La qualificazione delle acque meteoriche di dilavamento contaminate

16 Set 2019 | giurisprudenza, penale

Di Emanuele Pomini

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 8 febbraio 2019, n. 6260 – Pres. Ramacci, Est. Zunica – ric. G. 

Le acque meteoriche di dilavamento sono costituite dalle sole acque che, cadendo al suolo per effetto di precipitazioni atmosferiche, si depositano su un suolo impermeabilizzato, dilavando le superfici e attingendo indirettamente i corpi ricettori, senza subire contaminazioni di sorta con altre sostanze o materiali inquinanti, dovendo in tale ultimo caso essere invece qualificate come acque reflue industriali ai sensi dell’art. 74, comma 1, lett. h) del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, con tutto ciò che ne consegue in termini autorizzativi.

La Suprema Corte torna a occuparsi della corretta definizione delle acque meteoriche di dilavamento, ossia un tema di non trascurabile interesse che coinvolge da vicino tutti gli insediamenti produttivi caratterizzati dalla presenza di piazzali o aree scoperte, come tali soggette all’azione degli agenti atmosferici – in primis la pioggia – e interessate dal deposito o dalla movimentazione di merci e materiali potenzialmente idonei a rilasciare sostanze contaminanti.

Il caso in questione riguarda proprio uno stabilimento avente un piazzale sul quale venivano stoccati alcuni materiali che, dilavati dalla pioggia, rilasciavano sostanze contaminanti che divenivano parte integrante delle acque meteoriche, poi scaricate in fognatura in mancanza di autorizzazione.

Il problema del corretto inquadramento delle acque meteoriche scaturisce dall’assenza, nella normativa sulla tutela dei corpi idrici, di una espressa definizione di tale tipologia di acque.

Le acque meteoriche di dilavamento, infatti, vengono menzionate nella definizione delle acque reflue industriali di cui all’art. 74, comma 1, lett. h) del D.Lgs. n. 152/2006, ma solo per meglio chiarire quest’ultima definizione: “h) acque reflue industriali: qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento”. Anche il successivo art. 113 del T.U., appositamente dedicato alla disciplina delle acque meteoriche di dilavamento e delle acque di prima pioggia, nulla precisa in merito, limitandosi a delegare alle regioni, per quanto qui interessa (cfr. il primo comma), la disciplina delle forme di controllo degli scarichi di acque meteoriche di dilavamento provenienti da reti fognarie separate, nonché dei casi in cui può essere richiesto che le immissioni delle acque meteoriche di dilavamento, effettuate tramite altre condotte separate, siano sottoposte a particolari prescrizioni, ivi compresa l’eventuale autorizzazionei.

Per avere il quadro completo della questione, occorre tuttavia ricordare che prima dell’attuale definizione di acque reflue industriali, introdotta dal D.Lgs. n. 4/2008 (cd. secondo correttivo al T.U.),  il citato art. 74, comma 1, lett. h) aveva una formulazione in parte differente, definendo le acque reflue industriali come “qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici o installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, differenti qualitativamente dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali anche inquinanti non connesse con le attività esercitate nello stabilimento”.

La differenza che balza subito agli occhi raffrontando le due versioni della stessa norma è che, nella precedente formulazione, era possibile evincersi una qualche definizione di acque meteoriche di dilavamento, avendo il legislatore espressamente precisato che per tali dovevano intendersi anche quelle venute eventualmente in contatto con sostanze o materiali inquinanti, ma a condizione che si trattasse di sostanze o materiali non connessi con le attività esercitate nello stabilimento.

La giurisprudenza, in applicazione della norma nella sua precedente formulazione, aveva quindi ritenuto che le acque meteoriche dovessero essere qualificate come reflui industriali, e non come acque meteoriche, solo qualora tali acque fossero state contaminate da sostanze impiegate nello stabilimentoii. Al riguardo, si osserva come non sia in realtà sempre agevole determinare quando una sostanza o un materiale sia “connesso” con le attività esercitate nello stabilimento (basti pensare, ad es., agli olii e agli idrocarburi persi dai mezzi di stanza o di passaggio nelle aree scoperte dello stabilimento).

Ad ogni modo, con l’entrata in vigore della modifica normativa di cui si è detto, è venuto meno ogni riferimento qualitativo alla tipologia delle acque e, soprattutto, l’inciso che recava un criterio, se pur parziale, di definizione delle acque meteoriche di dilavamento.

Ciò ha dato luogo a due differenti interpretazioniiii.

Secondo un primo e più risalente orientamento la categoria delle acque meteoriche di dilavamento deve intendersi ampliata rispetto a prima, poiché, in base alla più recente formulazione dell’art. 74, comma 1, lett. h), “sembrerebbe non più possibile oggi assimilare, sotto un profilo qualitativo, le due tipologie di acque (reflui industriali e acque meteoriche di dilavamento), né sembrerebbe possibile ritenere che le acque meteoriche di dilavamento (una volta venute a contatto con materiali o sostanze anche inquinanti connesse con l’attività esercitata nello stabilimento) possano essere assimilate ai reflui industriali. Sembrerebbe, cioè, che data la ricordata modifica legislativa, non sarebbe più possibile accomunare le acque meteoriche di dilavamento e le acque reflue industriali”iv. In altre parole, il legislatore avrebbe voluto creare una netta distinzione tra le due tipologie di acque basata sostanzialmente sull’origine del refluo, dal momento che la diversità tra le acque meteoriche di dilavamento e le acque reflue industriali non risiede più nella purezza delle prime e nella contaminazione delle seconde, ma, appunto, nel fatto che le prime non sono generate da un’attività antropica, ma dall’evento naturale della precipitazione.

