Il “ravvedimento operoso” non evita il sequestro dell’impianto in assenza dell’autorizzazione alle emissioni in atmosfera

16 Set 2019 | giurisprudenza, penale

di Paolo Roncelli 

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 29 gennaio 2019, n. 4250 – Pres. Di Nicola, Est. Ramacci – ric. F. 

La contravvenzione prevista dall’art. 279, comma 1, del D.L.gs. 3 aprile 2006, n. 152 ha natura di reato permanente, la cui consumazione termina solo con il rilascio dell’autorizzazione o, in alternativa, con la cessazione dell’attività. Pertanto l’esercizio in assenza della prescritta autorizzazione di uno stabilimento ne giustifica il sequestro finalizzato a impedire la protrazione della condotta illecita.

Mediante la pronuncia in commento la Suprema Corte ha respinto il ricorso avverso il provvedimento con il quale il Tribunale del riesame aveva ordinato il sequestro preventivo di alcuni beni facenti parte dell’azienda del ricorrente, essendo stata ipotizzata la commissione, da parte di quest’ultimo, del reato di cui all’art. 279 del D.Lgs. n. 152/2006 per l’esercizio di attività comportante emissioni in atmosfera e utilizzo di solventi senza alcun sistema di captazione delle emissioni prodotte dai macchinari e in assenza della prescritta autorizzazione.

Poiché la necessità e la contestuale assenza dell’autorizzazione alle emissioni in atmosfera non erano contestabili, al fine di sostenere l’illegittimità del provvedimento di sequestro il ricorrente ha dedotto violazione di legge e assenza o mera apparenza della motivazione in relazione al periculum in mora, requisito necessario per poter disporre la misura cautelare in questione.

In particolare, il ricorrente si è lamentato del fatto che, nell’ordinare il sequestro, il Tribunale del riesame si sia limitato a individuare nella sola permanenza del reato l’elemento determinante ai fini della sussistenza del requisito del periculum, senza tuttavia considerare i dati emergenti dalla documentazione prodotta dalla difesa e, segnatamente, tutta una serie di attività poste in essere dall’azienda dopo i controlli subiti al fine di mitigare le conseguenze potenzialmente dannose per l’ambiente, tra cui: l’applicazione di filtri non presenti presso la ditta al momento dei controlli, l’effettuazione di analisi sui fumi in data successiva al montaggio dei filtri con valori al di sotto della soglia massima prevista per legge, la modifica del ciclo lavorativo, nonché la presentazione di un’istanza al fine di ottenere, se pur tardivamente, l’autorizzazione unica ambientale. Tutte attività che, secondo la tesi del ricorrente, avrebbero dovuto condurre il Tribunale del riesame a una valutazione di insussistenza del periculum, essendo la situazione di fatto radicalmente mutata rispetto a quella esistente al momento in cui erano stati effettuati i controlli.

La Suprema Corte, tuttavia, ha respinto il ricorso partendo dall’analisi del reato per il quale il ricorrente risultava imputato, ossia l’esercizio di uno stabilimento in assenza della prescritta autorizzazione sanzionato dall’art. 279 del D.Lgs. n. 152/2006.

È infatti indubbia, secondo costante orientamento giurisprudenziale, la natura permanente del reato di esercizio o installazione di impianto in assenza di autorizzazione, la cui consumazione termina solo con il rilascio dell’autorizzazione o, in alternativa, con la cessazione dell’esercizio dell’impiantoi. Ciò in quanto, come ricordato dai giudici di legittimità, trattandosi di norma finalizzata alla tutela della qualità dell’aria, l’autorizzazione medesima rappresenta il mezzo attraverso il quale la pubblica amministrazione procede alla preventiva verifica della rispondenza dell’impianto alle prescrizioni della leggeii.

Ciò posto, la Suprema Corte ha rilevato come i giudici dell’appello abbiano correttamente affermato che, pur in presenza delle iniziative poste in essere per migliorare la situazione accertata all’atto del primo sopralluogo, l’azienda continuava a svolgere la propria attività senza l’autorizzazione richiesta dalla legge, in questo concretizzandosi la permanenza del reato ascritto e, pertanto, risultando pacificamente sussistenti i necessari requisiti della concretezza e attualità del pericolo richiesti dalla giurisprudenza per la disposizione della misura cautelare.

