Il quantum del profitto confiscabile: riflessioni sui più recenti approdi interpretativi della Corte di Cassazione

02 Mag 2024 | giurisprudenza, penale

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 6 marzo 2024 (dep. 20 marzo 2024), n. 11617 – Pres. Ramacci, Est. Galanti – ric. V.L.

La nozione di profitto del reato di cui all’art. 452 quaterdecies c.p. non può essere ridotta al solo “utile netto”, dovendosi invece ritenere, in conformità con la natura “riequilibratrice” di tale confìsca (ed a differenza di quella dello “strumento del reato”), come riferita a tutto ciò che consegue in via immediata e diretta al reato, senza considerare gli eventuali costi sostenuti, la cui detrazione sottrarrebbe il colpevole al rischio economico del reato.

In tema di sequestro finalizzato alla confisca del profitto del delitto di cui all’art. 452 quaterdecies c.p., ove la natura della fattispecie concreta e dei rapporti economici ad essa sottostanti non consenta d’individuare la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun concorrente, o la sua esatta quantificazione, il sequestro preventivo deve essere disposto per l’intero importo del profitto nei confronti di ciascuno, pur senza alcuna duplicazione e nel rispetto dei canoni della solidarietà interna tra i concorrenti.

1. Premessa

Con ordinanza del settembre 2023, il Tribunale del Riesame di Potenza rigettava l’appello dell’imputato avverso il provvedimento con cui il GIP aveva respinto l’istanza di revoca del sequestro preventivo in relazione al reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 452 quaterdecies c.p., aggravato ex art. 112 e 416 bis c.p.

Nello specifico, il ricorrente, titolare di quote di una società a responsabilità limitata, era imputato di avere illecitamente trasportato, per il successivo smaltimento, rifiuti provenienti da attività di cartiera e fanghi di depurazione.

È opportuno premettere che la sentenza in commento, sulla base dei motivi sviluppati in sede di impugnazione, ha affrontato – oltre ad una serie di questioni dal rilievo squisitamente procedurale – due tematiche interessanti sotto il profilo penale-ambientale: a) la responsabilità dei soggetti che intervengono nella “filiera” di gestione dei rifiuti; b) la determinazione del profitto del reato di cui all’art. 452 quaterdecies c.p., ed, in ipotesi di reati plurisoggettivi, della quota sequestrabile in capo a ciascun concorrente.

Rispetto al primo punto, la Suprema Corte ha stabilito che tutti i soggetti che intervengono nel circuito della gestione dei rifiuti sono responsabili non solo della regolarità delle operazioni da essi stessi posti in essere, ma anche di quelle dei soggetti che precedono o seguono il loro intervento, mediante l’accertamento della conformità dei rifiuti a quanto dichiarato dal produttore o dal trasportatore, sia pure tramite la verifica della regolarità degli appositi formulari, nonché attraverso il controllo del possesso delle prescritte autorizzazioni da parte del soggetto al quale i rifiuti sono conferiti per il successivo smaltimento.

Sul secondo, ha diffusamente argomentato attraverso un’ampia panoramica giurisprudenziale, per enunciare – o meglio, per ribadire – alcuni principi di carattere generale, su cui vale la pena soffermarsi e che formeranno, nello specifico, l’oggetto delle odierne riflessioni.

2. La definizione di profitto tra ricavo “lordo” e “netto”

Con il motivo di ricorso dedicato al profitto, oltre a lamentare gli asseriti errori di calcolo del Tribunale del Riesame nella quantificazione dei rifiuti trasportati nel periodo in contestazione, il ricorrente ha dedotto il tema di specifico interesse nell’odierna sede, ossia che non sarebbe corretto procedere alla quantificazione del profitto del reato in riferimento al ricavo “lordo”, dovendosi, piuttosto, depurare tale dato dalle spese sostenute, e giungendo, dunque, alla determinazione del ricavo “netto”, salvo ammettere (e ritenere coerente con la funzione attribuita alla confisca) l’impoverimento dell’imputato rispetto alla fase ante delictum.

Lo stesso GIP, peraltro, avrebbe evidenziato – secondo quanto dedotto dal ricorrente – l’impossibilità di quantificare la parte di profitto che l’imputato avrebbe materialmente concorso a conseguire.

