Per la Cassazione “appiccare il fuoco” e “alimentare il fuoco”… pari sono

30 Set 2022 | giurisprudenza, penale, in evidenza 1

di Alberta Leonarda Vergine e Martina Raffinetti

CASSAZIONE PENALE, Sez. II – 19 maggio 2022 (dep. 23 giugno 2022), n. 24302 – Pres. Rago, Est. Mantovano– ric. S.A. + altri

L’identificazione del delitto di combustione illecita di rifiuti di cui all’art. 256 bis D.Lgs. n. 152/2006 quale “reato di pericolo” comporta l’estensione della condotta penalmente sanzionata non soltanto all’azione materiale di “appiccare” il fuoco, bensì pure al mantenimento del fuoco, se l’incendio riguarda rifiuti abbandonati: è di assoluta evidenza che il pericolo persista in parallelo alla prosecuzione dell’incendio medesimo, e quindi che la sua alimentazione concorra ad integrare il reato.

Nel confermare la condanna inflitta in secondo grado a un nutrito gruppo di imputati anche per il reato di combustione illecita di rifiuti, la Suprema Corte propone alcuni passaggi motivazionali che lasciano perplessi.

Anzitutto ritiene corretta – e quindi condivide – l’affermazione della Corte di Appello per la quale ancorché “la disposizione […] punisc[a] ‘salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata’, la sanzione non attiene soltanto a chi fa iniziare il fuoco, bensì pure a chi mantiene il fuoco originariamente acceso, poiché lo scopo della norma è di impedire che siano bruciati dei rifiuti”.

E successivamente afferma che “logica conseguenza della identificazione del delitto in discussione come “reato di pericolo” è che sia corretta l’estensione della condotta penalmente sanzionata […] non soltanto all’azione materiale di ‘appiccare’ il fuoco, bensì pure al mantenimento del fuoco, se l’incendio riguarda rifiuti abbandonati: è di assoluta evidenza che il pericolo persista in parallelo alla prosecuzione dell’incendio medesimo, e quindi che la sua alimentazione concorra a integrare il reato”.

Quanto alla prima affermazione, la stessa impone di affrontare, sia pure in modo estremamente sintetico, la delicata e scivolosa questione della interpretazione estensiva della norma penale, consentita a determinate condizioni, che molto spesso maschera, come nel caso, almeno a nostro avviso, una, vietata sempre, interpretazione analogica in malam partem.

Ben sappiamo che “la distinzione fra analogia e interpretazione estensiva è un problema ricorrente per la giurisprudenza italiana, la teoria del diritto e la scienza penalistica. È uno dei nodi che sembra impossibile sciogliere e su cui si continua a lavorare comunque” tant’è che al proposito si è parlato di “storia infinita[i].

Sulla questione si è affermato che “nel diritto l’analogia ha lo scopo di estendere, a un caso non espressamente regolato, la disciplina espressamente prevista per uno o più casi con cui il primo ha in comune una o più proprietà rilevanti (in virtù di cui i casi hanno una somiglianza rilevante)”, da ciò deriva che l’analogia “è un argomento integrativo anziché interpretativo (dove per “interpretazione” si intende la determinazione del significato di una o più disposizioni normative): essa integra una disciplina lacunosa e presuppone che un’interpretazione di certe disposizioni sia già stata effettuata e ne sia stato concluso che la fattispecie è appunto sprovvista di disciplina. Dunque l’analogia presuppone una lacuna. Ma […] il diritto penale è un ambito in cui è vietato colmare le lacune per analogia. La ragione del divieto è la protezione della libertà individuale (principio del favor libertatis) e la tutela da interventi punitivi dello Stato che travalichino il dettato normativo; il che può essere riassunto nel cd. principio generale esclusivo, valido per il diritto penale: tutto ciò che non è espressamente vietato è permesso. Se dunque ci sono lacune nel diritto penale, queste vanno colmate con il principio generale esclusivo e non per analogia con altri casi regolati da norme incriminatrici. […Tuttavia] benché tutti concordino sul fatto che l’analogia è vietata in ambito penale, molti pensano che sia consentita la cd. interpretazione estensiva. In che cosa consisterebbe quest’ultima? In un’interpretazione delle disposizioni rilevanti la quale, anziché concludere che la disciplina è lacunosa, vi faccia rientrare il caso in esame benché questo non vi sia espressamente contemplato[ii].

