiva.

Da ciò consegue che, qualora la composizione di un rifiuto non sia immediatamente nota, spetta al suo detentore, in quanto responsabile della gestione, raccogliere le informazioni idonee a consentirgli di acquisire una conoscenza sufficiente di detta composizione e, in tal modo, di attribuire a tale rifiuto il codice appropriato.

Per acquisire le informazioni necessarie a individuare l’eventuale presenza di sostanze pericolose, nonché di una o di più caratteristiche di pericolo di cui all’allegato III della direttiva 2008/, esistono diversi metodi, come ricorda la Corte, oltre a quelli indicati nel citato allegato III:

  • l’acquisizione delle informazioni sul processo chimico o sul processo di fabbricazione che generano rifiuti, nonché sulle relative sostanze in ingresso e intermedie, inclusi i pareri di esperti;
  • l’acquisizione delle informazioni fornite dal produttore originario della sostanza o dell’oggetto prima che questi diventassero rifiuti (ad esempio schede di dati di sicurezza, etichette del prodotto o schede di prodotto);
  • la consultazione delle banche dati sulle analisi dei rifiuti disponibili a livello di Stati membri;
  • il campionamento e l’analisi chimica dei rifiuti, anche secondo metodi elaborati a livello nazionale purché internazionalmente riconosciuti.

Sotto tale ultimo aspetto, che è il più delicato per gli operatori, la Corte interviene con un’importante precisazione.

Pur dovendo i metodi di campionamento e analisi chimica offrire idonee garanzie di efficacia e rappresentatività, “nessuna disposizione della normativa dell’Unione in questione può essere interpretata nel senso che l’oggetto di tale analisi consista nel verificare l’assenza, nel rifiuto di cui trattasi, di qualsiasi sostanza pericolosa, cosicché il detentore del rifiuto sarebbe tenuto a rovesciare una presunzione di pericolosità di tale rifiuto” (così il par. 45 della sentenza). Occorre infatti sempre tenere conto “della fattibilità tecnica e della praticabilità economica, cosicché le disposizioni di detta direttiva non possono essere interpretate nel senso di imporre al detentore di un rifiuto obblighi irragionevoli, sia dal punto di vista tecnico che economico, in materia di gestione dei rifiuti”.

Infatti, sempre secondo la Corte, “gli Stati membri devono tener conto non soltanto dei principi generali in materia di protezione dell’ambiente di precauzione e sostenibilità, ma anche della fattibilità tecnica e della praticabilità economica, della protezione delle risorse nonché degli impatti complessivi sociali, economici, sanitari e ambientali. Ne consegue che il legislatore dell’Unione, nel settore specifico della gestione dei rifiuti, ha inteso operare un bilanciamento tra, da un lato, il principio di precauzione e, dall’altro, la fattibilità tecnica e la praticabilità economica, in modo che i detentori di rifiuti non siano obbligati a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa nel rifiuto in esame, ma possano limitarsi a ricercare le sostanze che possono essere ragionevolmente presenti in tale rifiuto e valutare le sue caratteristiche di pericolo sulla base di calcoli o mediante prove in relazione a tali sostanze” (cfr. il par. 59 della sentenza).

Ciò non significa, prosegue la Corte, attribuire al detentore del rifiuto assoluta discrezionalità, in quanto, “pur non essendo obbligato a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa nel rifiuto in esame, ha tuttavia l’obbligo di ricercare quelle che possano ragionevolmente trovarvisi, e non ha pertanto alcun margine di discrezionalità a tale riguardo” (cfr. il par. 46 della sentenza) iii.

Nessuna presunzione di pericolosità del rifiuto, statuiscono quindi i giudici comunitari: precauzione sì…ma non troppo. La portata del principio di precauzione, quanto meno in tale contesto, sembra infatti uscirne un po’ ridimensionata, venendo attribuita al principio una funzione in un certo senso residuale: solo nei casi in cui, nonostante una “valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie”, vi sia una “impossibilità pratica” per l’operatore di valutare le caratteristiche di pericolo del rifiuto o di determinare la presenza di sostanze pericolose nello stesso, allora, proprio in applicazione del principio di precauzione, tali rifiuti devono essere classificati come pericolosi.

La pronuncia della CGUE, se, da un lato, disattendendo un’applicazione del principio di precauzione spinta fino ad affermare una presunzione di pericolosità del rifiuto tout court, sembra senz’altro destinata ad incidere sulla ripartizione dell’onere della prova nelle aule di giustizia, dall’altro, mediante l’utilizzo di concetti un po’ generici quali “valutazione quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso concreto” o “impossibilità pratica”, potrebbe ingenerare ulteriori discussioni e contrasti all’atto dello stabilire poi in concreto il (ragionevole) contenuto dell’esecuzione delle verifiche e delle valutazioni gravanti sul detentore del rifiuto.

Per il testo della sentenza della Corte di Giustizia UE, Sezione X, 28 marzo 2019, cause riunite da C-487/17 a C-489/17 (estratta dal sito istituzionale della Corte di Giustizia UE) cliccare sul pdf allegato Pomini_CGUE codici a specchio

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Pomini CGUE_RGA2_giugno2019

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