La Cassazione e la questione di legittimità costituzionale del reato di inquinamento ambientale: una risposta troppo “veloce” ad una questione complessa.

24 Lug 2020 | giurisprudenza, penale, in evidenza 3

di Roberto Losengo e Carlo Melzi d’Eril

Corte di Cassazione, Sez. III – 30 gennaio 2020 (dep. 23 marzo 2020), n. 10469 – Pres. Ramacci, Est. Reynaud – ric. F.

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 452 bis c.p. (sollevata sotto il profilo della violazione del principio di determinatezza della fattispecie incriminatrice) in quanto le espressioni impiegate dal legislatore sono sufficientemente univoche nella descrizione del fatto vietato, di cui la Corte di Cassazione ha fornito un’interpretazione uniforme e costante.

  1. La vicenda processuale.

Dopo essere stata ampiamente “evocata” da un profluvio di commenti critici sin dall’indomani dell’emanazione della l. n. 68/2015[i], è pervenuta all’attenzione della Corte di Cassazione la questione di costituzionalità dell’art. 452 bis c.p. per violazione dei principi di tassatività e determinatezza della fattispecie.

A leggere la decisione assunta dalla Corte, però, i patemi d’animo degli interpreti che, nel quinquennio intercorso, si erano arrovellati sulla conformità alla Costituzione della nuova fattispecie di inquinamento ambientale non erano forse meritevoli di tante ambasce: la Cassazione ha infatti risolto la questione in poche righe, semplificando “all’osso” la questione e dichiarandola manifestamente infondata.

Vero è che la decisione in commento scaturisce (e forse ciò può spiegare il minor dispiego di energie nell’affrontare il tema) nell’ambito di un procedimento cautelare definito, nel grado di legittimità, con una decisione favorevole, in punto di pericolo di reiterazione, per il soggetto sottoposto alle indagini, ed alla misura del divieto di dimora, a cui veniva rimproverato di aver dato corso ad una condotta di pesca abusiva di circa 700 grammi di corallo rosso Mediterraneo con metodo di raccolta distruttivo del substrato roccioso.

La misura coercitiva si fondava sulla contestazione dell’art. 452 bis, comma 1, n. 2 c.p., che come noto sanziona la compromissione o il deterioramento, significativi e misurabili, “di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna”: dall’incipit della sentenza, si rileva infatti che era ascritta all’indagato una condotta di “compromissione e deterioramento” (in abbinata congiuntiva) dell’”ecosistema marino di un’area naturale dichiarata Zona di Protezione Speciale in Comune di Praiano” (si tratta della ZPS “Fondali marini di Punta Campanella e Capri”). Non si evince peraltro se, in relazione alla commissione del fatto nell’ambito di un’area protetta sia stata contestata l’aggravante del comma 2.

Avverso il provvedimento cautelare l’indagato aveva infruttuosamente esperito il ricorso al Tribunale del riesame di Salerno, impugnando poi per cassazione il provvedimento reiettivo.

Dal sunto della sentenza di legittimità, si intende che il ricorso aveva in primo luogo censurato per vizio di motivazione il difetto dei requisiti di concretezza ed attualità del pericolo (motivo infine accolto dalla Corte), sottolineando altresì il fatto che l’attività di pesca del corallo sarebbe stata effettuata in presenza delle necessarie autorizzazioni, che risulterebbero prodotte in atti. Non si comprende però, dalla sentenza, se rispetto a tale aspetto il ricorrente avesse inteso rilevare la carenza del presupposto dell’abusività della condotta, che pure la Corte ha affrontato in motivazione, rilevando peraltro come il richiamo alle autorizzazioni fosse stato prospettato solo in termini generici.

Con il secondo motivo (si desume, per erronea applicazione di legge), l’indagato aveva sostenuto che, in considerazione del modesto prelievo di corallo, non sarebbero stati integrati gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 452 bis c.p. (ed in particolare, la compromissione o deterioramento significativi e misurabili dell’ecosistema marino), essendo al più applicabile il regime sanzionatorio previsto dal D.M. 21 dicembre 2018 per la pesca del corallo in assenza di licenza.

Il ricorrente, infine, aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale della fattispecie di inquinamento ambientale “per contrasto con gli artt. 25 Cost. e 7 C.E.D.U., stante la violazione del principio di tassatività e determinatezza della fattispecie” (la questione viene così sintetizzata nel breve, non consentendo di evincere quanto e come la stessa fosse stata articolata nel gravame).

