Traffico illecito di rifiuti e custodia cautelare in carcere: la presunzione relativa di adeguatezza

14 Dic 2020 | giurisprudenza, penale

di Elisa Marini

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 22 settembre 2020 (dep. 3 novembre 2020), n. 30629 – Pres. Ramacci, Est. Gentili – ric. Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari e R.F.

In ragione dell’appartenenza al novero dei delitti di cui all’art. 51, comma 3 bis, c.p.p., il reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 452 quaterdecies c.p. è una delle fattispecie per le quali, ove sussistano a carico dell’indagato gravi indizi di colpevolezza, si applica – ai sensi dell’art. 275, comma 3, c.p.p. –  la misura cautelare della custodia in carcere, con la sola eccezione dei casi in cui si ritengano non sussistenti le esigenze cautelari, ovvero si ritenga che, in relazione al caso concreto, le stesse possano essere soddisfatte con altra misura meno afflittiva. Tale presunzione relativa di adeguatezza può essere superata solo attraverso una valutazione analitica degli elementi peculiari del caso concreto che consentano di esprimersi in senso contrario.

  1. La vicenda sottesa al giudizio della Suprema Corte

La sentenza in commento affronta una tematica apparentemente semplice, a stretto rigor di legge, ma ben più complessa sul piano delle implicazioni pratiche derivanti dall’inserimento del delitto di “Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”, di cui all’art. 452 quaterdecies c.p., nell’ambito dei reati previsti dall’art. 51, comma 3 bis, c.p.p.[1].

Prima di esaminare la quaestio iuris di interesse, è opportuno riepilogare brevemente il fatto storico alla base della pronuncia della Corte di Cassazione.

Il Tribunale di Bari, in funzione di giudice del riesame, riformava, in accoglimento del ricorso proposto nell’interesse dell’indagato, l’ordinanza di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere emessa dal Giudice per le indagini preliminari del capoluogo pugliese, che aveva ritenuto sussistenti gravi indizi di colpevolezza, unitamente al pericolo di reiterazione, rispetto al reato di cui all’art. 452 quaterdecies c.p. (contestato ex art. 110 c.p.): in particolare, secondo la ricostruzione contenuta nell’ordinanza cautelare, l’indagato-ricorrente, in concorso con altri, avrebbe provveduto – in qualità di socio di una cooperativa operante nel settore della raccolta e del trasporto di rifiuti speciali non pericolosi – al deposito sistematico di rifiuti provenienti da demolizioni edili presso un terreno nella disponibilità di altro soggetto.

Tale deposito sarebbe consistito in almeno 16 sversamenti di rifiuti, per un totale di circa 70 tonnellate, che si sarebbero susseguiti per circa un mese.

Pur avendo rilevato – in ragione del numero delle singole condotte, dell’utilizzo del mezzo meccanico, e della tipologia di attività realizzata, definita sostanzialmente professionale – la presenza di esigenze cautelari tali da far ritenere concreto ed attuale il pericolo di reiterazione, il Tribunale del riesame modificava la misura cautelare originariamente applicata, sostituendola con quella meno afflittiva dell’obbligo di dimora: tutto ciò nonostante la fattispecie di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti sia inclusa fra quelle per le quali opera la presunzione di cui all’art. 275, comma 3, c.p.p., in forza della quale, laddove sussistano gravi indizi di colpevolezza, la presenza delle esigenze cautelari può essere neutralizzata con misura diversa dalla custodia cautelare in carcere solo previa verifica del fatto che, nel caso concreto, vi sia la possibilità di “contenere il rischio” con altra misura meno afflittiva[2].

Alla base della pronuncia emessa in sede di riesame sono stati posti sostanzialmente due argomenti: da un lato, la presenza di un solo precedente nella storia penale dell’indagato; dall’altro, la mancanza di elementi da cui poter desumere il presunto mancato rispetto delle prescrizioni connesse ad una misura diversa da quella più rigorosa.

Avverso la suddetta ordinanza ricorrevano per cassazione sia la difesa, sia la pubblica accusa: la prima lamentando, principalmente (oltre a vizi motivazionali relativi alla quantificazione del danno ed alla necessità di applicazione della misura cautelare), la qualificazione giuridica dei fatti in contestazione, in ragione dell’assunto secondo cui i materiali depositati dall’indagato non sarebbero stati rifiuti, ma terre e rocce da scavo lecitamente utilizzate per il ripascimento dei terreni; la seconda –  rappresentata, in ragione della qualificazione giuridica del fatto in contestazione, dalla Direzione distrettuale antimafia di Bari – rilevando (unitamente, anche in questo caso, a vizi di motivazione) come la misura cautelare meno afflittiva applicata dal Tribunale del riesame non avrebbe potuto impedire la reiterazione delle condotte criminose in oggetto, e dunque deducendo l’illegittimità dell’ordinanza impugnata.

