La responsabilità da reato ambientale dell’appaltatore e del committente: un recente arresto giurisprudenziale conforme all’orientamento più rigoroso

01 Dic 2022 | giurisprudenza, penale

Di Mario Arienti

Corte di Cassazione, Sez. III – 21 giugno 2022 (dep. 19 settembre 2022), n. 34397 – Pres. Ramacci, Est. Cerroni – Ric. V.G. e altri

In tema di gestione dei rifiuti, l’appaltatore, per la natura del rapporto contrattuale che lo vincola al compimento di un’opera o alla prestazione di un servizio, con organizzazione dei mezzi necessari e gestione a proprio rischio dell’intera attività, riveste generalmente la qualità di produttore del rifiuto e su di lui gravano gli obblighi di corretto smaltimento, salvi i casi in cui, per ingerenza o controllo diretto del committente sull’attività dell’appaltatore, i relativi doveri si estendono anche a tale soggetto.

  1. Il caso sottoposto all’esame della Corte

La vicenda oggetto della decisione in commento attiene ad un classico schema di appalto tra privati, nel cui ambito l’originario produttore dei rifiuti affida ad un terzo soggetto il compito di procedere alle attività riferibili alla successiva gestione.

I protagonisti del caso in esame sono, pertanto, i legali rappresentanti di due imprese (S.A.R.M. ed Eureko) rispettivamente committente ed appaltatrice per il trasporto, stoccaggio e trattamento definitivo di alcuni scarti di lavorazioni edili, tra cui lana di roccia, materiali ferrosi e plastici, ecc. La questione attiene al conferimento e deposito di rifiuti (nella prospettiva difensiva, meramente temporaneo e con natura di “messa in riserva” di materiale altrimenti riutilizzabile nel circuito economico) da parte del produttore ad altra azienda di fiducia.

La contestazione ai sensi dell’art. 256, comma 1, lett. a) D.Lgs. n. 152/2006 è dunque incentrata sulla condotta dell’appaltatore, il quale è accusato di aver costituito presso la sede una discarica abusiva contenente i rifiuti conferiti dal committente, anziché (appunto) limitarsi a trasportarli e ad avviarli al recupero e/o smaltimento ai sensi di legge.

Il giudizio perviene presso la Suprema Corte a seguito del ricorso proposto dagli imputati (persone fisiche e giuridiche) avverso la sentenza di condanna – alla sola pena pecuniaria – emessa dal Tribunale di Rimini.

È interessante evidenziare che la contestazione viene elevata anche nei confronti delle persone giuridiche quale illecito amministrativo ex D.Lgs. n. 231/2001, poiché in ipotesi accusatoria la non corretta gestione dei rifiuti sarebbe stata effettuata nell’interesse o a vantaggio degli Enti. Il Tribunale, in effetti, faceva seguire alla declaratoria di responsabilità delle persone fisiche anche la condanna delle società, sempre a sole pene pecuniarie, nella misura di 160 quote sociali. Con riferimento alla posizione delle società, la Cassazione ha proceduto all’annullamento con rinvio della sentenza impugnata per vizio di motivazione, in quanto non era stato adeguatamente argomentato il profilo di interesse o vantaggio per l’Ente, non potendo essere ritenuto sussistete in re ipsa sulla base della riconosciuta responsabilità dei legali rappresentanti.

  1. I diversi orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità del committente e dell’appaltatore

La decisione in commento si inserisce nel contesto di una pluralità di orientamenti giurisprudenziali relativi all’inquadramento della responsabilità del committente e dell’appaltatore in tema di gestione di rifiuti.

La questione ruota attorno all’attribuzione (o meno) della qualifica di “produttore di rifiuti” in capo al committente, con riguardo alle condotte poste in essere dall’appaltatore nell’esecuzione di attività (ad esempio, ristrutturazioni edili) svolte nell’ambito del contratto di appalto.

L’orientamento (finora) maggioritario considera produttore di rifiuti, con tutti gli obblighi e le responsabilità correlate, soltanto colui che effettivamente esegue l’attività da cui essi provengono, ossia il soggetto appaltatore (ovvero, nei casi di subappalto, il subappaltatore): “l’appaltatore, in ragione della natura del rapporto contrattuale, che lo vincola al compimento di un’ opera o alla prestazione di un servizio con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio è, di regola, il produttore del rifiuti; su di lui gravano i relativi oneri, pur potendosi verificare casi in cui, per la particolarità dell’obbligazione assunta o per la condotta del committente, concretatasi in ingerenza o controllo diretto sull’attività dell’appaltatore, detti oneri si estendono anche a tale ultimo soggetto[i].