  1. La decisione della Corte di Cassazione.

La Cassazione ha affrontato in primo luogo l’argomento relativo alla prospettata non configurabilità della condotta quale compromissione o deterioramento dell’ecosistema, richiamandosi agli esiti della consulenza tecnica disposta in sede di indagini, che avrebbe accertato “una attività di raccolta distruttiva massiva delle colonie e nei confronti dell’habitat protetto”, con un conseguente “danno ambientale ed ecologico considerevole, sia a livello di specie che a livello di habitat”.

La stessa consulenza rilevava che “l’accrescimento e lungo ciclo vitale richiederà almeno 40-50 anni in assenza di raccolta o altri impatti prima che si raggiungano condizioni analoghe a quelle distrutte dalle attività di prelievo» e «il danno ambientale determinerà per i decenni a venire una riduzione del capitale naturale e dei beni e servizi eco sistemici ad esso connessi”.

Con evidenza, dunque, la Corte ha tratto da tale approfondimento tecnico (a cui, per quanto si intende dalla sintesi in premessa della decisione, il ricorrente avrebbe solamente frapposto considerazioni non particolarmente incisive sul modesto quantitativo del corallo asportato) adeguato supporto per ritenere integrati i presupposti di compromissione o deterioramento, ed anche il pregiudizio all’ecosistema marino.

Parimenti, la Cassazione non ha condiviso la prospettata derubricazione nella previsione del decreto direttoriale del dicembre 2018, rilevando che l’eventuale concorso di norme sarebbe in ogni caso risolto dalle clausole di sussidiarietà espressa (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”) contenute sia nello stesso decreto, sia nel D.lgs. n. 4/2012, recante “Misure per il riassetto della normativa in materia di pesca e acquacoltura”, di cui la norma regolamentare richiama l’assetto sanzionatorio; rileva peraltro la Corte che l’art. 452 bis c.p. incrimina fatti nemmeno sussumibili nella violazione dei divieti elencati dagli artt. 7 e 10 D.lgs. n. 4/2012 e dunque rimarrebbe una norma speciale rispetto ad essi.

Vi era dunque materia per ritenere che la questione di legittimità costituzionale dedotta fosse, verosimilmente, irrilevante ancor prima che infondata (e, difatti, vi è un cenno in tal senso nella decisione, pur riferito all’accoglimento dei motivi in punto di esigenze cautelari).

Ed è forse per tale motivo che, venendo a trattare della doglianza costituzionale, la Corte l’ha “liquidata” in estrema sintesi, senza prendere posizione (nemmeno in senso critico) rispetto alle già accennate istanze provenienti da plurime e reiterate fonti.

Si riporta per esteso l’inciso con cui la Cassazione ha risolto il tema: “quanto all’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 452 bis c.p., la stessa – oltre che nella specie irrilevante […] – è manifestamente infondata.

Per costante giurisprudenza della Corte costituzionale, la verifica del rispetto del principio di determinatezza della norma penale va condotta non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce.

In particolare, «l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero […] di clausole generali o concetti “elastici”, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (Corte cost., sent. n. 5 del 2004; in senso analogo, ex plurimis, sentt. n. 327 del 2008, n. 34 del 1995, n. 122 del 1993, n. 247 del 1989; ordd. n. 395 del 2005, n. 302 e n. 80 del 2004).

Ciò premesso, reputa il Collegio che la fattispecie in esame non confligga con l’art. 25, secondo comma, Cost., in quanto le espressioni impiegate dal legislatore appaiono sufficientemente univoche nella descrizione del fatto vietato, che, essendo modellato come reato di evento a forma libera, contempla le condotte di “compromissione” e di “deterioramento” – sostanzialmente analoghe, ed in parte addirittura identiche (ci si riferisce al deterioramento), a quelle tradizionalmente descritte con riguardo al delitto di danneggiamento di cui all’art. 635 cod. pen. – ed in relazione alle quali la giurisprudenza di questa Corte ha fornito un’interpretazione uniforme e costante, nel senso dinanzi indicato sub §. 1.

