I rifiuti degli altri. Alcune riflessioni sull’attività di gestione non autorizzata.

01 Lug 2024 | giurisprudenza, penale

Cassazione Penale, Sez. III, 6 marzo 2024 (dep. 20 marzo 2024), n. 11599

Commette il reato di gestione illecita di rifiuti di cui all’art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006, colui che, rinvenuti rifiuti da altri abusivamente smaltiti o abbandonati, compia a sua volta attività di gestione degli stessi, quali la raccolta, lo stoccaggio, l’abbandono o lo smaltimento in assenza di autorizzazione.

1. Premessa

La sentenza in commento consente di sviluppare una riflessione di carattere “trasversale” sull’ipotesi contemplata dall’art. 256, comma 1, T.U.A. – attività di gestione di rifiuti non autorizzata, tanto con riguardo alla condotta e al momento consumativo quanto in relazione al trattamento sanzionatorio.

2. La vicenda e i contenuti del ricorso. Il motivo sulla pena

In breve, l’imputato veniva ritenuto responsabile in primo grado per l’ipotesi sopra indicata, avendo – secondo quanto si apprende dalla pronuncia – rotto un fronte di rifiuti interrati e abbandonati da altri e deciso, successivamente, di ammassarli in zona limitrofa in assenza di autorizzazione.  

Avverso la sentenza della Corte d’Appello che confermava la condanna,  il ricorrente proponeva tre motivi censurando in particolare a) la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza ex artt. 521, 522 e 546 c.p.p. b) la violazione dell’art. 606, lett. b), c) ed e), nonché c) l’illegalità della pena che era stata irrogata in forma congiunta, nonostante il disposto dell’art. 256, comma 1, T.U.A. preveda l’alternatività tra ammenda e arresto nell’ipotesi in cui i fatti attengano a rifiuti non pericolosi.

Ciò premesso, si ritiene di dover prendere le mosse proprio dalla statuizione della Suprema Corte in merito a quest’ultimo motivo (il terzo per il ricorrente nonché l’unico ad essere accolto), posto che in relazione a tale tema la decisione appare esente da osservazioni ed anzi rispettosa del tenore letterale della norma.

Difatti, nella pronuncia viene osservato – in maniera del tutto corretta – come “per la gestione illecita di rifiuti non pericolosi, l’art. 256, comma 1, lett. a) T.U.A. commini la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda (tale pena è richiamata anche in caso di abbandono o di deposito incontrollato). Pena congiunta è invece prevista in caso di gestione, deposito incontrollato o abbandono di rifiuti pericolosi (circostanza non contestata), ovvero in caso di discarica abusiva”.

3. La violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza: una riflessione sui contenuti della condotta ex art. 256, comma 1, T.U.A.

Sotto altro profilo, la Suprema Corte, disattendendo il primo motivo di impugnazione, ha ritenuto non sussistente alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, che, invece, si sarebbe concretizzata, secondo il ricorrente, laddove quest’ultimo era stato tratto a giudizio con l’accusa di aver “semplicemente” raccolto rifiuti in via abusiva e condannato, invece, per una vera e propria attività di gestione.

La pronuncia, nel rigettare le doglianze della difesa,  ha richiamato quelli che possono essere pacificamente definiti come i principi cardine espressi dalla giurisprudenza di legittimità sul dettato di cui all’art. 521 c.p.p., per i quali, in buona sostanza, sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza ogniqualvolta il fatto descritto nella decisione si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità; ovvero “quando il capo di imputazione non contenga l’indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, né consenta di ricavarli in via induttiva, tenendo conto di tutte le risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione”.

Nel caso di specie, tuttavia, secondo la Corte non si sarebbe concretizzata alcuna violazione del principio in esame, in quanto “non vi è dubbio che l’imputato fosse ben consapevole che allo stesso fosse contestata una forma di gestione illecita di rifiuti di cui all’art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006: la circostanza che si trattasse di “smaltimento” ovvero di “abbandono”, invece che di “raccolta”, come descritto in rubrica, non appare in grado di rappresentare quella immutatio libelli che concretizza un’indebita immutatio libelli”.

Ciò premesso, si ritiene che tale conclusione sia meritevole di una considerazione critica. È noto come il principio in esame costituisca una garanzia fondamentale per l’imputato nel processo, il quale è così posto al riparo dal rischio di essere giudicato per fatti che non gli sono stati resi noti – in forma chiara, completa e precisa – e, dunque, di veder vanificata la propria difesa rispetto agli addebiti elevati[i].