Secondo autorevole dottrina[iii], “il sintagma ‘interpretazione estensiva’ designa un prodotto interpretativo, ossia la determinazione per un enunciato normativo di un significato più ampio rispetto al significato determinato in precedenza per il medesimo enunciato normativo”. Proprio per questo la dottrina, soprattutto penalistica, vede con timore e sospetto l’uso, e spesso l’abuso, di interpretazioni estensive di fattispecie penali, tanto da affermare che “si dovrebbe ricorre al principio del favor rei e all’interpretazione stretta dovunque sorgano dubbi interpretativi: il solo fatto che si possano profilare diverse soluzioni applicative connesse a possibili diverse letture della norma incriminatrice dovrebbe in ogni caso far propendere il giudice verso quella più restrittiva: o, meglio, non verso quella ‘estensiva’, proprio per evitare all’autore un’applicazione sfavorevole che porta, alla fine, alla pronuncia di una condanna penale[iv].

Con felice espressione si è rilevato come attraverso l’interpretazione estensiva “si estende il significato di un termine o di una locuzione oltre il suo significato letterale più immediato, ovvero lo si estende fino a coprire anche fattispecie che ricadono entro l’area “di penombra”, cioè fino a coprire quelle fattispecie dubbie rispetto a cui dovrebbe prevalere il favor rei, ricordando sempre che in pratica è arduo distinguere l’interpretazione estensiva dall’analogia […tanto è vero che] molti ritengono, non a torto […], che l’interpretazione estensiva non sia cosa rigidamente distinguibile dall’applicazione analogica; e che anzi la distinzione tra le due cose non abbia altro scopo se non quello di eludere il divieto di applicazione analogica: si può infatti aggirare il divieto semplicemente facendo sì applicazione analogica, ma avendo l’avvertenza di chiamare l’analogia con un altro nome[v].

Posto ciò, pare di tutta evidenza che decisioni che propongono interpretazioni “estensive” della norma penale dovrebbero essere assai ben motivate (ricordiamo al proposito il “monito metodologico” di cui alla sentenza n. 98 del 2021 della Corte Costituzionale  che valida dottrina ha letto come “un invito a ponderare attentamente, ad argomentare scrupolosamente le ragioni di tutte le “interpretazioni estensive” che muovono dalla zona di incertezza semantica che si pone alla periferia di ciascun testo legislativo[vi]) e non sbrigativamente liquidate con un semplice rinvio, come nel caso all’esame, a quanto già deciso dalla Corte di Appello che, lo ricordiamo ancora una volta, si è limitata ad affermare che ancorché “la disposizione […] punisc[a]  ‘salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata’, la sanzione non attiene soltanto a chi fa iniziare il fuoco, bensì pure a chi mantiene il fuoco originariamente acceso, poiché lo scopo della norma è di impedire che siano bruciati dei rifiuti”.

A prescindere dalla inevitabile critica per l’utilizzo delle non felici espressioni “iniziare il fuoco” e “sanzione [che] attiene”, non si comprende come possa ritenersi corretta un’affermazione di questo tenore.

È noto che nei casi in cui il Legislatore voglia impedire la causazione di un determinato evento, quale che sia la condotta che lo provoca, utilizza la tecnica redazionale del reato a forma libera: l’esempio più classico è quello dell’omicidio, la cui condotta è descritta nei termini di “chiunque cagiona la morte”, qualunque sia la modalità con la quale viene provocata.

Lo stesso può dirsi per il reato di incendio ex art. 423 c.p. che punisce “chiunque cagiona un incendio”, senza alcuna tipizzazione delle modalità concrete di realizzazione dello stesso.