Nel medesimo solco si inseriscono anche pronunce più recenti, secondo cui “è sempre l’appaltatore il titolare degli gli obblighi connessi al corretto smaltimento degli stessi, sicché sarà lui a rispondere dell’eventuale gestione non autorizzata di tali rifiuti, di cui all’art. 256 del D.L.vo 152/2006. Questo in quanto è l’appaltatore, che provvede al compimento dell’opera o alla prestazione del servizio, al quale è vincolato, organizzando i mezzi necessari e gestendo l’intera attività a proprio rischio, il produttore dei rifiuti derivanti dallo svolgimento della sua prestazione contrattuale. Tuttavia, nel caso in cui vi sia ingerenza, o controllo diretto dei lavori, da parte del committente, i relativi obblighi connessi alla gestione di tali rifiuti si estendono anche a suo carico[ii].

L’orientamento più favorevole si fonda tanto sull’individuazione del “produttore” nella sola figura dell’appaltatore, quanto sulla rilevata insussistenza di posizione di garanzia ex art. 40 cpv. c.p. in capo al committente, il quale può semmai essere ritenuto corresponsabile nei soli casi di ingerenza nelle lavorazioni, a titolo di concorso commissivo. In stretta adesione al principio di legalità, è dunque sufficiente evidenziare l’assenza di una fonte giuridica dell’obbligo di controllo e del correlato potere impeditivo per escludere radicalmente qualsiasi titolo di responsabilità omissiva in capo al soggetto che ha ordinato ed appaltato l’esecuzione dei lavori. È stato affermato che “il committente di lavori edili, al pari dell’appaltante nell’ipotesi del subappalto, ed il direttore dei lavori non hanno alcun obbligo giuridico di intervenire nella gestione dei rifiuti prodotti dalla ditta appaltatrice o subappaltatrice né di garantire che la stessa venga effettuata correttamente. (Nella specie, trattavasi di un deposito incontrollato di materiali di risulta edile, provenienti dai lavori di recupero abitativo del sottotetto di un immobile, in violazione delle disposizioni sul deposito temporaneo)[iii].

In contrapposizione alle pronunce summenzionate, si è diffuso un orientamento più severo a mente del quale il committente risulterebbe sempre parificato al “produttore” ai sensi dell’art. 183 D.Lgs. 152/2006. In tal senso è stata recuperata l’equiparazione tra produttore “materiale” (vale a dire colui che, appunto, svolge in concreto le attività per effetto delle quali si generano i rifiuti) e produttore “giuridico” (ossia il soggetto a cui sarebbero formalmente riferibili i rifiuti prodotti dall’attività altrui, in un rapporto di pertinenza rispetto, ad esempio, all’attività svolta a monte o alla proprietà del sito produttivo). Si tratta di una impostazione interpretativa che richiama la ricostruzione della posizione soggettiva in chiave piuttosto rigorosa: “il produttore o detentore di rifiuti è gravato da una vera a propria posizione di garanzia in ordine al corretto andamento del ciclo degli stessi fino allo smaltimento, con onere a suo carico di verificare in modo rigoroso che il soggetto al quale i rifiuti vengono conferiti per le ulteriori fasi sia munito del necessario titolo autorizzativo, non potendo egli in alcun modo invocare la buona fede, ove non dimostri di aver fatto quanto era nelle sue possibilità per compiere quella verifica[iv].

Il portato pratico di siffatta premessa è enucleato in una recente pronuncia ove si è affermato che “a prescindere dagli accordi relativi agli oneri di smaltimento – che nella prassi spesso trasferiscono all’appaltatore mere attività operative e mantengono sull’appaltante, per ragioni di politica aziendale, gli oneri materiali ed economici dello smaltimento dei rifiuti – la responsabilità in ordine al complessivo iter di smaltimento, secondo quanto previsto dal combinato disposto di cui agli artt. 183, comma 1, lettera f), e 188, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, rimane congiuntamente in capo al produttore giuridico, al produttore materiale e al detentore dei rifiuti. In sintesi, il mancato trasferimento degli oneri di smaltimento nell’ambito del contratto di appalto non comporta il venir meno della responsabilità del produttore materiale dei rifiuti per le attività poste in essere dai soggetti deputati, a qualsiasi titolo, allo smaltimento medesimo[v].