  1. Le conclusioni della Corte di Cassazione

Dopo aver affrontato preliminarmente – e rigettato – l’istanza di differimento presentata dal difensore di fiducia dell’indagato, la Corte di Cassazione si è concentrata sui ricorsi sviluppati dalle parti, dichiarando inammissibile quello proposto dalla difesa, ed accogliendo, di contro, quello avanzato dalla Procura Generale.

Alla base del provvedimento negativo emesso nei confronti dell’indagato sono stati addotti il carattere, definito generico, dei motivi di ricorso, e la sostenuta inconferenza dei medesimi rispetto al sindacato di legittimità a cui deve limitarsi la Suprema Corte.

Il tutto previa affermazione dell’inconsistenza della doglianza difensiva relativa alla qualificazione dei materiali oggetto degli sversamenti quali terre e rocce da scavo, anziché rifiuti, alla luce degli elementi emersi dagli atti delle indagini preliminari.

Viceversa, come anticipato, le valutazioni della Corte sono state favorevoli agli argomenti proposti dalla pubblica accusa, ed hanno, di conseguenza, condotto all’affermazione della “incongruità motivazionale della ordinanza impugnata ai fini della giustificazione del ritenuto superamento della presunzione di adeguatezza della sola misura cautelare intramuraria”, rendendo “inevitabile” l’annullamento della medesima ordinanza, con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Bari in funzione di giudice del riesame.

La parte più interessante, ai fini dell’odierno commento, consiste nella premessa di carattere sistematico posta alla base delle richiamate conclusioni, nella quale la Corte ha osservato come, essendo la fattispecie di cui all’art. 452 quaterdecies c.p. ricompresa nel novero dei delitti elencati nell’art. 51, comma 3 bis, c.p.p., a cui l’art. 275, comma 3, c.p.p. rinvia, “ove sussistano a carico dell’indagato gravi indizi di colpevolezza la misura cautelare da applicare a carico di questo è quella della custodia in carcere, con la sola eccezione dei casi in cui si ritengano non sussistere esigenze cautelari ovvero si ritenga che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con altra più blanda misura”.

Ad avviso dei giudici di legittimità, il combinato disposto delle norme richiamate non può che indurre l’interprete, nell’ipotesi in cui siano ritenuti sussistenti sia i gravi indizi di colpevolezza, che le esigenze cautelari, ad una presunzione relativa di adeguatezza della sola misura custodiale intramuraria, che può essere smentita esclusivamente “sulla base di una valutazione, avente un carattere analitico, degli elementi peculiari del caso in esame i quali consentono di affermare che le esigenze cautelari riscontrate nella fattispecie siano suscettibili di essere soddisfatte anche con altre più blande misure”.

Presunzione che, nell’ipotesi in esame, non è stata ritenuta superata dalla motivazione addotta dal Tribunale di Bari a sostegno delle proprie statuizioni: secondo la Corte, difatti, le argomentazioni con le quali è stata giustificata la sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura dell’obbligo di dimora sarebbero prive di un “effettivo contenuto dimostrativo”: segnatamente, la presenza di un solo precedente penale a carico dell’indagato non sarebbe un argomento idoneo a giustificare un provvedimento come quello impugnato, soprattutto a fronte del contestuale riconoscimento del pericolo di reiterazione, legato alle peculiarità della condotta di cui si è detto nel paragrafo precedente.

Coerentemente ad una siffatta ricostruzione – e contrariamente, ad avviso della Corte, a quanto avvenuto nel caso di specie – il Tribunale avrebbe dovuto indicare compiutamente gli elementi predittivi da cui poter ragionevolmente dedurre l’osservanza di una misura cautelare diversa da quella più afflittiva.

