I contratti che disciplinano obblighi di bonifica a carico delle parti sono leciti ma inopponibili all’Amministrazione

15 Giu 2020 | giurisprudenza, amministrativo

di Eva Maschietto

CONSIGLIO DI STATO IV, 1 aprile 2020 n. 2195 (Edison S.p.A. – Avv.ti A. Degli Esposti, W.F. Troise Mangoni, R. Villata) c. Provincia di Mantova (Avv.ti E. Persegati Ruggerini e L. Salemi) Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, (Avvocatura generale dello Stato) Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente – Arpa Lombardia (nc) nei confronti di Ministero della Salute, Ministero dello Sviluppo Economico, (Avvocatura generale dello Stato), Comune di Mantova, (Avv. P. Gianolio), Syndial s.p.a., Versalis s.p.a., (Avv. S. Grassi)

Regione Lombardia, Eni s.p.a., Azienda Sanitaria Locale della Provincia di Mantova, Comune di San Giorgio di Mantova, Comune di Borgo Virgilio, Parco del Mincio, Ats Val Padana (nc)

[Conferma Sent. TAR Bs II 802/2018, 9 agosto 2018]

Anche nei siti di interesse nazionale, la competenza per la fase di individuazione del responsabile dell’inquinamento e di invio della diffida di cui all’art. 244 del D.Lgs. 152/06 rimane in capo alla Provincia territorialmente competente, dovendosi considerare tale adempimento una fase preliminare al procedimento di bonifica vero e proprio, quest’ultimo invece di esclusiva competenza ministeriale, ai sensi dell’art. 252 del medesimo decreto.

Le norme in materia di obblighi di bonifica non sanzionano ora per allora, la (risalente) condotta di inquinamento, ma pongono attuale rimedio alla (perdurante) condizione di contaminazione dei luoghi, per cui l’epoca di verificazione della contaminazione è del tutto indifferente.

Il bene ambiente è oggetto di protezione costituzionale diretta (art. 9) ed indiretta (art. 32), in virtù di norme non meramente programmatiche, ma precettive, con la conseguenza che le condotte lesive del bene protetto sono antigiuridiche, tanto più se poste in essere, nello svolgimento di attività già per loro natura intrinsecamente pericolose; nell’ambito di un’iniziativa imprenditoriale, che, in quanto costituzionalmente conformata dal canone del rispetto della “utilità sociale” (art. 41), è  vincolata alla salvaguardia della salubrità dell’ambiente, la cui compromissione è evidentemente contraria alla “utilità sociale”.

Il principio “chi inquina paga”, che basa la disciplina nazionale dettata in tema di distribuzione degli oneri conseguenti alla contaminazione di aree, ha valenza inderogabile di normativa di ordine pubblico, in quanto tale insuscettibile di deroghe di carattere pattizio.

Il responsabile della contaminazione non ha alcun diritto di pretendere di eseguire un progetto di bonifica redatto dal medesimo, essendo – di fatto – assoggettato a scelte tecniche dell’amministrazione.

La sentenza in commento presenta interesse per la molteplicità dei temi e degli spunti interpretativi in materia di bonifica e si contraddistingue per una posizione estremamente rigida e, in alcuni passaggi, forse un po’ sbrigativa nella motivazione, tanto da aver creato un “casus belli” nel mercato legale che si occupa di operazioni straordinarie e cioè di M&A nel senso più ampio.

La decisione, infatti, è stata additata come un precedente addirittura “rivoluzionario” che comprometterebbe nella sostanza o comunque metterebbe a enorme rischio quella pratica, divenuta usuale, di negoziare tra le parti private l’assunzione di obblighi convenzionali di bonifica all’interno di contratti di acquisizione (in relazione, in particolare, ai c.d. “asset deal” relativi all’acquisto di aziende o rami d’azienda).

Lasciando al lettore un minimo di suspense sulla nostra opinione al riguardo, esaminiamo il caso concreto.

La vicenda di cui si occupa il Consiglio di Stato nella decisione in commento riguarda uno dei siti di interesse nazionale che maggiormente in questi anni hanno dato luogo a interessanti battaglie giudiziali in materia di bonifica: il Sito di Interesse Nazionale “Laghi di Mantova e Polo Chimico”.

Questa volta il ricorrente sia in primo grado sia in appello è Edison S.p.A., la quale è stata individuata con procedura esperita dalla Provincia di Mantova ex art. 244 del D.Lgs. 152/06 quale soggetto responsabile della contaminazione di alcune aree industriali incluse all’interno del SIN.  La società propone in primo grado ben otto ricorsi contro le determinazioni della Provincia, sette dei quali rigettati dal TAR di Brescia, che ne accoglie solo uno in relazione alle particolarità di una specifica area.

Edison ricorre in appello al Consiglio di Stato riproponendo, le stesse doglianze del primo grado (alcune svolte con ricorso, altre con motivi aggiunti), lamentando, innanzitutto, un profilo di competenza: il sito è infatti un SIN, per cui tutti i poteri afferenti alla bonifica sono attribuiti ai sensi dell’art. 252 D.Lgs. n. 152 del 2006, al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare.