Diversamente da quanto opinato dal ricorrente, poi, l’impiego di aggettivi riferiti a quegli eventi, alternativamente previsti dalla norma, quali “significativi” e “misurabili”, pone dei vincoli, qualitativi e di accertamento, all’offesa penalmente rilevante. Vincoli che delimitano il campo di applicazione della fattispecie in termini, per un verso, di gravità – il che comporta un restringimento del perimetro della tipicità, da cui sono estromessi eventi che non incidano in maniera apprezzabile sul bene protetto – e, per altro verso, di verificabilità, da compiersi sulla base di dati oggettivi, e quindi controllabili e confutabili.

Parimenti preciso è l’oggetto della condotta, che deve aggredire o le matrici ambientali (acque, aria, porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo), ovvero un ecosistema o una biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna.

Ne segue, che, gli elementi costitutivi della fattispecie rimandano a un fatto descritto in maniera sufficientemente precisa, ciò che consente di ritenere rispettato il vincolo imposto dall’art. 25, secondo comma, Cost. nella descrizione dell’illecito penale”.

  1. Aspetti critici della decisione e profili di incostituzionalità ancora irrisolti.

Come anticipato non pochi studiosi hanno lamentato il mancato rispetto dei principi di precisione, determinatezza e tassatività, circostanza che pone l’art. 452 bis c.p. a rischio di incostituzionalità per contrasto con gli artt. 25 Cost. e 7 CEDU. Una simile malinconica conclusione, era basata sulla analisi del testo normativo che restituiva risultati di senso non univoci, confermati dalle numerose, spesso inconciliabili, a volte addirittura opposte, interpretazioni che la dottrina ha offerto dei vari elementi che costituiscono la disposizione.

Ciò che veniva lamentato, in sostanza, era che l’area del “punibile” corrispondesse all’ampio spazio che sta tra i fatti lievi e quelli irrimediabili. E che il legislatore, questa è la critica di fondo, non si fosse fatto carico di individuare – con la precisione imposta da una lettura rigorosa del dettato costituzionale – sia il limite per così dire “inferiore” superato il quale il fatto diventa penalmente rilevante ex art. 452 bis c.p., sia quello “superiore”, oltre il quale si estende il più grave delitto di disastro ambientale, di cui all’art. 452 quater c.p. Era in particolare il primo confine – che faceva di una contaminazione un inquinamento ambientale – ad essere impalpabile e sfumato. Tali connotati della fattispecie rischiavano di rendere, da un lato, la decisione giudiziaria imprevedibile e, dall’altro, il soggetto incapace di comprendere in anticipo le conseguenze della propria condotta, aspetto che può costituire un ostacolo non piccolo alla sua concreta rimproverabilità.

Come noto, infatti, i precetti penali devono essere determinati con precisione, da un lato per garantire la divisione dei poteri, evitando che sia il giudice a individuare l’area del punibile; dall’altro per assicurare la certezza del diritto e, dunque, la conoscibilità di divieti e comandi assistiti da una risposta penale, in modo da sanzionare solo condotte sostenute da presunzione di rimproverabilità[ii]. Come si è detto, sono proprio questi gli scopi che sembrano essere pregiudicati dall’infelice formulazione testuale del reato di inquinamento ambientale.

La dottrina, lo si è già accennato, ha avanzato svariate ipotesi interpretative degli elementi del fatto, quasi tutte compatibili con la lettera della norma, benché assai diverse tra loro. Un simile effetto è la conferma della inaccettabile vaghezza del testo, che in definitiva, lo si ripete, non consente al privato di conoscere il confine tra lecito e illecito, né permette al giudice di separare il grano del lecito dal loglio dell’illecito. La giurisprudenza, dal canto proprio, chiamata a dare concretezza ai presupposti della fattispecie, ha immediatamente formulato, fin dalla prima pronuncia in materia, alcune definizioni, e assunto alcune posizioni, poi ribadite costantemente da tutte le decisioni successive, senza alcuno scostamento, anche di pochi “gradi”[iii]. Una simile circostanza a prima vista dovrebbe dare sicurezza, fornendo una risposta a chi lamenta a gran voce il fatto che la fattispecie sia stata disegnata dal legislatore con mano malferma e con tratto tutt’altro che netto. In verità, se si considera la obiettiva nebulosità della lettera della legge, una simile concordia interpretativa mostra un profilo meno rassicurante: perfettamente consapevoli che la condotta di cui alla fattispecie in questione è priva di tassatività, sono moltissime le parafrasi e le descrizioni di essa compatibili con il testo normativo. Sicché, la prima pronuncia della Corte nomofilattica che ne propone una, è facile che trovi chi viene dopo del tutto concorde. Ma ciò non porta elementi a favore della precisione e determinatezza dell’illecito, anzi.

