Il reato di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti e l’individuazione della qualità di titolare di impresa

02 Apr 2023 | penale, giurisprudenza

Di Giulia Montanara

Corte di Cassazione, Sez. III – 6 ottobre 2022 (dep. 20 gennaio 2023), n. 2339 – Pres. Ramacci, Est. Aceto – ric. Forastiere.

Il reato di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, è configurabile nei confronti di qualsiasi soggetto che abbandoni rifiuti nell’esercizio, anche di fatto, di un’attività economica, indipendentemente dalla qualifica formale dell’agente o dalla natura dell’attività medesima. 

  1. La vicenda processuale.

La pronuncia in analisi si occupa del ricorso per cassazione presentato dall’imputato avverso la sentenza del Tribunale di Lagonegro, che lo aveva dichiarato colpevole del reato di cui agli artt. 192, commi 1 e 2, 256, comma 2, D.Lgs. 152/2006 e lo aveva condannato alla pena dell’ammenda.

La condotta di reato contestata e ritenuta di rilievo penale era segnatamente consistita nel deposito in modo incontrollato da parte del ricorrente, quale titolare di un’impresa individuale attiva nel settore edilizio e artigiano, di rifiuti speciali non pericolosi – principalmente rifiuti provenienti da attività di costruzione e demolizione – all’interno di un terreno agricolo nella sua disponibilità.

Con il primo motivo di ricorso, l’interessato lamentava l’erronea applicazione dell’art. 256, comma 2, D.Lgs. 152/2006 e sosteneva che la qualità di imprenditore non fosse stata in alcun modo provata dal Tribunale, non essendo stata prodotta alcuna visura camerale e non potendosi desumere dalla testimonianza resa dall’operante di Polizia Giudiziaria sentito.

Tramite il secondo motivo, l’imputato deduceva la nullità della sentenza impugnata sotto il profilo sia della totale assenza di motivazione sia della mancanza di prova sempre con riferimento all’esistenza della qualifica di imprenditore, da considerarsi quale elemento costitutivo essenziale della fattispecie ascritta di cui all’art. 256, comma 2, T.U.A.

Con il terzo e il quarto motivo di ricorso, il ricorrente infine censurava rispettivamente l’inosservanza delle disposizioni processuali in tema di utilizzabilità delle proprie dichiarazioni rese nonché la manifesta illogicità della motivazione circa l’effettiva riconducibilità in capo allo stesso della condotta di sversamento dei rifiuti rinvenuti abbandonati sul terreno, e, con l’ultimo motivo, l’erronea applicazione del divieto di immissione dei rifiuti in acque superficiali o sotterranee previsto dall’art. 192, comma 2, D.Lgs. 152/2006.

A fronte dei motivi proposti, la Corte di legittimità tuttavia condivideva le determinazioni raggiunte dal Giudice di merito e, con particolare riguardo ai primi due motivi di rilievo in questa sede, affermava che il Tribunale avesse correttamente ritenuto integrata la condotta contestata all’imputato, precisando come il reato previsto dall’art. 256, comma 2, T.U.A. sia “un reato proprio che può essere commesso solo dal titolare dell’impresa, dai responsabili di enti e da coloro che, comunque, di fatto esercitano poteri gestori dell’impresa” e come tale qualità possa “essere dimostrata in qualsiasi modo ed essere desunta anche dalle modalità stesse di consumazione del reato non essendo necessaria, ai fini della consumazione del reato stesso, la qualifica formale di imprenditore”, concludendo dunque che, al fine della configurabilità del reato in questione, debba essere accertato l’esercizio anche di fatto di un’attività di tipo economico, a prescindere dalla forma della qualifica rivestita dall’agente e dalla natura dell’attività svolta.

La Suprema Corte dichiarava pertanto inammissibile il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende.

  1. Il soggetto attivo del reato di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. 152/2006 ed i relativi criteri identificativi.

La contravvenzione di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti è pacificamente annoverata dai contributi giurisprudenziale e dottrinale[1] tra i reati propri, considerato che, come si evince dal dettato letterale della norma, può essere commessa esclusivamente da coloro che rientrano nella categoria dei titolari di imprese e dei responsabili di enti.

Si noti, in primo luogo, come la peculiare qualifica soggettiva che caratterizza l’individuazione dell’autore della fattispecie delineata dall’art. 256, comma 2, T.U.A. costituisca l’elemento specializzante[2] rispetto all’illecito amministrativo previsto dall’art. 255, comma 1, T.U.A., che punisce indistintamente chiunque commetta le medesime condotte di abbandono, deposito incontrollato o immissione di rifiuti nelle acque superficiali o sotterranee senza prevedere specificazioni soggettive.

La ratio del differente trattamento riservato alla medesima condotta è, con evidenza, fondata su una presunzione di minore incidenza pregiudizievole sull’ambiente da parte di quelle condotte di abbandono, deposito o sversamento di rifiuti che sono poste in essere dai privati, rispetto a quelle realizzate da soggetti che svolgono attività imprenditoriali o di gestione di enti idonee a produrre rifiuti con una certa continuità.

Preso atto di tale preliminare distinzione tra violazioni di carattere penale e amministrativo, le pronunce della giurisprudenza di legittimità si sono concentrate sul tema della definizione (e conseguente dilatazione) della figura di soggetto attivo del reato in commento e nel corso del tempo si sono assestate nell’assegnare preminente rilevanza al dato concreto e non al dato formale tipico della qualifica rivestita dai destinatari della norma, prevedendo che con imprenditore debba intendersi non solo colui che sia formalmente il titolare dell’attività imprenditoriale ma anche colui che, di fatto, eserciti effettivamente tale attività[3].