Il frettoloso e approssimativo Legislatore[vii], quando ha introdotto nel sistema il delitto de quo, si è evidentemente dimenticato delle regole che dovrebbero governare una corretta (e costituzionalmente orientata) redazione delle fattispecie a forma libera, e ha, forse involontariamente, fatto ricorso al modello del reato a forma vincolata circoscrivendo la condotta punibile che risulta quella di “chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata”.

E quand’anche la sua intenzione fosse stata quella di punire sia chiunque appicchi fuoco ai rifiuti abbandonati, sia chi alimenti il fuoco originariamente acceso da altri, la formulazione letterale della norma non lascia spazio a interpretazioni estensive: è punibile solo chi appicca il fuoco.

In altri termini la condotta vietata è esclusivamente quella che si identifica nel momento iniziale dell’accessione della fiamma con l’innesco della reazione chimica che prosegue fino alla combustione vera e propria.  Il risultato di tale formulazione è chiaro: solo chi appicca il fuoco ai rifiuti è punibile.

Per la Suprema Corte, al contrario, punire anche chi alimenta il fuoco dei rifiuti sarebbe “coerente con la ratio della norma evocata” e con “l’esegesi che a essa ha dato questo Giudice di legittimità”. Secondo il Supremo Collegio, ratio della norma sarebbe quella di “impedire che siano bruciati dei rifiuti” – e già su questa generica affermazione potrebbero formularsi rilievi critici – e l’esegesi che di essa ha dato il Supremo Collegio è, secondo l’estensore della sentenza in commento, quella formulata da Corte Cass. pen., Sez. III, n. 271359/2017, secondo la quale “il reato di combustione illecita di rifiuti di cui all’art. 256-bis del d.lgs n. 152 del 2006 si configura con l’appiccare il fuoco a rifiuti abbandonati, ovvero depositati in maniera incontrollata, non essendo richiesto, per l’integrazione del reato, la dimostrazione del danno all’ambiente e il pericolo per la pubblica incolumità. (…) Come è noto, nel 2013, di fronte al sempre più frequente fenomeno di abbruciamento di rifiuti e del connesso allarme di pericolo per la salute pubblica, il legislatore è intervenuto nella disciplina del sistema sanzionatorio in materia di rifiuti di cui al d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, cd. “Codice dell’Ambiente”, introducendo la nuova figura delittuosa di combustione illecita di rifiuti. A fronte di una disciplina incentrata su illeciti contravvenzionali (…), il “nuovo” art. 256- bis, introdotto dall’art. 3 del d.l. n. 136 del 2013, come convertito con modifiche nella legge n. 6 del 2014, nel medesimo d.lgs., ha previsto due delitti nei primi due commi (…) Il primo comma così recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata è punito con la reclusione da due a cinque anni”. La circostanza che il legislatore abbia introdotto l’espressa clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, e l’aver tipicizzato la condotta con il termine linguistico “appicca il fuoco”, senza ulteriore specificazione, a differenza della previsione dell’art. 424 cod.pen. nella quale assume significato e rilevanza penale solo se da esso “sorge il pericolo di un incendio”, costituiscono elementi sulla base dei quali si deve ritenere la fattispecie quale reato di pericolo concreto[viii] per il quale non assume rilievo l’evento dannoso del danno all’ambiente. La soluzione interpretativa appena indicata, inoltre, appare in linea anche con le indicazioni esposte nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del dl. in esame, laddove si evidenzia che la previsione delle nuove fattispecie è stata determinata dall’inadeguatezza del (pre)vigente sistema sanzionatorio, e, in particolare, (anche) della fattispecie prevista dall’art. 423 cod. pen., ad assicurare una sufficiente tutela per l’ambiente e per la salute collettiva”.

Dal riproposto argomentare della sentenza n. 271359/2017, che sembra del tutto dimentica della massiccia elaborazione dottrinale in punto reati di pericolo astratto e concreto[ix], la Corte deduce la, a suo personale avviso, “logica conseguenza” per la quale dalla identificazione del delitto in discussione come reato di pericolo deriverebbe “che sia corretta l’estensione della condotta penalmente sanzionata […] non soltanto all’azione materiale di ‘appiccare’ il fuoco, bensì pure al mantenimento del fuoco, se l’incendio riguarda rifiuti abbandonati: è di assoluta evidenza che il pericolo persista in parallelo alla prosecuzione dell’incendio medesimo, e quindi che la sua alimentazione concorra a integrare il reato”.