Qui la Corte, per la prima volta affronta la questione, a cui tuttavia offre una risposta che non riesce ad essere del tutto soddisfacente. Il brano della sentenza che riguarda il punto di cui si tratta è stato riprodotto interamente sopra: riassumendolo, la Cassazione sottolinea come gli elementi della disposizione, per valutarne la compatibilità con l’art. 25 Cost., non debbano essere valutati uno per uno, ma nel loro insieme. Se da tale insieme risulta un comando sufficientemente preciso, la disposizione può dirsi costituzionalmente bene orientata da questo punto di vista. L’istanza di portare la questione alla Corte Costituzionale viene infatti rigettata in quanto, sostiene la Cassazione, avendo riguardo all’intero testo della disposizione, il divieto risulta determinato. Punire la compromissione o il deterioramento significativi e misurabili, significa, tutto sommato, punire il danneggiamento grave. La caratteristica della misurabilità, poi, sempre stando alla pronuncia in commento, altro non è che un monito affinché il giudizio sulla sussistenza del delitto si basi su parametri oggettivi.

E qui l’argomentare dei Supremi Giudici si ferma, senza però, a parere di chi scrive, riuscire a essere persuasivo.

In effetti, nonostante la nozione di danneggiamento sia stata ormai ben delineata da dottrina e giurisprudenza in decenni di contributi, quanto sostenuto dalla Corte non sembra cogliere del tutto nel segno. Anzitutto, se il legislatore avesse inteso punire ogni danneggiamento grave, avrebbe usato appunto la locuzione «danneggiamento grave». Si tratta infatti di nozioni e parole con cui l’ordinamento ha una certa famigliarità. Il sostantivo designa l’evento di un reato da sempre previsto dal codice penale, sicché, lo si ripete, la nozione di inquinamento ambientale non pare tout court corrispondere a quella di danneggiamento (grave), poiché se così fosse stato il legislatore l’avrebbe scritto.

Per l’appunto, la condotta punita non è quella di cui all’art. 635 c.p., bensì quella di compromissione o deterioramento significativi (e misurabili). Entrambi i sostantivi rimandano alla rovina dell’oggetto a cui si riferiscono, che consiste in qualcosa di più severo di un semplice danneggiamento; e del resto, se per punire l’inquinamento fosse sufficiente il rimando ai profili oggettivi della fattispecie di danneggiamento, ciò si risolverebbe in un “annacquamento” (per non dire banalizzazione) della portata innovativa che si proponeva la nuova ipotesi incriminatrice.

Peraltro, tali sostantivi anticipano quanto contenuto nell’aggettivo («significativi») che li accompagna. Chi scrive, la ritiene una scelta particolarmente infelice, innanzitutto perché l’aggettivo in parola è utilizzato in senso “figurato” (letteralmente, infatti, vuol dire «portatore di significato»), con tutte le incertezze di senso che i termini utilizzati in senso figurato portano con sé. In secondo luogo, oltre a essere una sorta di declinazione di quanto già contenuto nei sostantivi, non porta alcuna luce denotativa ulteriore. In altri termini, non aiuta a precisare il fatto. Anzi, aggiungendo vaghezza a vaghezza, lo rende ancor più nebuloso.

D’altra parte, come affermano tutti gli interpreti, l’inquinamento ambientale implica una contaminazione di un certo rilievo. Il punto però è: dove porre il limite? Quando la contaminazione giunge a un livello tale da comportare la commissione del delitto in esame? La risposta a tale quesito non si trova nella disposizione e l’interpretazione suggerita dalla Cassazione, oltre a non persuadere per le ragioni appena scritte, comunque non risolve il problema.

La disposizione infatti non puntualizza il tasso che deve assumere questa gravità, né in assoluto né in relazione a una caratteristica o una funzione della risorsa intaccata. E la giurisprudenza, per quanti sforzi compia, non riesce comprensibilmente a trarre da una lettera muta, parole nette: anche la sentenza in commento, laddove afferma laconicamente che il criterio di significatività “comporta un restringimento del perimetro della tipicità, da cui sono estromessi eventi che non incidano in maniera apprezzabile sul bene protetto” si risolve di fatto, nella mera sostituzione di un aggettivo generico (“significativo”) con altro di analoga ed indistinta qualità (“apprezzabile”).