È stato ulteriormente precisato che sono riconducibili nel novero dei titolari di impresa, unitamente ai soggetti che esercitano in modo professionale attività tipiche di gestione di rifiuti (raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio o intermediazione), altresì coloro che concretamente conducano attività di gestione di rifiuti in modo secondario, accessorio o consequenziale rispetto all’esercizio di una differente e primaria attività e che, in tale specifico contesto, possono quindi integrare le illecite condotte di abbandono o deposito incontrollato.

La centralità dell’attività in concreto svolta dall’autore del reato è stata peraltro parimenti valutata dalla giurisprudenza anche con riguardo alla differente fattispecie contravvenzionale prevista dal comma 1 dell’art. 256, D.Lgs. 152/2006, che come noto sanziona le ipotesi di attività di gestione di rifiuti non autorizzate.

Sotto questo profilo, è stato innanzitutto osservato che, pur trattandosi di un reato comune (stante l’utilizzo del pronome “chiunque”), gli effettivi autori della fattispecie non possano essere indifferentemente tutti i soggetti che svolgono le attività indicate dalla norma in assenza di titolo abilitativo, bensì coloro che, esercitando in forma imprenditoriale tali attività, siano tenuti a dotarsi delle autorizzazioni, iscrizioni o comunicazioni prescritte e siano pertanto sottoposti ai relativi controlli.

Per assumere la veste di agente del reato, è stato inoltre precisato come non possa assegnarsi esclusiva valenza alla sussistenza (o meno) di una qualifica formale e soggettiva ma debba rilevare, per l’appunto, l’attività che in concreto viene realizzata[4].

Risulta dunque evidente l’uniforme tendenza seguita dalla Corte di legittimità – come confermato dalla pronuncia in esame – volta a valorizzare l’aspetto fattuale, e non quello meramente formale, proprio dell’autore di entrambe le fattispecie di reato previste nei primi due commi dell’art. 256 T.U.A. (che, in ogni caso, mantengono le rispettive peculiarità), al compiuto fine di garantire, ampliando l’ambito di operatività delle norme, che lo stesso trattamento sanzionatorio sia riservato a soggetti che, di fatto, realizzano nella medesima veste condotte di analoga portata.

  1. Il principio ribadito dalla Cassazione.

La sentenza in commento si inserisce nel chiaro quadro interpretativo sopra delineato e conferma un insegnamento per la verità ampiamente condiviso delle precedenti pronunce intervenute sul tema.

Posta la pacifica natura di reato proprio, il principio (ri)affermato dalla Suprema Corte si focalizza sulla portata e sull’estensione in concreto delle qualifiche soggettive rivestite dai destinatari del precetto previsto dall’art. 256, comma 2, D.Lgs. 152/2006.

Viene difatti attestato che le qualità di titolare di impresa e di responsabile di ente possano essere comprovate dal Giudice con qualsiasi mezzo, inclusa l’effettiva e complessiva modalità di commissione del reato, e non possano, invece, essere semplicemente dedotte né dalla mera qualifica formale di imprenditore ricoperta dall’agente né dalla natura dell’attività da quest’ultimo svolta.

Per ritenersi integrata la qualità di titolare d’impresa occorre quindi fare riferimento non alla formale investitura posseduta dal soggetto ma alla funzione in concreto svolta, non potendo la verifica di questo aspetto limitarsi all’esame della formale ripartizione delle competenze interna ad ogni singola realtà imprenditoriale ma dovendo la stessa essere estesa alla valutazione effettiva dell’assetto societario esistente e del ruolo ricoperto dal soggetto agente.

Per quanto concerne invece la natura dell’attività imprenditoriale esercitata, rilevano non solo le attività tipiche indicate al comma 1 dell’art. 256, T.U.A., ma qualsiasi tipologia di attività effettuata da un’impresa o un ente, con personalità giuridica o operante di fatto, dalla quale comunque derivino i rifiuti oggetto di abbandono o deposito.

Con specifico riferimento al caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che il ricorrente rientrasse nella categoria dei potenziali autori della condotta incriminata proprio sulla base di una serie di elementi di tipo concreto e fattuale che avevano caratterizzato nel complesso la consumazione della contravvenzione e di cui la Corte di Cassazione, alla luce dei principi illustrati, ha del tutto comprensibilmente condiviso la rilevanza.

È stata in particolare posta evidenza sul fatto che l’imputato fosse l’effettivo titolare di un’impresa individuale che esercitava un’attività economica (edilizia e artigiana) in forma organizzata, che il deposito incontrollato avesse ad oggetto rifiuti speciali non pericolosi riconducibili a tale attività e che erano stati trasportati dal ricorrente mediante un mezzo di cantiere, e che il deposito fosse avvenuto su un terreno nella diretta disponibilità dell’interessato.

Tutti i predetti elementi hanno pertanto condotto il Giudice di legittimità a valutare la sentenza impugnata priva di censure, derivandone conseguentemente l’infondatezza di tutti i motivi di ricorso formulati e la conferma della responsabilità del ricorrente.

Per il testo della sentenza cliccare sul pdf allegato

Cass. III, 2339_2023

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Montanara – aprile 2023

Note

[1] Per un approfondimento sul punto si veda S. Nespor, L. Ramacci, Codice dell’ambiente. Profili generali e penali, Milano, 2022, pp. 2645-2647.

[2] Corte Cass. pen., Sez. III, 15 maggio 2020, n. 15234.

[3] Si vedano, ex multis, Corte Cass. pen., Sez. III, 18 dicembre 2017, n. 56275, Corte Cass. pen., Sez. III, 15 giugno 2017, n. 30133 e Corte Cass. pen., Sez. III, 18 settembre 2013, n. 38364.

[4] Corte Cass. pen., Sez. III, 11 febbraio 2016, n. 5716.

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