La verita’, vi prego, sull’art. 452 quaterdecies c.p.

04 Feb 2024 | giurisprudenza, penale, in evidenza 2

di Roberto Losengo

CASSAZIONE PENALE, Sez. II – 28 settembre 2023 (dep.  28 novembre 2023), n. 47643 – Pres. Rosi, Est. Di Paola – Ric. P. G.

Ha natura interpretativa, e non novativa, la disposizione dell’art. 1 D.L. n. 105/2023, convertito in L. n. 137/2023, con cui si prevede che l’art. 13 D.L. n. 152/1991 in materia di intercettazioni si applica anche ai procedimenti per i reati di cui all’art. 452 quaterdecies c.p. e all’art. 630 c.p., ovvero commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. o al fine di agevolare le associazioni di stampo mafioso.

1. Le disposizioni normative oggetto della pronuncia

La sentenza in esame costituisce la prima interpretazione, in sede di legittimità, del disposto dell’art. 1 D.L. n. 105/2023 (convertito, senza modifiche sul punto, nella L. n. 137/2023).

Come noto, la norma prevede che le disposizioni di natura eccezionale in materia di intercettazioni telefoniche, di cui all’art. 13 D.L. 152/1991, che derogano all’ordinaria disciplina ex art. 266 ss. c.p.p. (consentendo le intercettazioni in presenza di sufficienti indizi, anziché di gravi indizi, e anche nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. senza necessità che vi sia motivo di ritenere che vi si stia svolgendo un’attività criminosa sia in corso, ed inoltre mediante l’utilizzo del captatore informatico – c.d. trojan) si applichino all’art. 452 quaterdecies c.p., all’art. 630 c.p. e ai reati commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. o al fine di agevolare le associazioni di stampo mafioso.

La norma, dunque, dispone che il regime delle intercettazioni introdotto per reprimere con maggiore incisività i reati di criminalità organizzata si applichi anche alle due fattispecie monosoggettive contemplate dall’art. 51, comma 3 bis c.p.p., nonché ai reati (benchè di natura monosoggettiva) commessi avvalendosi delle condizioni tipiche delle associazioni di stampo mafioso o aggravati ai sensi dell’art. 416 bis.1 c.p. (già art. 7 D.L. n. 152/1991).

La disposizione è stata introdotta (non senza polemiche[i]), mediante lo strumento della decretazione d’urgenza, con il dichiarato obiettivo, esposto nel comunicato n. 43 del Consiglio dei Ministri del 17 luglio 2023, di prevenire la declaratoria di inutilizzabilità di intercettazioni telefoniche che sarebbe potuta scaturire dalla “applicazione generalizzata” del principio di diritto espresso da una sentenza della Corte di Cassazione (Sez. I penale, n. 34895 del 30 marzo / 21 settembre 2022, ric. Di Lorenzo)[ii].

Tale decisione aveva interpretato i principi espressi da pregressa giurisprudenza delle Sezioni Unite (in particolare Cass. pen., Sez. Un. n. 26889 del 28 aprile 2016, ric. Scurato) nel senso che possano “farsi rientrare nella nozione di delitti di criminalità organizzata solo fattispecie criminose associative, comuni e non”, e ritenendo di conseguenza “evidente che il richiamo ai delitti elencati nell’art. 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p. non può che intendersi riferito ai delitti associativi annoverati in quell’elenco, e non, anche, ai delitti non associativi, per quanto commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dal suddetto articolo”.

La sentenza Di Lorenzo, dunque, perveniva a escludere dalla variabile (in quanto mai espressamente tipizzata dal Legislatore) categoria dei delitti di criminalità organizzata tutte le fattispecie monosoggettive, con ciò riferendosi sia quelle pure incluse nel novero dell’art. 51, comma 3 bis c.p.p. (il rimando è appunto all’art. 452 quaterdecies c.p. e all’art. 630 c.p.), sia a qualsiasi ulteriore ipotesi di reato commesso avvalendosi delle condizioni dell’associazione mafiosa o in relazione alla quale fosse contestata l’aggravante di agevolazione delle associazioni mafiose (caso, quest’ultimo, che appunto ricorreva nel caso esaminato dalla sentenza del 2022).