La misurabilità, poi, pur costituendo in una sorta di regola di diligenza per pubblici ministeri e giudici, non contribuisce a dare tassatività alla disposizione. Allo stesso modo, nessun contributo è dato dall’avverbio «abusivamente»: nonostante la giurisprudenza abbia ormai stabilito che con tale avverbio ci si riferisca ad un comportamento posto in essere “violando una regola”, allo stesso tempo ha sostenuto che tale regola può essere contenuta in una legge, statale o regionale, in un’autorizzazione o addirittura può consistere anche soltanto in un limite consigliato, non per forza posti a tutela dell’ambiente. Una sorta di presupposto di illiceità generica, che non aiuta certo a selezionare le condotte offensive dell’interesse tutelato dalla disposizione, né a precisarne i contenuti.

Se così stanno le cose, ci pare restino d’attualità le critiche formulate a riguardo della mancanza di tassatività e determinatezza della disposizione, critiche a cui la sentenza in commento non ci sembra replicare, e che speriamo trovino un altro giudice disposto a sottoporle alla Corte Costituzionale. Si tratta infatti di una questione di civiltà giuridica: il legislatore dovrebbe dettare disposizioni, non semilavorati normativi, che poi spetta alla giurisprudenza precisare in comandi e divieti.

Lo si è ribadito più volte: la illegittimità di cui si ritiene sia viziato l’art. 452 bis c.p. deriva dalla violazione del principio di tassatività e determinatezza[iv], che pacificamente la Corte costituzionale riconduce all’art. 25 secondo comma Cost.[v]

Chi scrive sa bene che la Corte costituzionale è spesso restia a riconoscere violazioni di tale parametro[vi]. La Cassazione ricorda correttamente il principio in astratto: non è sufficiente che un singolo elemento della fattispecie, considerato autonomamente, si riveli indeterminato, impreciso o vago. La fattispecie deve, viceversa, essere considerata nel suo complesso. Ogni elemento costitutivo deve essere valutato non solo alla luce della sua connessione con gli altri elementi della fattispecie, ma anche in un’ottica teleologico-sistematica[vii]. In quest’ottica la Corte ritiene sufficiente che il precetto sia determinabile in relazione alle «finalità perseguite dall’incriminazione»[viii] e nel contesto della disciplina o comunque del sistema normativo di riferimento. È così ammesso l’utilizzo «di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti elastici»[ix], purché il giudice possa comprenderne il significato con strumenti che non esulino dagli ordinari canoni interpretativi.

Ci pare che, a differenza di quanto affermato dalla sentenza in questione, la vaghezza di tutti gli elementi testuali dell’art. 452 bis c.p. – riguardo gli attributi di significatività e misurabilità, o i concetti di compromissione, deterioramento e persino abusività – sia tale da fondare, anche secondo l’approccio molto cauto descritto, l’illegittimità della disposizione per violazione del principio di tassatività e determinatezza. E ciò poiché, nel caso in esame né il ricorso all’interpretazione teleologica, né tantomeno un approccio sistematico sembrano poter conferire un senso univoco e preciso al lessico utilizzato dal legislatore.

Sotto il primo profilo, è chiara la finalità del legislatore di voler punire chi inquina molto, ma è proprio il dato che distingue il molto dal non abbastanza a non essere indicato. Alla impossibilità di descrivere nel dettaglio la fattispecie in astratto, si affianca quella di individuare le condotte in concreto ad essa riferibili, per di più quando esse debbono rispondere a un dato quantitativo non individuato dalla norma. Ed è proprio nell’indicazione di una soglia quantitativa e nella contestuale mancata indicazione della sua entità che la disposizione maggiormente si segnala per una irrisolvibile vaghezza.

La giurisprudenza costituzionale, va detto, ha in passato fatto salve alcune disposizioni che presentavano soglie quantitative non precisate, ad esempio ritenendo la legittimità del reato di frode fiscale, anche quando il risultato della dichiarazione dei redditi fosse alterato «in misura rilevante»[x]. In quel caso, però, la Corte ha difeso la disposizione sottolineando come l’elemento non concorresse a descrivere la condotta criminalizzata, ma fosse una condizione obiettiva di punibilità e, in quanto tale, soggetta a uno standard di determinatezza affievolito. La dottrina aveva stigmatizzato un simile esito, sottolineando che «non sembra di poter diversificare le pretese di determinatezza in relazione alla diversa “natura” delle norme e degli elementi, quanto piuttosto distinguere i criteri di accertamento in relazione al diverso tipo di “materiale” impiegato per la formulazione della norma»[xi]. Sul punto, è interessante notare come la Corte sia in parte tornata sui propri passi, con una successiva sentenza additiva grazie alla quale è stata precisata meglio la condotta punita dal delitto di frode[xii].