  1. Brevi considerazioni in ordine alle statuizioni della Suprema Corte

Senza voler eccedere nella semplificazione del ragionamento alla base della pronuncia in commento, si può affermare che lo stesso consista in un vero e proprio sillogismo: dal momento che il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti è incluso nell’ambito dell’art. 51, comma 3 bis, c.p.p., e poiché l’art. 275, comma 3, c.p.p. prevede per tutti i reati indicati nel medesimo art. 51, comma 3 bis, c.p.p. la presunzione relativa di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, la stessa misura si applica “in automatico” rispetto all’art. 452 quaterdecies c.p., con la sola esclusione dei casi in cui vi sia una analitica dimostrazione della possibilità di soddisfare le esigenze cautelari, laddove sussistenti, con misure meno invasive.

La custodia cautelare in carcere diviene, dunque, da extrema ratio a regola generale, sul presupposto della automatica assimilazione del delitto in oggetto ai contesti di criminalità organizzata che l’assetto codicistico colpisce – comprensibilmente – in maniera più rigorosa.

La collocazione sistematica dell’art. 452 quaterdecies c.p. (e dell’abrogato art. 260 T.U.A., con il quale la norma in esame si pone in un rapporto di pacifica continuità normativa[3]) importa, come noto, una serie di conseguenze molto gravose sia sul piano sostanziale che procedurale, tra cui è inclusa, per l’appunto, la presunzione di non adeguatezza delle misure cautelari personali diverse dalla custodia cautelare in carcere: basti citare – a titolo esemplificativo ma non esaustivo – la deroga  agli ordinari criteri di competenza per territorio, con prevalenza di quello funzionale, anche rispetto a reati connessi puniti con pena edittale più elevata; le preclusioni in tema di accesso al rito alternativo del patteggiamento; l’elevata segretezza in ordine alla conoscibilità della pendenza del procedimento penale ed alla eventuale proroga dei termini delle indagini preliminari; la possibilità di derogare agli ordinari criteri di acquisizione della prova testimoniale in base al disposto dell’art. 190 bis c.p.p.; il raddoppio dei termini prescrizionali; l’applicabilità delle misure di prevenzione di cui al D.Lgs. n. 159/2011[4].

Se, da un lato, è innegabile che l’attività disciplinata dal delitto de quo sia stata oggetto di ingerenza da parte delle organizzazioni criminali – ribattezzate, a tal proposito, “ecomafie” –, dall’altro si è ravvisato che il medesimo delitto, riferendosi anche e soprattutto a contesti del tutto svincolati da quelli di criminalità organizzata – che non di rado si identificano in realtà imprenditoriali regolarmente autorizzate all’esercizio dell’attività ambientale, ma che abbiano eventualmente operato in difformità di provvedimenti autorizzativi – poco abbia a che fare, nella prassi, con l’ambito associativo che ne ha comportato l’inclusione nell’art. 51, comma 3 bis, c.p.p.[5].

Considerando, inoltre, che la giurisprudenza ha applicato estensivamente la fattispecie prevista dall’art. 260 T.U.A. prima, e dall’art. 452 quaterdecies c.p. poi, anche nei confronti di soggetti, fisici o giuridici, per l’appunto del tutto privi di collegamenti con la criminalità organizzata, si pone il problema di individuare criteri chiari per distinguere le attività effettivamente legate ai contesti criminali associativi – e dunque senz’altro meritevoli di soggiacere al “regime duro” di cui all’art. 51, comma 3 bis, c.p.p. – da quelle connotate da un concreto disvalore di poco superiore rispetto alle fattispecie contravvenzionali previste dalla normativa penale ambientale[6].

Sembrerebbe deporre in tal senso – seppur tra molteplici incongruenze e criticità – anche il Disegno di Legge proposto dal Ministro dell’Ambiente, denominato “Terra mia”, che, nella parte della Relazione illustrativa dedicata alla prospettata estensione delle misure di prevenzione anche ad altri delitti ambientali introdotti dalla L. n. 68/2015, ha operato una distinzione, nell’ambito dei soggetti indiziati per il reato di cui all’art. 452 quaterdecies c.p., a seconda che operino o meno “al di fuori di contesti delinquenziali strutturati in forma associativa[7].

Nel caso in commento, per quanto non specificato, non sembrerebbe che l’indagato sottoposto a misura cautelare fosse collegato ad un ambito criminoso associativo, e, anche qualora lo fosse stato, tale circostanza non avrebbe avuto alcuna rilevanza nell’iter motivazionale sviluppato dalla Suprema Corte, che – al netto dei rilievi avanzati rispetto alle motivazioni del Tribunale del riesame – ha semplicemente tenuto conto della regola processuale indicata nell’art. 275, comma 3, c.p.p.