L’interpretazione dettata dalla Sezione semplice, a distanza di numerosi mesi dal deposito delle relative motivazioni, determinava ad avviso del Governo una situazione di “straordinaria necessità e urgenza di introdurre disposizioni in materia di processo penale per consentire il suo efficace svolgimento rispetto ad alcune tipologie delittuose e per rendere efficiente e sicura l’attività di intercettazione” (questo il preambolo al Decreto Legge), e dunque conduceva alla “adozione di una norma d’interpretazione autentica, che chiarisca cosa debba intendersi per ‘reati di criminalità organizzata’ e che eviti l’applicabilità in senso generalizzato dell’interpretazione di recente avanzata dalla Corte di Cassazione” (così nel menzionato comunicato n. 43).

Sulla scorta di tali obiettivi, veniva dunque promulgato il D.L. n. 105/2023, che sanciva espressamente l’applicabilità delle disposizioni eccezionali in materia di intercettazioni, applicabili nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata, anche alle suddette disposizioni monosoggettive (art. 1, comma 1); veniva inoltre introdotta una norma transitoria (art. 1, comma 2) per prevedere che tale previsione fosse applicabile anche ai procedimenti in corso (e ciò, in considerazione della finalità espressa dal Consiglio dei Ministri di evitare il rischio rendere inutilizzabili prove raccolte attraverso strumenti captativi nell’ambito di procedimenti in corso in relazione a siffatte ipotesi di reato).

A fronte dell’iniziativa legislativa del Governo, i primi commenti dottrinari[iii] ravvisavano l’anomalia e l’assenza di effettiva necessità di tale intervento d’urgenza, atteso che il preteso contrasto della decisione della Sezione semplice con la sentenza Di Lorenzo rispetto a quanto statuito dalle Sezioni Unite con la sentenza Scurato (contrasto che, come si dirà, la Sez. I non aveva ritenuto di ravvisare, ritenendosi anzi di muoversi proprio nel solco della decisione delle Sezioni Unite) avrebbe trovato una migliore soluzione nell’ordinaria dialettica interna alla giurisprudenza di legittimità, non essendovi alcuna necessità che il Legislatore si inserisse “di forza” a prevaricare la funzione nomofilattica della giurisprudenza di legittimità, atteso che la decisione della Sez. I, a tutto voler concedere (cioè anche volendo sostenere che l’interpretazione fosse “sbagliata” rispetto a quella delle Sezioni Unite), avrebbe vincolato esclusivamente il giudice del rinvio.

Si ravvisava inoltre come la soluzione adottata dal Governo, con peculiare eterogenesi dei fini, rischiasse di produrre effetti diametralmente contrari a quelli auspicati, in quanto alcuni elementi testuali della normativa d’urgenza (nella specie, la disposizione transitoria) avrebbero potuto indurre a classificare la novella non già come “norma di interpretazione autentica” (come indicato nel comunicato n. 43), bensì come norma innovativa, che come tale avrebbe effetto solo per il futuro, considerato che, se così fosse, la norma transitoria si sarebbe esposta a vizi di costituzionalità per contrasto con l’art. 15 Cost., oltre che con l’art. 8 Cedu.

Nonostante le numerose voci dottrinarie in senso critico, il Decreto Legge era convertito senza modifiche (rispetto all’art. 1) con L. n. 137/2023, perfezionando così l’obiettivo di definire, nel senso inteso dal Legislatore governativo, il perimetro dei reati di criminalità organizzata a cui è applicabile, tra l’altro, il disposto di cui all’art. 13 D.L. n. 159/2021 in materia di intercettazioni.

Perimetro “esteso” che, tuttavia, lascia amplissime perplessità, in quanto l’intervento d’urgenza (sempre che urgenza vi fosse) ha di fatto alterato la fisiologica dinamica della giurisprudenza di legittimità al fine di far prevalere una delle possibili letture della norma, di cui si è voluta “imporre” una interpretazione autentica, senza tener conto del portato invero non del tutto univoco delle decisioni delle Sezioni Unite (anche quelle pregresse alla sentenza Scurato) e del dibattito da tempo instauratosi circa la natura dell’art. 452 quaterdecies c.p. e sulla possibilità (o meno) di poter ricondurre tale fattispecie, appunto di natura monosoggettiva benchè caratterizzata da elementi organizzativi, nel novero dei reati di criminalità organizzata.