Con riferimento poi al profilo dell’interpretazione sistematica, si sottolinea come l’inquinamento ambientale non sia una previsione “di chiusura” e non abbia nemmeno una funzione ancillare rispetto ad altre disposizioni. Viceversa, il delitto si pone come la norma “cardine” della disciplina del nuovo Titolo VI bis del codice, o comunque quella di più frequente applicazione.

Dalla disciplina di riferimento sembrano mancare appigli «che ci metta[no] nel mezzo di una verità», precisando quei termini dal significato sfuggente di cui è ricco il delitto in esame. E ciò vale soprattutto, lo si ribadisce, per quell’elemento quantitativo che non è determinato e che non trova nel sistema normativo di cui è perno, indicatori per una sua determinazione.

Certo, quando vi sono più interpretazioni possibili, la Corte Costituzionale confida nel diritto vivente e lascia ai giudici di merito e alla Cassazione il compito di ridisegnare ciò che il legislatore ha formulato in modo fumoso[xiii]. Qui, però, non si può anzitutto ritenere che si sia formato un vero e proprio diritto vivente. In ogni caso, la teoria del diritto vivente tende a escludere interpretazioni in contrasto con la Costituzione da quelle ad essa conformi, ma il problema per cui si segnala il reato di inquinamento ambientale non è questo. La disposizione, infatti, si apre a svariate interpretazioni nessuna delle quali è in astratto incostituzionale. Ciò che viola il dettato della Grundnorm sta proprio nella pluralità di interpretazioni possibili in forza di un dato testuale privo di tassatività.

Ora, in questi anni, come era prevedibile, si sta stabilizzando un orientamento giurisprudenziale volto a individuare la soglia della punibilità. Tuttavia ciò non si ritiene sufficiente a “sanare” la formulazione originaria viziata di una indeterminatezza senza speranza[xiv].

Restiamo convinti che la disposizione “centrale” della riforma del 2015 avrebbe meritato una ben maggiore attenzione da parte del legislatore, che ha viceversa approvato una sorta di “abbozzo normativo”, lasciando alla giurisprudenza il compito di definirne la latitudine. Tuttavia, la definizione delle regole di dettaglio, in un sistema costituzionalmente bene orientato, non può essere lasciata alla giurisprudenza, anche quando questa sia “frutto” di indirizzi ragionevoli. Al fine di scongiurare tale rischio, ormai in atto, siamo (e rimaniamo) convinti non resti che una pronuncia di incostituzionalità della disposizione.

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Losengo10469

Per il testo della sentenza (estratto dal sito della Corte di Cassazione) cliccare sul pdf allegato