Il provvedimento impugnato non avrebbe, in definitiva, tenuto conto del rispetto del principio di proporzionalità sotteso all’applicazione di tutte le misure ablative.

Le censure, così come esposte, sono state ritenute manifestamente infondate.

Prendendo le mosse dall’analisi del termine “confisca” – come sviluppata nella nota sentenza delle Sezioni Unite emessa nel caso “Fisia Impianti”, in più punti richiamata[i] – la Corte ne ha evidenziato un utilizzo, nelle varie fattispecie in cui è inserito, meramente enunciativo, che, lungi dal contenere qualsivoglia specificazione in termini di profitto lordo o netto (ossia, in ordine alle distinzioni sulle quali risulta incentrata la doglianza del ricorrente), denoterebbe «un’ampia “latitudine semantica”, da colmare in via interpretativa (in dottrina si parla, infatti, di nozione “polisemica”)».

La disamina si è poi spostata sulla finalità della confisca: profilo che, in definitiva, ha sorretto l’intero impianto motivazionale.

Sulla scorta di un altro noto precedente delle Sezioni Unite[ii], la Suprema Corte ha condiviso l’opinione – definita largamente dominante – secondo cui la confisca del profitto del reato, anziché perseguire uno scopo repressivo, risponderebbe ad una «finalità di “compensazione” o di “riequilibrio” dell’ordine economico violato, riportando la situazione patrimoniale del reo nelle condizioni in cui si trovava prima della consumazione del reato, e così impedendo al medesimo di godere del frutto della sua attività, in base al principio fondamentale che il crimine non rappresenta in uno Stato di diritto un legittimo titolo di acquisto di beni».

Partendo dall’equiparazione del profitto del reato con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito, la Corte ha concluso che la relativa confisca avrebbe la funzione di ripristinare lo status quo ante, così da sterilizzare, in funzione essenzialmente preventiva, tutte le utilità che il reato, «a prescindere dalle relative forme e dal relativo titolo, può aver prodotto in capo al suo autore».

Tale principio, che nella richiamata sentenza era stato applicato agli enti ex art. 19 D.Lgs. n. 231/2001, avrebbe – secondo la pronuncia in commento – portata generale, poiché l’obiettivo “comune” perseguito dal Legislatore sarebbe, per l’appunto, quello di privare l’autore del reato dei vantaggi economici derivanti dal reato[iii]: «in tal modo l’ordinamento viene a sottrarre al circuito economico-sociale legale le cose ricollegabili all’attività criminale e, come tali, a vario titolo, potenzialmente criminogene (come osservato in dottrina, la confisca del profitto viene a condurre l’imputato nella “situazione zero”)».

La suddetta funzione “riequilibratrice” dello status quo economico antecedente alla consumazione del reato sarebbe inconciliabile, secondo la Cassazione, con la tesi del profitto quale “utile netto” sostenuta dal ricorrente, in quanto lo stesso significato del termine “profitto”, nel lessico penalistico, non può essere accomunato a quello economico o aziendalistico, «non essendo stato mai inteso come espressione di una grandezza residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il confronto tra componenti positive e negative del reddito».

Ad avviso della Corte – anche sulla base dei precedenti contestualmente richiamati[iv] – il criterio del “profitto netto” riverserebbe sullo Stato «il rischio di esito negativo del reato e consentirebbe al responsabile di sottrarsi al “rischio economico del reato”, mettendo a repentaglio l’applicabilità della misura nelle ipotesi di reati “in perdita”».

Tale impostazione troverebbe conferma, ad avviso del Collegio, anche nella normativa sovranazionale: non a caso, l’art. 2 della Direttiva 2014/42/UE (c.d. «seize and freeze») parlerebbe di “proceed” (e non di “profit”) nel definire il provento del reato, che includerebbe «ogni vantaggio economico derivato, direttamente o indirettamente, da reati».

In conclusione, non dovrebbero essere detratti, nel calcolo del profitto del reato, i costi sostenuti dal reo per la realizzazione dell’attività criminosa, anche se intrinsecamente leciti[v].