Nel prosieguo, dunque, si esaminerà la motivazione della sentenza in commento (che ha risolto la questione della natura della disposizione del Decreto Legge quale norma di interpretazione, pur censurandone la tecnica redazionale “incerta”) e si cercheranno di portare ulteriori riflessioni in ordine all’inserimento (apparentemente “conclamato”) del reato di cui all’art. 452 quaterdecies c.p. tra quelli di criminalità organizzata e alle relative conseguenze sotto il profilo ermeneutico.

2. La sentenza in commento e i precedenti giurisprudenziali sui reati di criminalità organizzata

La decisione è stata adotta nell’ambito di un procedimento cautelare, a fronte del ricorso avverso la decisione del Tribunale del riesame di L’Aquila, che aveva rigettato il ricorso avverso l’ordinanza custodiale applicata in relazione ai reati di intestazione fittizia (art. 512 bis c.p), aggravati ai sensi dell’art. 416 bis.1 c.p.

Il Tribunale abruzzese aveva ritenuto che, “in uno stato di incertezza giurisprudenziale e in attesa di un’eventuale nuova pronuncia delle Sezioni Unite” dovesse farsi riferimento ai principi espressi dalla sentenza Scurato delle Sezioni Unite, che veniva interpretata come inclusiva di tutte le fattispecie, anche di natura monosoggettiva, incluse nell’art. 51, comma 3 bis c.p.p., dunque anche dei reati non associativi aggravati dalla finalità di agevolare i sodalizi di stampo mafioso.

Si noti, dunque, come la sentenza del Tribunale del riesame avesse interpretato la medesima sentenza delle Sezioni Unite in senso opposto a quello della sentenza Di Lorenzo (che pure affermava in motivazione di rifarsi alla sentenza Scurato, escludendo però dal novero dei reati di criminalità organizzata le fattispecie monosoggettive, anche se aggravate ex art. 416 bis.1 c.p.).

Il difensore dell’indagato, infatti, eccepiva anche in sede di legittimità l’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, facendo leva sul precedente rappresentato appunto dalla sentenza della Sez. I, n. 34895/2022 e rilevando come il richiamo dell’art. 51, comma 3 bis c.p.p. alle fattispecie aggravate ex art. 416 bis.1 c.p.p. determinasse esclusivamente la competenza distrettuale e non consentisse l’applicazione della disciplina eccezionale in materia di intercettazioni telefoniche.

A fronte dell’impugnazione, la Corte di Cassazione ha dovuto in primo luogo risolvere la tematica relativa alla natura interpretativa o innovativa della disposizione di cui al D.L. n. 105/2023, dando espressamente atto che, qualora si optasse per la seconda soluzione, la disposizione avrebbe valore solo per il futuro, rilevando (così come aveva prospettato la dottrina) che la norma transitoria presenterebbe, in tal caso, profili di incostituzionalità.

La Corte, tuttavia, ha optato decisamente per la prima soluzione[iv], sulla scorta di una lettura della novella alla luce dei criteri ermeneutici indicati dalla giurisprudenza costituzionale, valorizzando la facoltà del Legislatore di adottare norme che precisino il significato normativo di una precedente disposizione, “che sia originariamente connotata da un certo tasso di polisemia e quindi sia potenzialmente suscettibile di esprimere più significati secondo gli ordinari criteri di interpretazione della legge”, a condizione che “la scelta ‘imposta’ dalla legge interpretativa rientri tra le possibili varianti del testo originario” (il richiamo è, da ultimo, alla sentenza Corte Cost. 6 luglio 2020, n. 133).

Tale considerazione, secondo la Cassazione, porta ad affermare che la disposizione del secondo comma sia impropriamente qualificata nella relazione illustrativa come norma transitoria, avendo invece il solo fine di ribadire ulteriormente (per quanto non necessario, attesa la ritenuta natura interpretativa della novella) l’intento del Legislatore che la disposizione fosse direttamente applicabile ai procedimenti in corso.

La Cassazione, infatti, pur dando atto dell’assenza di una formale attribuzione del carattere interpretativo della norma, ha ritenuto che tale soluzione ermeneutica fosse assolutamente corrispondente alla dichiarata volontà del Legislatore, che anche nella relazione accompagnatoria al decreto aveva delineato l’obiettivo di realizzare “un allineamento di sistema, in quanto relativo a istituti comuni alle investigazioni in materia di criminalità organizzata”, e ciò, secondo quanto indica la sentenza in commento “muovendo dalla considerazione dell’inserimento nel catalogo previsto dall’art. 51, comma 3 bis e 3 quater c.p.p., sia dei reati di criminalità organizzata, sia di quelli indicati attraverso la specificazione contenuta nell’art. 1 del decreto legge”.