Trattasi, altresì, di principio espressamente previsto nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, art. 6, comma 3, lett. b) ove è sancito che ogni accusato ha il diritto di “disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa”. In tema, giova evidenziare come proprio secondo la nota pronuncia della Corte E.D.U. Drassich vs. Italia, 11 dicembre 2007, l’art. 6, comma 3, lett. b) tuteli “il diritto di essere informato non solo del motivo dell’accusa, ossia dei fatti materiali che gli vengono attribuiti e sui quali si basa l’accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti e ciò, in quanto, in materia penale, un’informazione precisa e completa delle accuse a carico di un imputato e dunque la qualificazione giuridica che la giurisdizione potrebbe considerare nei suoi confronti, è una condizione fondamentale dell’equità del processo “. Certo, anche se – come precisato nell’altra famosa pronuncia sul tema Previti vs. Italia, 8 dicembre 2009 – l’ampiezza dell’informazione “dettagliata” “varia a seconda delle particolari circostanze della causa” ciò non toglie che “l’accusato deve in ogni caso poter disporre di elementi sufficienti per comprendere pienamente le accuse elevate contro di lui al fine di poter preparare convenientemente la sua difesa”.

Sotto altro profilo, occorre ricordare comunque che tale assunto è destinato a confrontarsi con un modello di imputazione vigente nel nostro ordinamento processuale che, seppur vincolata ai canoni di chiarezza e precisione, finisce per essere – con l’avallo della giurisprudenza di legittimità – “flessibile” o “instabile” [ii], suscettibile quindi di subire modifiche nel corso dell’iter procedimentale in conseguenza di un mutamento del compendio probatorio. A patto che, tuttavia, ciò non avvenga “a sorpresa” e che l’imputato comunque si sia trovato, nel corso dell’istruttoria, nella effettiva condizione di potersi difendere in ordine all’oggetto dell’imputazione. Diversamente, il magistrato giudicante, una volta appurato che il fatto sia diverso da quello riportato nelle contestazioni accusatorie (tenendo altresì conto di quanto concretamente emerso dal dibattimento) dovrà esimersi dall’assumere la decisione e trasmettere gli atti al Pubblico Ministero.

Premesso questo breve inquadramento, viene da domandarsi – tornando ai contenuti della pronuncia – se l’ipotesi di gestione di rifiuti non autorizzata, così come altre fattispecie tra i reati ambientali connotate dal medesimo tecnicismo definitorio, non impongano un maggior sforzo di chiarezza già nella fase delle contestazioni accusatorie e, per altro verso, un maggior rigore da parte dell’organo giudicante nel misurare l’osservanza del principio di correlazione tra accusa e sentenza.

Se è vero da un lato – come la pronuncia in esame sembra lasciar intendere – che l’ipotesi di cui all’art. 256, comma 1, T.U.A. richiederebbe la predisposizione di un’attività gestoria organizzata e non occasionale quale presupposto “tacito”[iii] alla propria configurabilità, dall’altro è pur vero che il dettato si caratterizza per un susseguirsi di condotte evocative di concetti naturalistici del tutto diversi tra loro e che indicano specifiche modalità di offesa al bene giuridico[iv].

Così, volendo offrire alcuni esempi, la “raccolta” intesa come “il prelievo dei rifiuti, compresi la cernita preliminare e il deposito preliminare alla raccolta, ivi compresa la gestione dei centri di raccolta” (così, art. 183, comma 1, lett. o, T.U.A.) appare essere del tutto diversa dal “recupero” del rifiuto – che equivale a “qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile, sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione, all’interno dell’impianto o nell’economia in generale” (art. 183, comma 1, lett. t), T.U.A.); così come, il “commercio”(in buona sostanza, acquisto e successiva rivendita di rifiuti – art. 183, comma 1, lett. i) è altro rispetto al loro “trasporto” (quindi alla loro movimentazione).

Per quanto detto, risulterà allora evidente come l’assunto della Suprema Corte nella pronuncia in esame, per il quale “la circostanza che si trattasse di “smaltimento” ovvero di “abbandono”, invece che di “raccolta” come descritto in rubrica, non appare circostanza in grado di rappresentare quella immutatio libelli che concretizza un’indebita immutatio libelli” si ponga in aperto contrasto con le richiamate pronunce della Corte EDU in ordine alla centralità della corretta qualificazione giuridica del fatto quale presidio dell’imputato nel corso del processo e quale misura dell’effettivo rispetto dell’art. 521 c.p.p.

In altre parole, si ritiene che la sentenza sembri giustificare – in relazione a tale specifica ipotesi di reato – una sostanziale indifferenza rispetto alla scelta terminologica che deve essere effettuata dall’accusa nell’impostare la propria contestazione (con evidenti ripercussioni, come accennato, anche nel misurare l’osservanza del principio di correlazione tra accusa e sentenza); aspetto che – a dire il vero – appare tutt’altro che irrilevante rispetto al contenuto delle pronunce Drassich e Previti che, al contrario, sembrerebbero suggerire una maggiore attenzione proprio rispetto a quelle ipotesi di reato la cui capacità selettiva delle condotte rilevanti è affidata a termini semanticamente del tutto eterogenei tra loro.