3. Il principio solidaristico nei reati plurisoggettivi

Il ricorrente ha inoltre lamentato – come si accennava – la difficoltà (se non la vera e propria impossibilità), che sarebbe stata evidenziata anche dal GIP potentino, di stabilire a quale parte dei profitti egli avrebbe materialmente concorso.

La deduzione è stata ritenuta priva di fondamento.

Ad avviso del Collegio, «a fronte di un illecito (anche solo “eventualmente”) plurisoggettivo deve applicarsi il principio solidaristico che informa la disciplina del concorso nel reato e che implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente».

Tale conclusione troverebbe il proprio appiglio dogmatico nella teoria monistica a cui si informa l’istituto del concorso di persone nel reato, in base alla quale «ciascun concorrente, la cui attività si sia inserita con efficienza causale nel determinismo produttivo dell’evento, risponde anche degli atti posti in essere dagli altri compartecipi e dell’evento delittuoso nella sua globalità, che viene considerato come l’effetto dell’azione combinata di tutti»[vi].

Il suddetto principio solidaristico si rifletterebbe anche in termini di pena[vii] e di applicazione di misure di sicurezza patrimoniali, posto che, in ipotesi di pluralità di indagati, il sequestro preventivo funzionale alla confisca non può eccedere, per ciascuno dei concorrenti, la misura della quota di profitto del reato a lui attribuibile, ammesso che tale quota possa essere individuata o risulti chiaramente individuabile[viii].

Si è dunque concluso nel senso che «in tema di sequestro finalizzato alla confisca del profitto del delitto di cui all’articolo 452-quaterdecies cod. pen., ove la natura della fattispecie concreta e dei rapporti economici ad essa sottostanti non consenta d’individuare la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun concorrente, o la sua esatta quantificazione, il sequestro preventivo deve essere disposto per l’intero importo del profitto nei confronti di ciascuno, pur senza alcuna duplicazione e nel rispetto dei canoni della solidarietà interna tra i concorrenti».

4. Considerazioni e conclusioni

Alla luce delle conclusioni raggiunte dalla Suprema Corte, non ci si può esimere da alcune, seppur sintetiche, considerazioni.

Innanzitutto, il presupposto di partenza di tutto il ragionamento sviluppato dalla Suprema Corte è la funzione ripristinatoria attribuita alla confisca, che però, di fatto, assume un carattere punitivo nel momento in cui, escludendo la possibilità di quantificare il profitto confiscabile al netto dei costi “leciti” sostenuti per conseguirlo (ossia di quelli che prescindono dalla commissione del reato), ammette la possibilità che l’imputato possa essere anche impoverito, anziché semplicemente reimmesso nelle medesime condizioni economiche in cui si trovata ante delictum.

Pur non essendo l’odierna sede deputata a ripercorrere l’ampio dibattito che (per riprendere le parole della sentenza) ha «attraversato trasversalmente tutta l’area del diritto penale», e che ha riguardato non solo la finalità della misura ablativa[ix], ma, prima ancora, la nozione di “profitto”[x],  non ci si può esimere dal porre in rilievo la critica più evidente che si può muovere all’indirizzo giurisprudenziale – peraltro prevalente, da Fisia Impianti in poi[xi] – di cui la sentenza in commento è espressione, e che in dottrina è stato definito “largheggiante”, in quanto «disponibile a ritenere che il provento concretamente confiscato possa eccedere la misura dell’indebito arricchimento»[xii].

Sul piano logico, un approccio interpretativo che si attagli effettivamente alla funzione ripristinatoria della confisca non potrebbe non considerare lo scomputo dei costi che, a prescindere dall’attività illecita, sarebbero comunque stati sostenuti, e che dunque dovrebbero essere decurtati dal ricavo, in quanto la loro esclusione potrebbe implicare, per il reo, una situazione economicamente peggiore di quella antecedente all’inizio dell’attività illecita, attribuendo dunque, alla confisca, la connotazione punitiva che vorrebbe astrattamente escludersi.