Losengo-Melzi_Cass. pen., Sez. III, 30 gennaio 2020, n. 10469

                [i] Parla esplicitamente di «una tipologia di fattispecie che non dovrebbe nemmeno vedere la luce e, quindi, destinata, naturalmente, a cadere per i gravi profili di incostituzionalità, sotto lo specifico aspetto del mancato rispetto del principio di tassatività-determinatezza» E. Lo Monte, Art. 452 bis c.p.: la locuzione «compromissione o deterioramento significativi e misurabili» all’esame dei giudici di legittimità, in Dir. giur. agr. e alim, 2016, n. 6, p. 11. V. anche M. Caterini, Effettività e tecniche di tutela nel diritto penale dell’ambiente, Napoli, 2017, pp. 340 ss., secondo cui «i concetti di “compromissione” e “deterioramento”, così come quelli di “significatività” e “misurabilità” (…) si prestano a molteplici sensi e, dunque, applicazioni, con una chiara violazione del principio di determinatezza/tassatività e la conseguente imponderabilità delle decisioni giudiziali». Si veda altresì, F. D’Alessandro, La tutela penale dell’ambiente tra passato e futuro, in Jus, 2016, 1, p.111, che sottolinea, riferendosi anche al delitto di disastro ambientale di cui all’art. 452 quater c.p., come «la precaria formulazione legislativa di tali norme (…) [lasci] intravedere all’orizzonte un delicato conflitto, nemmeno tanto potenziale, tra l’esigenza di migliorare gli standard di reazione dell’ordinamento nei confronti delle forme di criminalità ambientale e quella di conservare inalterati quei connotati di garanzia e certezza del diritto che rendono autenticamente democratico e liberale un sistema giudizio. Tra le due esigenze, non appare dubbio che sia la seconda a dove essere privilegiata: alla Corte Costituzionale (…) il compito di vigilare affinché, nella prassi, la bilancia non finisca con il pendere dalla parte sbagliata». Cfr. inoltre, M. Telasca, Osservazioni sulla l. n. 68/2015 recante “disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”: ovvero i chiaroscuri di una agognata riforma, in Dir. pen. cont., 17 luglio 2015, p. 21 ss. la quale ritiene l’individuazione della reale portata degli aggettivi “significativo” e “misurabile” in assenza di qualunque indicazione da parte del legislatore, un aspetto tra i più problematici, tanto che «difficile appare la compatibilità a Costituzione di una siffatta tipologia di norme». Non mancano opinioni contrarie, che ritengono assai dubbio, nonostante la disposizione di cui all’art. 452 bis c.p. non brilli per conformità al principio di precisione, «che questioni di legittimità costituzionale dell’art. 452 bis c.p. per contrasto con il principio di precisione possano trovare accoglimento» poiché «come è noto, la Corte Costituzionale di ispira sul punto ad un rigoroso self restraint» C. Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, Torino, 2016, p. 249, ribadito anche in Reati contro l’ambiente e il territorio, in AA.VV., Trattato teorico e pratico di diritto penale, diretto da F. Palazzo e C.E. Paliero, a cura di M. Pelissero, vol. XI, Torino, 2019, pp. 91-92. In questo senso, si veda altresì P. Patrono, I nuovi delitti contro l’ambiente: il tradimento di un’attesa riforma, in www.lalegislazionepenale.eu, 11 gennaio 2016, p. 10, secondo cui «la formulazione del nuovo art. 452 bis c.p. (…) sembra poter resistere al vaglio di costituzionalità solo in virtù del noto orientamento “conservativo” della Corte Costituzionale sul “diritto vivente” che, in definitiva lascia all’interpretazione uniforme, costante della giurisprudenza, in particolare quella della Cassazione, il compito – che dovrebbe essere del legislatore – di determinare la fattispecie criminosa».

             [ii] Sui duplici obiettivi assicurati dal principio di determinatezza v., ex pluribus, Corte Cost., sent. n. 21 del 2009; n. 327 del 2008; n. 185 del 1992; n. 364 del 1988. Cfr. F.C. Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 2016, pp. 135 ss.

             [iii] Si consenta il rimando a Corte Cass. pen., sez. III, ud. 21 settembre 2016, dep. 4 novembre 2016, n. 46170, in questa Rivista, n. 3-4/2016, p. 472 ss., con nota di R. Losengo e C. Melzi d’Eril, Inquinamento ambientale: la Corte di Cassazione costretta a fare il legislatore (in cui erano già prospettati numerosi profili di incostituzionalità, che non appaiono ad oggi risolti); nella sentenza, la Corte forniva per la prima volta (in ordine di deposito delle motivazioni) una definizione di “compromissione”, “deterioramento”, “significativi” e “misurabili” nonché del requisito dell’abusività della condotta. È stato in particolare stabilito che la prima comporterebbe uno «squilibrio funzionale», mentre il deterioramento uno «squilibrio strutturale»: il primo incidente sui normali processi naturali connessi alla specificità della matrice ambientale, il secondo caratterizzato dal decadimento dello stato e della qualità degli stessi. Il termine “significativo” invece «denota senz’altro incisività e rilevanza»; l’aggettivo “misurabile” inoltre va inteso nel senso di «quantitativamente apprezzabile o, comunque, oggettivamente misurabile». Con riferimento infine al requisito dell’abusività si precisa che esso sottintenda la violazione di puntuali violazioni di legge (statali o regionali) o di un provvedimento amministrativo.