Quest’ultimo inciso è di particolare interesse: sembrerebbe, infatti, che la sentenza intenda prospettare un distinguo nel novero dei reati di cui all’art. 51, comma 3 bis e 3 quater c.p.p.: da un lato, vi sarebbero i reati di criminalità organizzata “vera e propria”, dall’altro quelli (per così dire) “assimilati” a quelli di criminalità organizzata.

E infatti, prosegue la motivazione della sentenza, sarebbe chiara “la volontà legislativa di attribuire alla nozione racchiusa nell’espressione adottata dal Legislatore del 1991 (‘lo svolgimento di indagini in relazione ad un delitto di criminalità organizzata’) un parametro applicativo ispirato al tratto che accomuna i reati caratterizzati dal legame, anche solo fattuale, con realtà criminali organizzate e, allo stesso tempo, alla funzionalità dello strumento investigativo delle intercettazioni, in contesti ove la ricerca della prova è resa maggiormente difficoltosa dalle caratteristiche dei fenomeni criminali”.

Espressione questa, che non consente di comprendere appieno se ad avviso della Corte la disposizione del 1991 sia applicabile solo ai reati caratterizzati dal legame con realtà criminali organizzate (perché ciò, allora, comporterebbe che tutti i reati annoverati nell’art. 51, comma 3 bis c.p.p. sarebbero qualificabili come ipotesi di criminalità organizzata “vera e propria”), o se essa sia intesa come applicabile anche a realtà estranee a fenomeni di criminalità organizzata, ma appunto caratterizzate da contesti di difficoltà nella ricerca della prova e, per tale motivo, accomunati sul piano procedurale a quelli di criminalità organizzata.

La distinzione, evidentemente, non è da poco, e del resto è la stessa Corte a farsi carico di rammentare la diversità di approcci interpretativi della disposizione dell’art. 13 D.L. n. 152/1991: da un lato, l’orientamento che ha valorizzato la natura organizzata dei reati interessati dalla disposizione, intesa come riferita ai reati associativi (quindi con esclusione delle fattispecie monosoggettive dell’art. 51, comma 3 bis c.p.p.), dall’altro quello che include nel novero dei reati criminalità organizzata anche le fattispecie aggravate ex art. 7 D.L. n. 152/1991 (ora art. 416 bis.1 c.p,).

È peraltro curioso osservare come la Corte collochi nel primo orientamento anche la sentenza Scurato delle Sezioni Unite, che, a suo avviso, dovrebbe essere letta con la “lente” della sentenza Di Lorenzo: si afferma, infatti, che l’indirizzo interpretativo focalizzato sulla costituzione di un apparato organizzativo “ha trovato avallo delle Sezioni Unite (n. 26889 del 28 aprile 2016, Scurato) nella misura in cui il principio di diritto espresso si intende coniugato al riferimento […] ai delitti associativi annoverati in quell’elenco e non, anche ai delitti non associativi, per quanto commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dal suddetto articolo (Sez. I n. 34895 del 30 marzo 2022, Di Lorenzo)”.

La sentenza in commento dà atto, cioè, che la lettura della sentenza Di Lorenzo, lungi da essere una soluzione “sbagliata” o in contrasto con le Sezioni Unite, ne costituiva, invece, una possibile, e non certo implausibile, lettura[v] (e proprio per questo motivo, come già rilevato, sarebbe stato opportuno che il chiarimento nomofilattico fosse avvenuto non in forza di legge[vi], ma attraverso l’ulteriore sviluppo della dialettica giurisprudenziale).