La qualifica soggettiva individuata appare invero rientrare nel perimetro della responsabilità omissiva impropria, anziché nel paradigma del concorso commissivo.

La conclusione è supportata dall’analisi di altro arresto giurisprudenziale di eguale tenore, che esplicita proprio la riconducibilità dell’addebito penale ad una presunta posizione di garanzia, in capo al produttore in senso stretto, su tutto il “ciclo del rifiuto”. Infatti, sotto diverso angolo di visuale, lo stesso problema si pone anche nel caso in cui il committente sia effettivamente il “produttore” dei rifiuti (materiale e giuridico) ed il contratto di appalto abbia ad oggetto lavorazioni successive sui materiali conferiti all’appaltatore.

In tale ipotesi, la divergenza consiste nella individuazione (o meno) di una posizione di garanzia relativamente alle attività di trasporto o smaltimento affidate all’appaltatore, in termini di poteri ed obblighi di impedire la commissione di reati ambientali da parte di quest’ultimo. Il tema è del tutto analogo alla “ricerca” della posizione qualificata ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p. tra committente “non produttore” e appaltatore “produttore”: ovviamente in siffatta circostanza il committente è (e rimane) il soggetto a cui risulta ascrivibile l’originaria produzione del rifiuto, ma occorre domandarsi se in capo allo stesso possa sussistere un obbligo di vigilare sulla piena liceità dei successivi trattamenti affidati all’appaltatore. Tali lavorazioni, infatti, in virtù del contratto di appalto che lega le due parti, sarebbero in realtà rimessi alla completa ed autonoma libertà organizzativa del soggetto ingaggiato e non riferibili al produttore.

Pertanto, anche in questo caso, a seconda dell’orientamento a cui si intende aderire, il committente potrebbe essere ritenuto responsabile solo in caso di diretta ingerenza, mediante concorso; ovvero – contrariamente argomentando – sarebbe perseguibile per concorso omissivo in relazione ad una supposta posizione di garanzia.

L’orientamento più rigoroso sembra trovare maggior fortuna applicativa proprio qualora il committente del contratto di appalto sia produttore “in senso stretto”, al quale è più facilmente attribuibile un onere continuativo di monitoraggio dei successivi passaggi di gestione dei rifiuti frutto della sua attività. La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di statuire che “colui che conferisce i propri rifiuti a soggetti terzi per il recupero o lo smaltimento ha il dovere di accertare che questi ultimi siano debitamente autorizzati allo svolgimento delle operazioni, con la conseguenza che l’inosservanza di tale regola di cautela imprenditoriale è idonea a configurare la responsabilità per il reato di illecita gestione di rifiuti in concorso con coloro che li hanno ricevuti in assenza del prescritto titolo abilitativo. (Fattispecie nella quale è stata ritenuta la responsabilità del produttore dei rifiuti che aveva fatto colpevole affidamento sulle sole rassicurazioni verbali del trasportatore di avere regolare autorizzazione allo svolgimento dell’attività)[vi].

  1. La soluzione adottata dalla Corte nel caso in esame

Nella sentenza oggetto di analisi la Sezione III della Suprema Corte sembra inizialmente aderire al primo orientamento meno rigoroso, richiamando l’assunto per cui la responsabilità del committente sussiste solo nei casi in cui vi sia “un’ingerenza o controllo” sull’attività dell’appaltatore, salvo poi fornire una motivazione effettiva che evoca i caratteri inequivocabili della posizione di garanzia, concettualmente riferibile al secondo orientamento.

Vengono richiamati alcuni passaggi della decisione della Corte territoriale in cui è ricostruito il merito della vicenda: “la sentenza impugnata ha espressamente ritenuto la responsabilità dei ricorrenti osservando che la (…) [committente, n.d.r] non poteva andare esente da responsabilità “tenuto conto che i rifiuti venivano stoccati in big bag chiusi senza precise indicazioni sul contenuto e di precise modalità di smaltimento, da cui la sussistenza di responsabilità in capo ai legali rappresentanti di entrambe le società, peraltro, legati da anni di collaborazione e scambio”. In proposito – e parimenti senza osservazioni di sorta da parte ricorrente – la sentenza impugnata ha dato atto che i big bag contenevano dei rifiuti di lana di vetro contaminata da polvere, pezzi di plastica e di intonaco (oltre a cinque metri cubi di rifiuti costituiti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, peraltro oggetto di separata contestazione a carico di (…) [appaltatrice, n.d.r.])”.