La Corte di Cassazione (la Terza Sezione, nel precedente richiamato dalla sentenza in esame) non è nuova a ragionamenti di questo tipo, soprattutto in campo ambientale, dove assai spesso il Legislatore ha prodotto norme scritte in modo così approssimativo da risultare ben poco efficaci[x].

Ricordiamo, per tutte, la decisione n. 6726/2018, con la quale è stata affrontata la questione della rilevanza penale o meno di una determinata condotta in concreto posta in essere che, dal tenore letterale della norma incriminatrice, non appariva prima facie in essa sussumibile; la Corte, al contrario, ha ritenuto penalmente rilevante il fatto utilizzando i parametri della tutela anticipata del bene giuridico e dell’interpretazione sistematica e teleologica.

Detta decisione è stata assai criticata dalla dottrina[xi], che ha rilevato come il ragionamento del Supremo Collegio – che possiamo schematicamente riassumere nei termini : “1) verificata la presenza nella norma di condotte idonee unicamente a porre in pericolo il bene giuridico tutelato; 2) ritenuta perciò la natura della fattispecie incriminatrice quale reato di pericolo astratto; 3) considerata perciò la funzione della norma di anticipazione della tutela penale; 4) devono essere considerate penalmente rilevanti anche tutte quelle condotte che, pur se non previste dalla norma incriminatrice, possono porre in pericolo il bene giuridico tutelato”-  non possa ritenersi conforme al principio di tassatività e come sia il principio di tutela del bene giuridico protetto dalla norma a guidare la decisione, e come sia quindi quella – asserita – eadem ratio, a giustificare la punizione di quel dato comportamento”.

Tuttavia, è principio base del diritto penale, e lo troviamo scritto in tutti i Manuali, in materia penale, “poco importa che la ratio della norma avrebbe potuto suggerire al legislatore di fare riferimento anche a casi ulteriori (…). La lettera della legge costituisce per il giudice penale un limite insuperabile[xii].

Va da sé che non riusciamo a individuare la consequenzialità logica che, secondo la Corte, legherebbe il fatto che il delitto de quo sia reato di pericolo, con il fatto che si possa applicare anche a chi non ha appiccato il fuoco, ma si è limitato a alimentarlo (in che misura, poi, non è dato sapere).

Da ultimo, va altresì sottolineato come i giudici di prime e seconde cure, giustamente anche ad avviso di chi scrive, non abbiano ritenuto di contestare agli imputati che si sono limitati a alimentare il fuoco da altri appiccato, il concorso nel delitto di combustione illecita.

Per definizione l’intervento successivo alla commissione del reato – quindi successivamente al momento in cui si appicca il fuoco – non configura un concorso ex art. 110 c.p.

È, infatti, principio pacifico in tema di concorso eventuale di persone nel reato che per la configurabilità di un apporto causale atipico questo debba intervenire prima o durante la commissione del reato e non dopo.

La condotta realizzata dal ricorrente è palesemente successiva alla consumazione del reato e, proprio per essere tale, è da ritenersi penalmente neutra.

Il delitto de quo, infatti, sia pure solo a causa della sua pessima redazione, e forse anche in contrasto con la volontà del Legislatore, è un reato istantaneo e si consuma con l’innesco della fiamma ai rifiuti abbandonati o depositati. Così individuato il momento consumativo del reato in esame, si ribadisce la irrilevanza, e quindi la non punibilità, della condotta di mantenere un fuoco già appiccato da altri: trattasi di contributo privo di rilevanza causale inquanto successivo alla realizzazione della condotta tipica e alla consumazione del delitto ex art. 256 bis T.U.A. Forse proprio per questo, pur di arrivare alla condanna anche di chi aveva soltanto alimentato il fuoco, i giudici di merito si sono avventurati in una interpretazione analogica in malam partem del disposto di cui all’art. 256 bis T.U.A., travestendola da interpretazione estensiva.