In ogni caso, al di là del valore (a questo punto non risolutivo) da attribuire alla sentenza Scurato[vii], la Cassazione, nella sentenza in commento, propende senz’altro per l’orientamento volto a includere nel novero di reati di criminalità organizzata quelli aggravati ex art. 7 D.L. n. 152/1991 (ora art. 416 bis.1 c.p.): in tale ottica, la Corte (proprio al fine di avvalorare la natura interpretativa della norma in esame) ha rammentato quali fossero gli obiettivi di natura emergenziale correlati all’introduzione della normativa: all’inizio degli anni ’90 lo Stato si trovava a fronteggiare un allarmante attacco da parte delle organizzazioni di stampo mafioso, in grado di condizionare lo sviluppo civile e sociale del Paese, e per fronteggiare tale aggressione vennero introdotti una pluralità di strumenti, tra cui l’aggravante di cui all’art. 7 D.L. n. 152/1991, “idonea a ricomprendere tutti gli illeciti realizzati con modalità mafiose, al fine di sviluppare ed accrescere l’attività dei sodalizi criminali, anche se posti in funzione di mero supporto di tali attività” (così la relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del decreto, rammentata dalla sentenza in commento); il riferimento dell’art. 13 ai reati di criminalità organizzata, evidenzia la Corte, si colloca, dunque, in sintonia con l’impianto delle disposizioni introdotte nel 1991.

Conclude, pertanto, la sentenza in commento, osservando che: “Il decreto legge 105/2023 riprende e conferma quella opzione legislativa volta a considerare la categoria dei delitti di criminalità organizzata alla luce dei dati convergenti del profilo organizzativo e, al tempo stesso, della particolare gravità di reati che, pur in difetto del carattere organizzato, si collocano nell’ambito dei fenomeni criminali in grado di alimentare e supportare lo sviluppo di organizzazioni delinquenziali”.

In buona sostanza, dunque, ad avviso della Cassazione la norma, ritenuta di natura interpretativa, di cui al D.L. n. 105/2023, avrebbe la finalità di ribadire che rientrano nella nozione di criminalità organizzata sia i reati associativi veri e propri (cioè quelli che ad avviso della sentenza Di Lorenzo sarebbero gli unici a giustificare l’applicazione dell’art. 13 D.L. n. 152/1991), sia quelli non associativi che, però, attengono a fenomenologie criminali idonee, appunto, ad “alimentare e supportare lo sviluppo di organizzazioni delinquenziali”, e che quindi devono essere “assimilati” ai reati di criminalità organizzata e seguirne lo stesso trattamento procedurale.

3. La natura del reato di cui all’art. 452 quaterdecies c.p. in rapporto con i delitti di criminalità organizzata

Ora, se queste sono le (per il vero, condivisibili) conclusioni della Cassazione, basate su una ineccepibile ricostruzione delle ragioni storiche che hanno condotto all’emanazione della normativa emergenziale, occorre valutare se il D.L. n. 105/2023 abbia colto effettivamente nel segno rispetto all’obiettivo di rafforzare la ratio della normativa di contrasto ai fenomeni criminali o se, invece (quantomeno rispetto al riferimento all’art. 452 quaterdecies c.p.), abbia travalicato tale obiettivo.

Pur ammettendo, infatti, che le finalità di contrasto alle organizzazioni criminali “vere e proprie” legittimino l’estensione di uno strumento investigativo maggiormente invasivo per quei reati monosoggettivi che comunque sfruttino le condizioni delle organizzazioni mafiose o ne agevolino le attività (cioè appunto quelli che siano “di supporto” ad associazioni mafiose, come indicato nelle relazioni alla normativa del 1991), altrettanto non si può dire rispetto al reato di cui all’art. 452 quaterdecies c.p., che – a dispetto della rubrica e delle ragioni a sua volta emergenziali di contrasto alla c.d. ecomafia che ne avevano caratterizzato l’introduzione nell’ordinamento con l’art. 53 bis D.Lgs. n. 22/1997[viii] – è ormai comunemente applicato a fatti concreti che nulla hanno a che fare con associazioni mafiose e nemmeno con contesti di criminalità organizzata “vera e propria”[ix].

Il che, invero, rende del tutto ingiustificato il permanere della fattispecie “semplice” (cioè non caratterizzata da contestazioni associative) nel novero dei reati di cui all’art. 51, comma 3 bis c.p.p., in considerazione delle gravose conseguenze procedurali e sanzionatorie correlate alla disposizione[x], giustificabili in via eccezionale solo a fronte di effettivi contesti riconducibili a fenomeni di criminalità organizzata “vera e propria”.