In altri e più chiari termini: se la confisca sottrae al soggetto a cui è applicata un quantum superiore al vantaggio economico conseguito dalla condotta illecita, finisce inevitabilmente per assumere una funzione punitiva; se, al contrario, la confisca rende indisponibili al reo beni di valore esattamente coincidente con l’entità del suo arricchimento, al netto dei costi leciti sostenuti, la misura riconduce il patrimonio nella situazione in cui si troverebbe se non fosse stato commesso il reato: in questo – e solo in questo – caso la confisca assumerebbe la natura ripristinatoria teoricamente sostenuta, ma di fatto smentita, dalla Corte di Cassazione con la tesi del “profitto lordo”.

Un’ultima riflessione merita, infine, la tesi del principio solidaristico secondo cui può ascriversi, in ipotesi di concorso di persone nel reato, l’imputazione dell’intera azione delittuosa, e dell’effetto conseguente, in capo a ciascun concorrente.

Non si comprende, difatti, come sia possibile non ammettere una sostanziale deroga al principio di proporzionalità nel momento in cui si accetta la possibilità che possa trovare contemporanea applicazione, su ciascun concorrente, il sequestro preventivo per l’intero importo del profitto.

Principio che la stessa Corte di Cassazione ha dichiarato applicabile in materia di misure cautelari reali, affermando che debba essere rispettato tanto nella fase genetica (o applicativa), quanto in quella esecutiva: «in relazione al sequestro preventivo finalizzato alla confisca, il canone di proporzionalità non esaurisce la sua rilevanza nel divieto di aggredire beni di valore superiore al profitto confiscabile (…), ma impone al giudice di evitare che il vincolo, pur legittimamente adottato e funzionale a garantire l’effettività della confisca in attesa della definizione del giudizio di merito, ecceda quanto strettamente necessario rispetto al fine perseguito, non dovendo la misura risolversi in una eccessiva compressione di diritti fondamentali di rilievo costituzionale»[xiii].

Si tratta di osservazioni che contengono l’auspicio di una migliore applicazione di principi interpretativi teoricamente condivisibili, che, tuttavia, appaiono declinati in maniera non conforme nella pratica, benché coinvolgano diritti riconosciuti e garantiti anche a livello costituzionale.

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NOTE:

[i] Corte Cass. pen., Sez. Un., 2 luglio 2008, n. 26654.

[ii] Corte Cass. pen., Sez. Un., 21 luglio 2015, n. 31617, meglio nota come “sentenza Lucci”.

[iii] Sul punto è stata richiamata anche la recente Corte Cass. pen., Sez. VI, 3 agosto 2023, n. 34290; hanno assunto una posizione critica nel commentare la portata generale delle regole interpretative affermatesi nell’ambito del D.Lgs. n. 231/2001 F. Mucciarelli – C.E. Paliero, “Le Sezioni Unite e il profitto confiscabile: forzature semantiche e distorsioni ermeneutiche”, in Diritto penale contemporaneo, n. 4/2015, pp. 256 ss., a commento di Corte Cass. pen., Sez. Un., 30 gennaio 2014, n. 10561, meglio nota come “sentenza Gubert”, emessa in tema di reati fiscali.

[iv] Corte Cass. pen., Sez. II, ord. n. 4018 del 23 gennaio 2008, emessa sempre nel caso Fisia Impianti, e Corte Cass. pen., Sez. III, 31 gennaio 2019, n. 4885.

[v] A titolo meramente esemplificativo, sono stati richiamati diversi precedenti nei quali non sono stati ammessi in deduzione, rispetto alla somma da confiscare, i costi sostenuti, a conferma della interpretazione generalmente adottata dalla Suprema Corte, e ribadita nel caso di specie:

«- in tema di cessione di sostanze stupefacenti, che è profitto del reato la somma ricavata dalla vendita della droga (Sez. 6, n. 6131 del 10/03/1994, Tomasello, Rv. 199714), al lordo di quanto speso per acquistare la droga poi rivenduta;

– in tema di lottizzazione abusiva, che sono profitto del reato le somme ricavate dalla vendita dei terreni lottizzati abusivamente, senza che vengano in considerazione le spese sostenute per la realizzazione (Sez. 3, n. 1630 del 15/10/1984, Castaldo, Rv. 166552);

– in materia di insider trading – che aveva dato luogo ad un’operazione di compravendita di azioni da cui erano derivati ricavi di gran lunga superiori a quelli conseguibili attraverso una normale cessione – si è ritenuto legittimo il sequestro per equivalente anche con riferimento al valore corrispondente alle somme trattenute dalle società acquirenti a titolo di “retrocessione” (Sez. 6, n. 24558 del 22/05/2013, Mezzini, Rv. 256812 – 01)».