E la Corte ha condiviso l’éscamotage.

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RGA online – combustione rifiuti (vergine-raffinetti) – ottobre 2022

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Cass. II, 24302_2022 (vergine-raffinetti)

NOTE

[i] G. Tuzet, “La storia infinita. Ancora su analogia e interpretazione estensiva”, in Criminalia, 2011, p. 507 ss,

[ii] G. Tuzet, op. cit., p. 510.

[iii] V. Velluzzi, “Tra analogia e interpretazione estensiva”, in Criminalia, 2010, p. 376.

[iv] N. Mazzacuva, “Tra analogia e interpretazione estensiva”, in Criminalia, 2010, pp. 374-375.

[v] R. Guastini, Interpretazione e argomentare, 2011, p. 322.

[vi] M. Scoletta, “Verso la giustiziabilità della violazione del divieto di analogia a sfavore del reo”, in Osservatorio costituzionale, 2021, 6, p. 204.

[vii] Si riferisce alle “imprecisioni del linguaggio normativo [che] finiscono per consegnare nelle mani degli interpreti una funzione etero-integrativa dei contenuti della norma che va ben oltre quelli che dovrebbero essere i suoi fisiologici confini” con conseguente “forte lacerazione del principio di legalità e di quello che è stato definito il pendant del nullun crimen sine lege, vale a dire del principio di soggezione del giudice alla sola legge” C. Bernasconi, “Il modello della tipicità umbratile nella recente legislazione penale”, in Criminalia, 2015, p. 433, che sul punto cita L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, 1996, p. 106; in specie, sulla redazione dell’art. 256 bis T.U.A., v. A.L. Vergine, “Tanto tuonò che piovve! A proposito dell’art. 3 d.l. 136/2013”, in Ambiente&Sviluppo, 2014, 1, pp. 7 ss.; A.L. Vergine, “Il delitto di combustione illecita di rifiuti ex art. 256‐bis T.U.A., introdotto dal D.L. n. 136/2013: commento a prima lettura a valle della Legge di conversione (L. 6 febbraio 2014, n. 6, pubbl. G.U. n. 32 dell’8.02.2014”, in www.giuristamabientali.it, 2014.

[viii] Per la dottrina, al contrario, si tratta di reato di pericolo astratto: “la pericolosità è ritenuta dal legislatore immanente la condotta stessa, senza apprezzabili spazi di emarginazione di una prova contraria, e senza l’individuazione di un quantitativo minimo di rifiuto interessato nella condotta quale indice minimo di offensività”, così, per tutti, A. Alberico, “Il nuovo reato di “combustione illecita di rifiuti”, in www.penalecontemporaneo.it, 2014; nello stesso senso L. Alfani, “Terra dei fuochi: il nuovo delitto di “combustione illecita di rifiuti” , in www.giurisprudenzapenale.com, 2014.

[ix] Per tutti, con riferimento ad altra decisione sempre della Terza Sezione della Corte di Cassazione, e sempre con riguardo ad un reato ambientale, v. G. Serra, “Interpretazione estensiva vs divieto di analogia: una problematica tradizionale in una recente (e criticabile) pronuncia della Corte di cassazione”, in DPC, 2018, 6, 137, in specie pp. 140 ss.

[x]La precisa definizione dei precetti è strategica per l’effettività di ogni ordinamento, intesa come idoneità all’orientamento dei cittadini, legittimazione rispetto questi ultimi e capacità di adattamento nel tempo al contesto sociale” così F. Consulich, “Così è (se vi pare). Alla ricerca del volto dell’illecito penale, tra legge indeterminata e giurisprudenza imprevedibile”, in S.P., 2020, 4; in generale, sulla insufficiente tecnica di redazione delle fattispecie penali ambientali, v. A.L.Vergine, “Brevi note a margine di Cass. Sez. III, n. 9736/2020”, in www.Lexambiente.it, Riv.trim.dir.pen.amb., 2020, 44, pp. 69 ss.

[xi] Per tutti v. G. Serra, op. cit., p. 147.

[xii] G. Marinucci – E. Dolcini, Corso di diritto penale, p. 107.

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