È quindi del tutto condivisibile quanto prospettato da autorevole fonte, laddove si osserva che l’inserimento dell’art. 452 quaterdecies c.p. nell’art. 51 comma 3 bis c.p.p. assolve essenzialmente a esigenze di coordinamento investigativo per reati che tipicamente si estendono in aree estese del territorio (ed invero nemmeno la competenza distrettuale risolve le problematiche connesse all’individuazione della competenza territoriale del reato abituale, laddove il traffico di rifiuti sia realizzato con destinazioni in differenti regioni) e che “restando la questione aperta per ciò che riguarda il reato in esame, parrebbe dunque maggiormente conforme alle richiamate decisioni delle Sezioni Unite considerare come effettivamente riconducibili a pieno titolo alla criminalità organizzata le ipotesi di concorso tra reati associativi e delitto di cui all’art. 452 quaterdecies c.p., con tutte le conseguenze (come la possibilità di procedere ad attività di intercettazione ai sensi dell’art. 13 D.L. 152/1991 riconducibili a tale classificazione, conseguenze che dovrebbero invece essere escluse nelle ipotesi in cui il delitto di attività organizzate finalizzate al traffico illecito non presenti tali caratteristiche”.

Si deve allora constatare con disappunto che, pur a fronte di un dibattito dottrinario ancora aperto, l’intervento del Legislatore porta quale corollario quello di avere, di fatto, positivizzato l’inserimento tout court del reato di cui all’art. 452 quaterdecies c.p. tra quelli di criminalità organizzata o, quantomeno, tra quelli che meritano di essere in tutto per tutto “assimilati” a quelli di criminalità organizzata.

E ciò, benchè nella comune esperienza processuale, la fattispecie trovi applicazione rispetto a contesti che, appunto, non sono riconducibili a fenomeni associativi né sono caratterizzati da finalità di agevolazione di organizzazioni mafiose, né a consorterie criminali di sorta[xi], collocandosi dunque in un ambito del tutto estraneo a quelle (del tutto legittime) finalità di contrasto a condotte di supporto alla criminalità che avevano giustificato, come opportunamente rammentato dalla Cassazione, l’adozione della normativa emergenziale del 1991.

Ciò non significa, ovviamente, che il reato non possa (e anzi sia, nelle casistiche più gravose) riferibile alle ben note interessenze della criminalità anche di stampo mafioso; tuttavia, nell’esperienza giurisprudenziale, si tratta di casistica residuale, e che comunque, qualora ricorrano in concreto caratteri ecomafiosi, può essere comunque ricondotta al contesto giuridico della criminalità organizzata attraverso la contestazione della fattispecie associativa e dell’aggravante di cui all’art. 452 octies c.p., all’uopo introdotta dalla L. n. 68/2015, oppure dell’ex art. 416 bis.1 c.p. quale aggravante del reato monosoggettivo.

Se, dunque, l’obiettivo “interventista” del Legislatore del 2023 era quello (in ipotesi, altrettanto legittimo) di ribadire l’allarme sociale generato dai reati, benchè strutturalmente monosoggettivi, commessi con finalità di “supporto” alle associazioni criminali, egli avrebbe potuto in astratto limitare il proprio intervento delineando la riconducibilità al novero dei reati di criminalità organizzata alle fattispecie monosoggettive (incluse o non incluse nell’art. 51, comma 3 bis c.p.p.) aggravate ai sensi dell’art. 416 bis.1 c.p., senza necessariamente fare riferimento anche all’ipotesi di traffico di rifiuti.

O (ancor meglio) avrebbe potuto cogliere l’occasione per un più opportuno coordinamento con la L. n. 68/2015, annoverando appunto tra le ipotesi di criminalità organizzata le ipotesi di associazione finalizzata alla commissione di reati ambientali di cui all’art. 452 octies c.p. (disposizione, questa, che ben giustificherebbe l’estensione di un più grave trattamento sanzionatorio).

In sintesi, dunque, la novella del D.L. n. 105/2023 appare caratterizzata da molteplici profili di incongruenza rispetto al sistema, che ne imporrebbero una celere rivalutazione da parte del Legislatore, anche nell’ottica di un complessivo riordino dei reati ambientali: in un’ottica de iure condendo, il sistema potrebbe essere più completo e lineare riservando l’applicazione dell’art. 452 quaterdecies c.p. alle sole fattispecie che in concreto presentino caratteri di criminalità organizzata “vera e propria” (e ciò, allora, ne giustificherebbe appieno il permanere nel novero dell’art. 51, comma 3 bis c.p.p. con tutte le aspre conseguenze anche di natura extrapenale) e introducendo una fattispecie di reato “intermedia” tra quelle contravvenzionali e quelle con natura organizzativa di stampo criminale[xii].