La sentenza in rassegna statuisce dunque che, stante la natura permanente del reato di esercizio di attività in assenza di autorizzazione alle emissioni, la valutazione che i giudici devono compiere in merito alla sussistenza o meno del periculum in mora per decidere se disporre il sequestro preventivo dell’impianto debba tenere conto esclusivamente del dato fattuale dell’assenza del titolo abilitativo.

È invece irrilevante, sotto tale profilo, un eventuale “ravvedimento operoso” del soggetto interessato che, nonostante il compimento di attività atte a migliorare la situazione ambientale e la presentazione della domanda di autorizzazione tardiva, potrebbe veder seriamente pregiudicata la propria attività.

Occorre infatti considerare che un eventuale provvedimento di sequestro preventivo potrebbe avere effetti molto pesanti per l’attività esercitata nello stabilimento oggetto di sequestro, potendo giungere a bloccare tutta la gestione del complesso dell’attività imprenditoriale, anche in presenza, in ipotesi, di comparti produttivi non direttamente interessati dalla questione emissioni.

Sotto tale profilo, l’unico spazio di manovra per poter evitare il blocco totale dell’attività produttiva causata dall’esecuzione della misura cautelare in questione sembra potersi ravvisare nel principio secondo cui, come ricordato dalla giurisprudenza, anche il sequestro di uno stabilimento non deve violare il principio di proporzionalità e adeguatezza ex art. 275 c.p.p., e ciò accade quando “la misura cautelare sia applicata con modalità minimamente invasive, atte a contemperare le esigenze cautelari con quelle produttive”iii.

Tale principio, peraltro, è stato affermato con riferimento alla diversa fattispecie dell’esercizio dell’impianto in violazione delle prescrizioni autorizzative (art. 279, commi 2 e 3 del D.Lgs. n. 152/2006), mentre in relazione alla situazione di assenza di autorizzazione la stessa Corte di Cassazione sembra tenere un atteggiamento più prudente, avendo di recente affermato che “in relazione al reato di esercizio di attività in assenza di autorizzazione alle emissioni in atmosfera ex art. 279, D.Lgs. 152/2006, se dai sopralluoghi effettuati nello stabilimento emerge che non vi è un unico luogo di fuoriuscita delle emissioni, è necessario il sequestro dell’intera area, perché la condotta di reato riguarda l’intero complesso aziendale nelle varie fasi di lavorazione”iv. Anche tale pronuncia, tuttavia, sembra lasciare aperta la possibilità di un sequestro limitato al solo impianto (o ai soli impianti) dello stabilimento generatore di emissioniv, ove questi siano chiaramente identificabili.

Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Corte di Cassazione) cliccare sul pdf allegato.

Roncelli_Cass. pen. Sez. III n. 4250_2019

NOTE:

i Cfr. Corte Cass. pen., Sez. III, 10 settembre 2018, n. 40243, in Amb. & Svil., 11, 2018, p. 759; Corte Cass. pen., Sez. III, 24 febbraio 2014, n. 8678 in Amb. & Svil., 5, 2014, p. 403; Corte Cass. pen., Sez. III, 28 marzo 2008, n. 13225.

ii Cfr., in questo senso, Corte Cass. pen., Sez. III, 7 gennaio 2013, n. 192 in Amb. & Svil., 5, 2013, p. 467.

iii Così, Corte Cass. pen., Sez. III, 8 giugno 2015, n. 24373. Le modalità minimamente invasive sono state individuate, nel caso di specie, nell’autorizzazione “all’uso dell’impianto con le opportune cautele volte ad impedire la prosecuzione del fenomeni inquinanti (…). Risulta, invero, che in accoglimento di istanze della difesa il vincolo inizialmente imposto sia stato dapprima limitato con la restituzione agli aventi diritto di alcuni settori ed edifici, autorizzando successivamente l’uso dell’impianto (evidentemente con le opportune cautele volte ad impedire la prosecuzione del fenomeni inquinanti)”.

iv Così, Corte Cass. pen., Sez. III, 16 febbraio 2017, n. 7390.

v Analogo principio è applicato dalla giurisprudenza anche in tema di confisca dei beni ai sensi dell’art. 240, comma 1 c.p. per il caso di successiva condanna per il reato ex art. 279, comma 1 del D.Lgs. n. 152/2006: la confisca deve infatti riguardare i soli macchinari da cui provengono le emissioni in atmosfera e per i quali è necessario dotarsi di autorizzazione (in questo senso, Corte Cass. pen., Sez. III, 29 dicembre 2015, n. 50996, in Amb. & Svil., 2, 2016, p. 132).

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