[vi] Ancora una volta il richiamo si è rivolto alla già citata sentenza emessa nel caso Fisia Impianti – cfr. nota 1 –  secondo cui «nel caso di illecito plurisoggettivo deve applicarsi il principio solidaristico che implica l’imputazione dell’intera azione e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente e pertanto, una volta perduta l’individualità storica del profitto illecito, la sua confisca e il sequestro preventivo ad essa finalizzato possono interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, ma l’espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel “quantum” l’ammontare complessivo dello stesso».

[vii] Come di recente affermato da Corte Cass. pen., Sez. II, 22 maggio 2023, n. 22073.

[viii] Tuttavia, la Suprema Corte non ha mancato di precisare che «ove la natura della fattispecie concreta e dei rapporti economici ad essa sottostanti non consenta d’individuare, allo stato degli atti, la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun concorrente o la sua esatta quantificazione, il sequestro preventivo deve essere disposto per l’intero importo del profitto nei confronti di ciascuno, logicamente senza alcuna duplicazione e nel rispetto dei canoni della solidarietà interna tra i concorrenti” (così, testualmente, Sez. U., n. 26654/2008, Fisia Impianti, cit.), logicamente senza alcuna duplicazione e nel rispetto dei canoni della solidarietà interna tra i concorrenti (Sez. 6, n. 6607 del 21/10/2020, dep. 2021, Venuti, Rv. 281046 – 01)».

[ix] Per una panoramica approfondita sul tema si rimanda a S. Finocchiaro, “Riflessioni sulla quantificazione del profitto illecito e sulla natura giuridica della confisca diretta e per equivalente”, in Sistema penale, settembre 2020.

[x] Per approfondimenti sul dibattito dottrinale e giurisprudenziale sulla nozione di profitto si rimanda a F. Mucciarelli – C.E. Paliero, op. cit., pp. 247 ss.

[xi] Si veda, in senso critico, V. Mongillo, “La confisca del profitto nei confronti dell’ente in cerca di identità: luci e ombre della recente pronuncia delle Sezioni Unite”, in Rivista Italiana Di Diritto e Procedura Penale, 2008, pp. 1784 ss.; F. Bottalico, “Confisca del profitto e responsabilità degli enti tra diritto ed economia: paradigmi a confronto”, in Rivista Italiana Di Diritto e Procedura Penale, 2009, pp. 1754 ss.

[xii] M. Pierdonati, La confisca nel sistema dei delitti contro l’ambiente, 2020, p. 194.

[xiii] Corte Cass. pen., Sez, VI, 17 gennaio 2023, n. 1646, secondo cui  «i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, dettati dall’art. 275 c.p.p. per le misure cautelari personali, sono applicabili anche alle misure cautelari reali e impongono al giudice di motivare adeguatamente sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso una cautela alternativa meno invasiva (…); in secondo luogo, va considerato che il principio di proporzionalità non è parametro da rispettare solo nella fase applicativa, ma deve persistere anche nella fase dinamica di esecuzione della misura al fine di evitare un’esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata. Sul punto le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che ogni misura cautelare, per dirsi proporzionata all’obiettivo da perseguire, dovrebbe richiedere che ogni interferenza con il pacifico godimento dei beni trovi un giusto equilibrio tra i divergenti interessi in gioco (Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, Rv. 273548).

Pertanto, il principio di proporzionalità non opera esclusivamente quale limite alla discrezionalità del giudice nella fase genetica della misura cautelare, ma gli impone durante tutta la fase applicativa di graduare e modulare il contenuto del vincolo imposto, anche in relazione a fatti sopravvenuti, affinché lo stesso non comporti restrizioni più incisive dei diritti fondamentali rispetto a quelle strettamente funzionali a tutelare le esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto».

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