Nella situazione attuale, invece, la drastica (e fors’anche intempestiva) scelta di campo operata con l’adozione del D.L. n. 105/2023 lascia aperti numerosi interrogativi sull’effettiva natura da attribuire all’art. 452 quaterdecies: si tratta allora di un vero e proprio reato di criminalità organizzata? O di un reato “proceduralmente assimilato” a quelli di criminalità organizzata? O nessuna di queste classificazioni è giustificabile?

Se infatti si deve ritenere che il legislatore abbia “imposto” che l’art. 452 quaterdecies c.p. sia un reato di criminalità organizzata, occorre allora trarne le conseguenze in punto applicativo: se, nei casi concreti, la fattispecie oggetto di imputazione non presenterà profili di collegamento con fenomeni criminali (ma, ad esempio, sia caratterizzata esclusivamente da difformità rispetto ad autorizzazioni legittime) il fatto non potrà essere qualificato giuridicamente come ipotesi ex art. 452 quaterdecies c.p., dovendo (ora) tale fattispecie essere riservata solo alle attività “effettivamente criminali”.

Paradossalmente, dunque, la novella (se interpretata in questo senso “rigoristico”) potrebbe ingenerare un arretramento di tutela verso le tradizionali ipotesi contravvenzionali, in mancanza, appunto, di una figura di delitto, per così dire, “intermedia” che sanzioni le più gravi (anche in quanto correlate a quantitativi ingenti) violazioni in materia di rifiuti non caratterizzate da contesti associativi o legati a fenomeni di criminalità organizzata in senso proprio.

Se, invece, la disposizione intende prospettare la necessità di una perdurante assimilazione dell’art. 452 quaterdecies c.p. al trattamento procedurale dei reati di criminalità organizzata o di quelli commessi al fine di agevolare le associazioni mafiose (competenza distrettuale; applicabilità di strumenti di intercettazione invasivi quale il captatore informatico[xiii]), l’obiettivo avrebbe potuto essere perseguito con disposizioni di mero richiamo, senza necessariamente assoggettare la fattispecie a tutto il complesso di conseguenze sanzionatorie ulteriori, che – come già osservato – si giustificano solo in relazione ad effettive esigenze di contrasto alla criminalità.

Pare quindi, e conclusivamente, che nessuna delle soluzioni interpretative apparentemente portate dalla D.L. n. 105/2023 risolva il tema dell’incerta natura da attribuire all’art. 452 quaterdecies c.p.: un ulteriore (e più meditato) intervento del Legislatore sarebbe ben più che auspicabile.

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NOTE:

[i] Si vedano i contributi di G. GATTA, Intercettazioni e criminalità organizzata, quando a voler precisare si finisce per complicare, in Sistema Penale, 11 agosto 2023 e G. AMARELLI, Reati di criminalità organizzata ed intercettazioni: è davvero utile un decreto legge di interpretazione autentica?, in Sistema penale, 25 luglio 2023.

[ii] La sentenza, a breve distanza dal comunicato governativo, è stata commentata da G. TESSITORE, Sulla nozione di criminalità organizzata ai fini della disciplina in deroga delle intercettazioni, in Sistema penale, 12 luglio 2023

[iii] Cfr. G. GATTA, op. cit. e G. AMARELLI, op. cit.

[iv] Per un approfondito commento alla sentenza e ai precedenti giurisprudenziali, si veda M. TORIELLO, La prima pronuncia della Cassazione sul decreto legge n. 105 del 2023: quella introdotta in materia di intercettazioni è norma di interpretazione autentica, in Sistema penale, 7 ottobre 2023.

[v] Come autorevolmente osservato da L. RAMACCI, Questioni processuali relative al delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, in Lexambiente – Rivista trimestrale di Diritto Penale dell’Ambiente, 4/2021), la massima della sentenza Scurato deve essere coordinata con la lettura dell’intera motivazione, ove si evidenzia come l’area dei reati distrettuali (appunto, quella di cui all’art. 51, comma 3 bis c.p.p.) sia stata nel tempo estesa a una congerie indeterminata di fattispecie, svincolata da effettivi riferimenti a contesti di criminalità organizzata.