Si conferma la validità dell’impianto motivazionale della sentenza impugnata laddove afferma che “l’irregolare stoccaggio nella sede di (…) [committente, n.d.r], unito al rapporto consolidato con l’altra società (…) [appaltatrice, n.d.r.] da cui derivavano obblighi di vigilanza e controllo circa le operazioni delegate a terzi (eventualità che la stessa Sez. 3 n. 11029 cit. non esclude a priori), non poteva che ricondurre anche alla prima, e ai suoi legali rappresentanti, la responsabilità di cui all’art. 256 cit.”.

La conclusione è che i legali rappresentanti della committente – che nel caso di specie aveva la qualifica di produttore “materiale e giuridico” degli scarti edili – vengono ritenuti corresponsabili dell’attività successiva posta in essere dall’appaltatore.

Come si è accennato, la decisione in esame solo apparentemente si rifà all’orientamento meno restrittivo, laddove sembra evocare un intervento concreto da parte del committente nelle attività dell’appaltatore e, quindi, un concorso commissivo. In realtà, analizzando le motivazioni, si apprende che l’impresa committente si era limitata a raccogliere i propri rifiuti in c.d. “big bag”, dando incarico all’appaltatrice di procedere allo smaltimento lecito mediante lavorazioni (separazione per tipologia, trasporto, ecc.) di competenza esclusiva di quest’ultima: il profilo di responsabilità viene quindi individuato non tanto in una ingerenza nell’attività del prestatore di servizi, bensì – come esplicitato in motivazione – nella mancata osservanza di “obblighi di vigilanza e controllo circa le operazioni delegate a terzi”.

Siffatta affermazione rende evidente che il concorso contestato alla committente non è di natura diretta, ma omissiva, in relazione ad una presunta posizione di garanzia rispetto all’operato di terzi; ciò che esattamente viene espresso nell’orientamento più restrittivo.

La Cassazione, in motivazione, cita a contrario proprio una delle sentenze “capostipite” dell’orientamento meno rigoroso (Sez. III, n. 11029/2015), affermando che pure secondo tale altra impostazione – da cui evidentemente si discosta – “non è esclusa a priori” la sussistenza di una posizione di garanzia, con connessi obblighi di vigilanza e controllo, in capo al committente.

Appare, inoltre, rilevante evidenziare che gli elementi costituenti tale asserita posizione di garanzia non vengono individuati in alcuna fonte normativa o regolamentare, né nel contratto concluso tra le parti. Il riferimento operato dal Giudice del merito (con un percorso argomentativo ritenuto esente da censure dalla Suprema Corte) è unicamente a circostanze di fatto, nemmeno particolarmente pregnanti, quali lo stoccaggio presso lo stesso committente (ritenuto irregolare e non avente natura meramente temporanea), la composizione dei materiali contenuti nei “big bag” e il “rapporto consolidato” tra le due società.

Si tratta, dunque, di una decisione particolarmente severa, che richiama elementi di entrambi gli orientamenti al fine di giungere ad una declaratoria di responsabilità del committente, il quale è chiamato a rispondere in via diretta per eventuali ingerenze nelle attività dell’appaltatore e, in ogni caso, per omessa vigilanza sulle attività di quest’ultimo.

  1. Conclusioni

La sentenza in commento costituisce un ulteriore tassello nel mosaico delle decisioni che destano particolare preoccupazione nei soggetti esercenti attività imprenditoriali, qualora comportino la produzione di rifiuti, anche mediante le lavorazioni effettuate in appalto da soggetti terzi.

In effetti, seguendo l’interpretazione ivi proposta, l’imprenditore o la società che affidano attività ad un altro operatore economico lavori edili, pulizie industriali, manutenzione di macchinari complessi, ecc., ovvero lo smaltimento di rifiuti, si troverebbero ad avere in capo una serie di obblighi di vigilanza ed intervento sull’operato della ditta incaricata. Quindi si tratterebbe di un onere “di attivarsi”, non solo a livello di preventive richieste di certificazioni, curriculum professionale, autorizzazioni ambientali, ecc., ma proprio nel monitoraggio in concreto al fine di evitare un concorso di natura omissiva.