Secondo un differente e più recente orientamento, invece, fatto proprio e ribadito anche dalla pronuncia in esame, “l’eliminazione dell’inciso è stato ritenuto frutto di una precisa scelta del legislatore, indicando proprio l’intenzione di escludere qualunque assimilazione di acque contaminate con quelle meteoriche di dilavamento: l’eliminazione dell’inciso, in definitiva, non ha affatto ampliato il concetto di acque meteoriche di dilavamento, ma, al contrario, lo ha ristretto in un’ottica di maggior rigore, nel senso di operare una secca distinzione tra la predetta categoria di acquee quelle reflue industriali. Oggi, pertanto, le acque meteoriche, comunque venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non possono essere più incluse nella categoria di acque meteoriche di dilavamento, per espressa volontà di legge”v.

Quest’ultimo e più recente orientamento, a quanto consta, non è più stato messo in discussione dalla Suprema Corte, tant’è che nella sentenza in commento è stata rigettata la richiesta del ricorrente di rimessione della questione di diritto alle Sezioni Unitevi, e, pertanto, esso costituisce il principio alla luce del quale gli operatori dovrebbero sempre uniformare la propria condotta.

Ciò posto, si osserva come, sotto il profilo della tutela del bene ambiente, il principio ribadito dalla sentenza in commento sia sicuramente da accogliere con favore, in quanto diretto a colpire situazioni di gestione di piazzali e aree scoperte caratterizzate da incuria, degrado e di conseguente pericolo per l’ambiente.

Tuttavia, al di là delle situazioni più evidenti (come peraltro quelle oggetto delle pronunce che hanno affermato o fatto proprio il principio in questione: stoccaggio in aree scoperte di ingenti quantitativi di rifiuti o materiali alla rinfusa), il rischio è che l’applicazione dell’art. 74, comma 1, lett. h) secondo l’interpretazione tranchant suggerita dalla Suprema Corte possa coinvolgere tutta una serie di situazioni a minor (se non nullo) impatto ambientale, ma che, stante il principio in questione, potrebbero essere oggetto della stessa sanzione penale prevista per la mancanza di autorizzazione agli scarichi di acque reflue industriali. Si pensi, come già detto, ai piazzali e alle aree scoperte di stabilimento interessate dalla presenza o dal passaggio di mezzi, che possono perdere, se pur in minimi quantitativi, olii, idrocarburi o altre sostanze: applicando il suddetto principio in modo rigoroso, anche tutte le acque meteoriche che dilavano tali superfici potrebbero essere qualificate come acque reflue industriali, con tutto ciò che ne consegue.

Peraltro, l’applicazione dell’art. 74 secondo l’ultima interpretazione suggerita dalla Suprema Corte sembra forse lasciare spazio a qualche dubbio di legittimità, se si considera che, a ben vedere, la normativa nazionale già ha previsto una tutela per queste situazioni cd. minori, intervenendo sulla disciplina delle acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne mediante delega alle Regioni ai sensi dell’art. 113, comma 3 per i casi in cui vi sia il rischio di dilavamento da superfici impermeabili scoperte di sostanze pericolose o di sostanze che possano creare pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici.

NOTE:

i  Un’ulteriore disposizione, il terzo comma, riguarda poi le acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne quando, in relazione alle attività svolte, vi sia il rischio di dilavamento da superfici impermeabili scoperte di sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici.

ii  Cfr. Corte Cass. pen., Sez. III, 11  ottobre 2007, n. 40191, in Riv. Pen., 2008, 7-8, p.802.

iii  Sul tema si rinvia, tra gli altri, ai contributi di: C. M. D’Eril, Reflui industriali, acque meteoriche di dilavamento: arresti (e qualche inciampo) nella giurisprudenza, in Amb. & Svil., 2013, p. 727; A. Muratori, Acque meteoriche di dilavamento: cosa sian nessun lo dice, che ci sian ciascun lo sa…”, in Amb. & Svil., 2014, p. 190; nonché ai contributi degli Autori citati nelle note a seguire.

iv Così, Corte Cass. pen., Sez. III, 22 gennaio 2014, n. 2867, in questa Rivista, 2014, p. 545, con nota di C.M. D’Eril.

v  Così la sentenza in commento. Nello stesso senso, cfr. Corte Cass. pen., Sez. III, 22 gennaio 2015, n. 2832, in questa Rivista, 2015, p. 62, con nota di A.L. Vergine; Corte Cas. Pen., Sez. III, 21 giugno 2018, n. 28725, in questa Rivista, 2018, p. 548, con nota di G. Ripa.

vi  Che era stata peraltro auspicata anche da alcuni commentatori, tra cui di recente G.Ripa, op. cit.

Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Corte di Cassazione) cliccare sul pdf allegato.

Pomini_Cass. pen. Sez. III n. 6260_2019

SCARICA L’ARTICOLO IN VERSIONE PDF

Pomini_6260_2019

Scritto da