             [iv] In dottrina e giurisprudenza i termini tassatività, determinatezza e talvolta precisione sono generalmente usati per indicare l’obbligo costituzionale della formulazione delle norme penali in modo chiaro e inequivoco; cfr., ex pluribus, G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, IV ed. aggiornata, Bologna, 2004, pp. 67 ss.; D. Pulitanò, Diritto penale, V ed., Torino, 2013, pp. 151 ss. Altri autori ritengono invece preferibile distinguere la precisione come principio riferibile espressamente alla formulazione delle disposizioni penali; la determinatezza come la necessità che le fattispecie penali corrispondano a fatti che possono avverarsi in concreto e di cui è altresì possibile fornire prova; infine la tassatività in senso stretto come divieto di analogia.  Cfr. G. Marinucci – E. Dolcini, Diritto Penale. Parte Generale, cit., pp. 67 e ss. Talvolta anche la giurisprudenza costituzionale ha distinto i concetti di determinatezza e tassatività (ad es., Corte Cost., sent. n. 247 del 1989), ma nella maggioranza delle occasioni ne ha fatto un uso sostanzialmente promiscuo.

             [v] In generale, senza pretesa di esaustività, su tassatività e determinatezza della legge penale v. F.C. Palazzo, Principio di determinatezza nel diritto penale. La fattispecie, Padova, 1979; S. Moccia, La “promessa non mantenuta”. Ruolo e prospettive del principio di determinatezza/tassatività nel sistema penale italiano, Napoli, 2001; M. D’Amico, Il principio di determinatezza in materia penale fra teoria e giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost., 1998, pp. 315 ss.; A. Fallone, Il principio di tassatività nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giur. merito, 2008, pp. 279 e ss.; G. de Vero, La riserva di legge penale, in Id. (a cura di), La legge penale, il reato, il reo, la persona offesa, vol. I del Trattato teorico/pratico di diritto penale, Torino, 2010, pp. 31 ss.

             [vi] Cfr. G. de Vero, La riserva di legge penale, cit., p. 37.

             [vii] V. Corte Cost., sent. n. 282 del 2010; n. 327 del 2008; ord. n. 94 del 2012.

             [viii] Così Corte Cost., sent. n. 5 del 2004.

             [ix] Così Corte Cost., sent. n. 327 del 2008; v. anche sent. n. 282 del 2010; n. 5 del 2004; n. 34 del 1995; n. 122 del 1993; n. 247 del 1989.

             [x] Corte Cost., sent. n. 247 del 1989; la disposizione oggetto del giudizio era l’art. 4, comma 1, n. 7 del d.l. n. 429/1982, come convertito dalla l. n. 516/1982. Con tale pronuncia la Corte indicava comunque dei criteri per individuare la condotta punibile, individuandoli attraverso una lettura sistematica dell’intero art. 4, comma 1 del decreto-legge (in specie, la Corte riteneva che la condotta dovesse esprimersi nelle forme corrispondenti alle altre ipotesi di frode indicate analiticamente nei nn. 1-6 di tale comma).

             [xi] Così F.C. Palazzo, Elementi quantitativi indeterminati e loro ruolo nella struttura della fattispecie (a proposito di frode fiscale), in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, p. 1200.

             [xii] Corte Cost., sent. n. 35 del 1991. La pronuncia segue al mancato recepimento da parte della giurisprudenza ordinaria dell’interpretazione sistematica della norma che la Corte costituzionale aveva proposto con la precedente sent. n. 247 del 1989.

             [xiii] P. Patrono, I nuovi delitti contro l’ambiente: il tradimento di un’attesa riforma, cit., p. 10.

             [xiv] V. Corte Cost., sent. n. 327 del 2008, secondo cui «l’esistenza di interpretazioni giurisprudenziali costanti non [vale], di per sé, a colmare l’eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale. Sostenere il contrario significherebbe, difatti, “tradire” entrambe le funzioni del principio di determinatezza. La prima funzione – cioè quella di garantire la concentrazione nel potere legislativo della produzione della regula iuris – verrebbe meno giacché, nell’ipotesi considerata, la regula verrebbe creata, in misura più o meno ampia, dai giudici. La seconda funzione – cioè quella di assicurare al destinatario del precetto penale la conoscenza preventiva di ciò che è lecito e di ciò che è vietato – non sarebbe rispettata perché tale garanzia deve sussistere sin dalla prima fase di applicazione della norma, e non già solo nel momento (che può essere anche di molto successivo) in cui si è consolidata in giurisprudenza una certa interpretazione, peraltro sempre suscettibile di mutamenti».

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