Si crea a ben vedere una sorta di “corto circuito” che, in un modo o nell’altro, determina un titolo di responsabilità in capo al committente. Se questi concede lavori in appalto e non interferisce con l’attività dell’appaltatore, ma quest’ultimo commette irregolarità sul piano ambientale, può essere chiamato a rispondere a titolo di concorso omissivo, proprio per non aver vigilato né essere intervenuto attivamente. Qualora, invece, provveda a monitorare l’attività dell’appaltatore ovvero fornisca indicazioni operative (quindi con un’ingerenza rilevante anche secondo l’orientamento meno restrittivo), e l’esecutore pone in essere un reato ambientale, allora potrebbe essere chiamato a rispondere a titolo di concorso diretto.

Sotto il profilo operativo ci si trova dunque in una situazione poco rassicurante, in cui la soglia di responsabilità penale del committente viene sempre più arretrata, fino a coincidere sostanzialmente con quella propria dell’impresa che, concretamente, svolge le operazioni da cui scaturisce la produzione di rifiuti. Si tratta di una ulteriore espressione della tendenza ad “oggettivizzare” la responsabilità dell’imprenditore che viene ritenuto, in quanto operatore economico professionale, sempre ed in qualche modo “colpevole” di non aver adottato sufficienti precauzioni. E ciò anche con riferimento ad attività relativamente a cui non ha (o non può avere) alcuna competenza professionale, come appunto lo svolgimento di lavorazioni specialistiche o lo stesso smaltimento dei rifiuti prodotti.

Sul punto, l’impresa risulta destinataria di obblighi che possono essere fronteggiati solo mediante l’adozione di procedure stringenti nella scelta dell’appaltatore ed anche nel monitoraggio delle operazioni dallo stesso svolte: quest’ultimo aspetto è certamente quello più problematico, poiché, per essere un controllo effettivo, richiede l’impiego di figure professionali che con grande probabilità risultano del tutto distanti dal settore di attività dell’azienda medesima.

In conclusione, si auspica che in seno alla III Sezione (a cui sono riferibili tutti i precedenti citati, di entrambi gli orientamenti) prevalga infine un’interpretazione più costituzionalmente orientata del ruolo del committente e aderente al principio di colpevolezza, valorizzando le sole ipotesi di concorso concreto e diretto nella realizzazione del reato ambientale ascrivibile all’appaltatore, mediante un’ingerenza effettiva e “misurabile” sotto il profilo della lesività. Per converso, dovrebbe essere evitata ogni scorciatoia argomentativa finalizzata all’individuazione di posizioni di garanzia, non previste da alcuna disposizione di legge ed agganciate solo ad episodici elementi di fatto, oltre che sguarnite di idonei poteri ispettivi ed impeditivi.

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Nota a Cass., sez. III, 34397-2022

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Cass. 34397_2022 (Arienti)

NOTE

[i] Corte Cass. pen., Sez. III, 5 febbraio 2015, n. 11029.

[ii] Corte Cass. pen., Sez. III, 9 gennaio 2018, n. 223; v. altresì n. 16975; Corte Cass. pen., Sez. III, 16 gennaio 2018, n. 1581, nonché, in ambito civile-tributario, Corte Cass. civ., Sez. V, 16 giugno 2021.

[iii] Corte Cass. pen., Sez. III, 25 maggio 2011, n. 25041. Nello stesso senso cfr. Corte Cass. pen., Sez. III, 5 aprile 2011, n. 35692; Corte Cass. pen., Sez. III, 22 settembre 2004, n. 40618; Corte Cass., Sez. III, 28 gennaio 2003, n. 15165.

[iv] Corte App. Perugia, 7 agosto 2012, n. 974, v. altresì di recente Corte Cass. pen., Sez. III, 20 gennaio 2022, n. 2234 in ordine all’abbandono di rifiuti posto in essere da soggetti legati da rapporti di lavoro dipendente con il produttore.

[v] Corte Cass. pen., Sez. III, 30 settembre 2019, n. 39952.

[vi] Corte Cass. pen., Sez. III, 4 giugno 2013, n. 29727.

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