Non si tratta, ovviamente, di un giudizio critico, in quanto la potenziale “distorsione del sistema” derivante dall’applicazione del regime processuale relativo alle ecomafie anche ad un soggetto che da tale contesto sia del tutto avulso deriva esclusivamente – come detto – dall’inserimento dell’art. 452 quaterdecies c.p. nel corpus dell’art. 51, comma 3 bis, c.p.p.

Sarebbe dunque opportuna una modifica legislativa che, anziché operare per automatismi, consenta di distinguere sul piano sostanziale – e non solo sotto il profilo delle circostanze aggravanti, come attualmente previsto dall’art. 452 octies c.p.[8] – le ipotesi in cui il delitto in esame sia effettivamente collegato alla criminalità organizzata da quelle che, al contrario, ne siano del tutto estranee.

Ciò coerentemente al rispetto dei principi costituzionali di cui agli artt, 3, 24 e 25, comma 1, che risultano sostanzialmente violati ogni volta che un “indagato comune” viene processualmente trattato alla stregua di un “indagato mafioso”, considerate le conseguenze penali ed extrapenali che derivano di default dall’applicazione dell’art. 452 quaterdecies c.p.

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RGA Online – Marini – contributo dicembre 2020

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cass. pen. 30629_2020 (RGA)

Note:

[1] Si riporta, per agio del lettore, il testo della norma citata: “Quando si tratta dei procedimenti per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 416, sesto e settimo comma, 416, realizzato allo scopo di commettere taluno dei delitti di cui all’articolo 12, commi 1, 3 e 3 ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, 416, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 473 e 474, 600, 601, 602, 416 bis, 416 ter, 452 quaterdecies e 630 del codice penale, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416 bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti previsti dall’articolo 74 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, dall’articolo 291 quater del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, le funzioni indicate nel comma 1 lettera a) sono attribuite all’ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente”.

[2] La citata disposizione – relativa, come noto, ai criteri di scelta delle misure cautelari – prevede, difatti, che “La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate. Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 270, 270 bis e 416 bis del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. Salvo quanto previsto dal secondo periodo del presente comma, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’articolo 51, commi 3 bis e 3 quater, del presente codice nonché in ordine ai delitti di cui agli articoli 575, 600 bis, primo comma, 600-ter, escluso il quarto comma, 600 quinquies e, quando non ricorrano le circostanze attenuanti contemplate, 609 bis, 609 quater e 609 octies del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”.

[3] Depongono in tal senso, ex multis, Corte Cass. pen., Sez III, 12 aprile 2019, n. 16036; Corte Cass. pen., Sez III, 4 giugno 2018, n. 24859.

[4] Per approfondimenti sulle conseguenze dell’inclusione dell’art. 452 quaterdecies c.p. nell’ambito dell’art. 51, comma 3 bis, c.p.p. si rimanda a R. Losengo, Per un ritorno alle origini: incidenza della normativa antimafia sull’applicazione e sull’interpretazione giurisprudenziale del reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (art. 260 D.Lgs. 152/2006), in questa Rivista, 2011, 6, pp. 769 e ss.

[5] Sul punto si veda anche R. Losengo, Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti: il labile confine della fattispecie, anche alla luce dell’art. 51, comma 3 bis, c.p.p., in questa Rivista, 2019, 3/4.

[6] Sul punto si segnala A. Galanti, Il traffico illecito di rifiuti: il punto della giurisprudenza di legittimità in Diritto penale contemporaneo, 2018, 12, pp. 31 e ss.

[7] Per approfondimenti sul tema si rimanda a E. Di Fiorino – C. Pacciolla, “Terra mia”: un disegno di legge da rivedere, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 11.

[8] Anche in questo caso si riporta il testo della norma per agio del lettore: “Quando l’associazione di cui all’articolo 416 è diretta, in via esclusiva o concorrente, allo scopo di commettere taluno dei delitti previsti dal presente titolo, le pene previste dal medesimo articolo 416 sono aumentate.

Quando l’associazione di cui all’articolo 416 bis è finalizzata a commettere taluno dei delitti previsti dal presente titolo ovvero all’acquisizione della gestione o comunque del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti o di servizi pubblici in materia ambientale, le pene previste dal medesimo articolo 416 bis sono aumentate.

Le pene di cui ai commi primo e secondo sono aumentate da un terzo alla metà se dell’associazione fanno parte pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio che esercitano funzioni o svolgono servizi in materia ambientale”.

 

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