4. Sulla gestione di rifiuti smaltiti o abbandonati da altri. La rilevanza del momento consumativo del reato

Molto interessanti appaiono poi le statuizioni della sentenza in merito al secondo motivo di ricorso, incentrate sull’individuazione di possibili comportamenti causalmente rilevanti ai sensi dell’art. 256, comma 1, T.U.A. In particolare la Suprema Corte, nel rigettare le doglianze difensive, ha affermato, da un lato, che “non può attribuirsi una condotta concorsuale nella gestione illecita a chi, rinvenuti dei rifiuti abusivamente smaltiti, ometta una attività di rimozione e bonifica”; dall’altro, tuttavia che “commette il reato di gestione illecita di rifiuti […] colui che, rivenuti rifiuti da altri abusivamente smaltiti o abbandonati, compia a sua volta attività di gestione degli stessi, quali la raccolta, lo stoccaggio, l’abbandono o lo smaltimento in assenza di autorizzazione”.

Invero, tale assunto prende le mosse da altra precedente pronuncia resa dalla medesima Sezione (Corte Cass. pen., Sez. III, 8 febbraio 2019, n. 13606) nella quale si affermava, con riguardo alla posizione del proprietario di un’area sulla quale erano stati abbandonati rifiuti, che “non sempre la posizione del proprietario o possessore dell’area può configurare un’ipotesi di concorso nel reato”, e che quindi la mera inerzia di quest’ultimo non può dar luogo automaticamente ad alcuna forma di responsabilità omissiva impropria in assenza, appunto, della prova dei presupposti di cui all’art. 40 c.p. e della consapevolezza in ordine alla condotta delittuosa. Tutt’al più, l’obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell’evento lesivo potrà configurarsi laddove lo stesso proprietario, a sua volta, compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.

Concentrando nuovamente l’attenzione sulla pronuncia oggetto di commento, si ritiene che l’assunto indicato lasci aperto un interrogativo, soprattutto ragionando e restando sul tema delle contestazioni accusatorie: colui il quale – per esempio – raccolga, in assenza di autorizzazione rifiuti abusivamente smaltiti da altri, potrà essere chiamato a rispondere in quanto autore di un nuovo fatto di reato o in quanto concorrente nel precedente episodio di illecita gestione ex art. 256, comma 1, T.U.A.?

A parere di chi scrive, la questione si interseca, in realtà, con un altro nodo della fattispecie in esame ed attinente al proprio momento consumativo in relazione al quale si contrappongono tuttora due tesi. Segnatamente, a fronte di un orientamento maggioritario della Suprema Corte per il quale il reato avrebbe natura istantanea e solo eventualmente permanente o abituale[v], vi è chi, contrariamente, ne sostiene la natura esclusivamente permanente[vi].

Di conseguenza, le due interpretazioni non possono che evocare altrettante soluzioni esegetiche. Infatti, qualora si volesse considerare il 256, comma 1, T.U.A. quale reato istantaneo, è evidente che il nuovo fatto di gestione abusiva non potrà che dar luogo ad una autonoma contestazione in quanto causalmente slegato rispetto al precedente episodio. Diversamente, nel caso in cui si propendesse per la natura permanente della suddetta ipotesi di reato, parrebbe più ragionevole ricondurre la fattispecie ad una forma di concorso nel fatto antecedente, ferma restando pur sempre la necessità di un attento vaglio in ordine alla sussistenza di un’effettiva consapevolezza nel contributo concorsuale al fatto principale.   

Per il testo della sentenza cliccare sul pdf allegato.

NOTE:

[i] In tal senso A. Famiglietti, Sub. art. 521 c.p.p., in A. Giarda – G. Spangher (A cura di), Codice di procedura penale commentato, Milano, 2023.

[ii] Per un approfondimento sul tema, cfr. V. Gramuglia, L’oggetto probatorio delle contestazioni suppletive nel giudizio abbreviato “a prova integrata”, in Sistema Penale, n. 5, 2020.   

[iii] In tema, V. Paone, Sub. art. 256 D.lgs., 152/2006, in S. Nespor – L. Ramacci, Codice dell’ambiente, 2022, p. 2626.

[iv] Difatti, come è stato sottolineato da E. Napoletano, I reati nella gestione dei rifiuti e della bonifica dei siti inquinati, 2023, p. 210, la norma sanziona colui che effettua un’attività di gestione non autorizzata di rifiuti, tuttavia “circoscrivendo le modalità di esposizione a pericolo del bene giuridico alle sole condotte di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti”.

[v] Così di recente Corte Cass. pen., Sez. III, 16 gennaio 2019, n. 8966.

[vi] Cfr. V. Paone, ibidem, p. 2638, per il quale occorre sul punto tener conto “in primo luogo, che, nel sistema dei reati ambientali, le ipotesi criminose imperniate sullo svolgimento di un’attività senza titolo abilitativo danno vita ad un reato permanente; in secondo luogo, che nella fattispecie di cui all’art. 256, comma 1, il legislatore punisce l’effettuazione di un’attività continuativa in mancanza del titolo abilitativo.

Scritto da