[vi] L’osservazione rende fallace l’assunto del comunicato n. 43 del Governo, laddove si afferma che il decreto legge ha la funzione prevenire un’applicazione difforme dalla “interpretazione precedente”, in quanto appunto tale “interpretazione” (quella delle Sezioni Unite Scurato) poteva essere a sua volta “interpretata” da successive decisioni (quali la sentenza Di Lorenzo), non ponendosi evidentemente in insanabile contrasto con la precedente lettura.

[vii] In tal senso M. TORIELLO, op. cit., evidenzia anche come la sentenza Scurato non si fosse espressa nella stessa linea di due precedenti pronunce delle stesse Sezioni Unite, ovvero la sentenza 22 marzo 2005, n. 17706, ric. Petrarca (“che aveva ritenuto ‘arbitrario’ il riferimento a cataloghi di reati contenuti in contesti normativi diversificati e non sempre utili sul piano delle esigenze ermeneutiche specifiche”) e la sentenza del 15 luglio 2010, ric. Donadio(che aveva escluso che i reati aggravati ex art. 7 D.L. 152/1991 fossero da annoverarsi tra quelli di criminalità organizzata).

[viii] C. RUGA RIVA, Diritto penale dell’ambiente, Torino 2021, rammenta appunto come questo fosse l’intento originario del Legislatore, da cui è disceso l’inserimento del reato nell’art. 51, comma 3 bis c.p.p., osservando però che “il delitto non è peraltro strutturato in forma associativa e, nella prassi, si applica frequentemente al di fuori di contesti di criminalità organizzata”; sulla genesi della fattispecie, si veda anche M. TELESCA, La tutela penale dell’ambiente, Torino 2021.

[ix] Per un’attenta disamina sullo sviluppo della giurisprudenza in ordine al reato di attività per il traffico illecito di rifiuti, si veda A. GALANTI, Il traffico illecito di rifiuti: il punto sulla giurisprudenza di legittimità, in Diritto penale contemporaneo, 12/2018.

[x] Sia consentito rimandare a R. LOSENGO, Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti e diritto vivente: ancora attuale e ragionevole la collocazione tra i reati di cui all’art. 51, comma 3 bis c.p.? in Lexambiente – Rivista trimestrale di Diritto Penale dell’Ambiente, 4/2020.

[xi] Così puntualmente osserva R.E. OMODEI, Spunti di riflessione in materia di reati di gestione e traffico di rifiuti. Le necessità di un ripensamento normativo, in Sistema penale, 5/2023:“Come emerso dalla prassi giurisprudenziale, a dispetto delle intenzioni del legislatore storico, la presenza delle ecomafie in questo ambito si è rivelata numericamente poco consistente, mentre il reato ha piuttosto riguardato l’attività di impresa tout court”, aggiungendo inoltre: dalla prassi giudiziaria emerge che la gestione illecita dei rifiuti presenta i tratti tipici della criminalità di impresa, ed è dunque connotata prevalentemente dalla logica della costante riduzione dei costi aziendali. Il continuo perseguimento del maggior profitto, in contesti imprenditoriali non interamente criminali, comporta l’adozione di politiche di impresa poco attente al danno ambientale, le quali di solito percepiscono tale danno come un costo necessario, inevitabile, per la conduzione dell’attività economica”.

[xii] Propone in tal senso R.E. OMODEI, op. cit., di espungere l’art. 452 quaterdecies c.p.  dal novero dei reati di criminalità organizzata ex art. 51, comma 3 bis c.p. e al contempo sanzionare più incisivamente la condotta di smaltimento abusivo dell’imprenditore: “Per colmare il vuoto, si potrebbe immaginare di prevedere un inasprimento sanzionatorio, con contestuale passaggio dalla forma contravvenzionale a quella delittuosa, per il reato di illecita gestione dei rifiuti che sia commesso dall’imprenditore. In tal modo, si permetterebbe di colpire l’intera rete criminale, seppur con l’opportuna differenziazione sanzionatoria, e di contestare, con maggiore facilità, anche le ipotesi associative laddove ne ricorrano i presupposti. Infatti, il passaggio alla forma del delitto permetterebbe di poter contestare l’illecito associativo, con l’intero armamentario di contrasto, colpendo dunque le reti criminali operanti nel settore”.

[xiii] Il che è peraltro già previsto in via generale, per i reati di cui all’art. 51, comma 3 bis c.p.p., dall’art. 266, comma 2 bis c.p.p. di talché sotto questo profilo l’intervento del decreto legge sarebbe stato persino superfluo.

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