Seguono poi altri sei motivi nel merito, relativamente al carattere non retroattivo del Decreto Ronchi (D.Lgs. n. 22 del 1997), prima normativa in tema di bonifica, ad alcune questioni tecniche in relazione al procedimento e a una preesistente transazione, fino alla questione – che costituisce il leitmotiv di grandissima parte dei ricorsi in materia di bonifica che riguardano contaminazioni storiche di aree industriali nelle quali si sono succeduti gruppi societari e operazioni straordinarie – dell’individuazione del soggetto responsabile.

Il Consiglio di Stato – con una sentenza costruita in modo estremamente chiaro ed assertivo – nella sostanza rigetta tutti motivi del ricorso di Edison, avvalendosi per la maggior parte dei casi a rinvii a proprie decisioni precedenti, in alcuni casi svolgendo l’iter argomentativo in modo analitico, in altri casi avvalendosi, invece, di un procedimento di massima sintesi.

Sull’incompetenza la sentenza afferma che, anche nei siti di interesse nazionale, la fase di individuazione del responsabile dell’inquinamento e di invio della diffida di cui all’art. 244 del D.Lgs. 152/06 rimane in capo alla Provincia territorialmente competente, dovendosi considerare tale adempimento un atto di carattere preliminare al procedimento di bonifica vero e proprio.  In questo senso, la portata derogatoria dell’art. 252 si espleterebbe solo sulle fasi della bonifica di cui all’art. 242 a partire dall’approvazione del piano di caratterizzazione sino a tutti i passi successivi, con il fine di centralizzare le attività del procedimento di bonifica, ma non si estenderebbe alla fase precedente che rimarrebbe in capo al soggetto che ha la maggior vicinitas con il territorio.

Quanto al motivo che lamentava l’impossibilità di considerare una applicazione sostanzialmente retroattiva del Decreto Ronchi, la decisione cita testualmente la propria giurisprudenza e quella della Cassazione civile, per cui le norme che impongono obblighi di bonifica “non sanzionano ora per allora, la (risalente) condotta di inquinamento, ma pongono attuale rimedio alla (perdurante) condizione di contaminazione dei luoghi, per cui l’epoca di verificazione della contaminazione è, ai fini in discorso, del tutto indifferente”.  Lo stesso concetto, normativamente cristallizzato, di “contaminazione storica” non trova quindi un limite temporale nella normativa preesistente (quella del Decreto Ronchi che per prima ha introdotto l’obbligo di bonifica a carico del responsabile).

Il fondamento che supporta la motivazione è costituito dal “cuius commoda eius et incommoda”, per cui “risulta ragionevole porre l’obbligo di eseguire le opere di bonifica a carico del soggetto che tale contaminazione ebbe in passato a cagionare, avendo questi beneficiato, di converso, dei corrispondenti vantaggi economici (sub specie, in particolare, dell’omissione delle spese necessarie per eliminare o, quanto meno, arginare l’immissione nell’ambiente di sostanze inquinanti)”.

Il caposaldo testuale che ne ancora il carattere antigiuridico è, quindi, individuato dal Collegio nel “consapevole svolgimento di un’attività per sua natura pericolosa, quale la produzione su scala industriale di prodotti di tipo chimico (art. 2050 c.c.)”, che – di per sé – renderebbe il relativo autore responsabile della “lesione, compromissione, degradazione o, comunque, messa in pericolo del bene ambiente che ne sia conseguita”, salva la sola (e si aggiunge, sostanzialmente impossibile…) prova liberatoria di aver, già all’epoca, posto in essere ogni esigibile accorgimento idoneo a prevenire in radice tale contaminazione.

Quasi trascinato dalla forza argomentativa delle proprie affermazioni, in un attimo, il Consiglio di Stato (con ciò anticipando quello che per i costituzionalisti è ancora un progetto sul quale lavorare) afferma, con convinzione e vigore, che “l’ambiente è oggetto di protezione costituzionale diretta (art. 9) ed indiretta (art. 32), in virtù di norme non meramente programmatiche, ma precettive, che, pertanto, impongono l’ascrizione all’area dell’illecito giuridico di ogni condotta lesiva del bene protetto, tanto più se posta in essere:

– nello svolgimento di attività già per loro natura intrinsecamente pericolose;

– nell’ambito di un’iniziativa imprenditoriale, che, in quanto costituzionalmente conformata dal canone del rispetto della “utilità sociale” (art. 41), è inter alia vincolata alla salvaguardia della salubrità dell’ambiente, la cui compromissione è evidentemente contraria alla “utilità sociale”.

Pertanto, riallacciandosi alla pronuncia dell’Adunanza Plenaria del 22 ottobre 2019 n. 10[i], con altrettanta forza il supremo collegio ribadisce che il danno all’ambiente (inteso quale diminuzione della relativa integrità, anche mediante l’immissione, il rilascio o l’abbandono di sostanze non bio-degradabili) deve essere considerato (…”ab imis ed ab origine”) ingiusto.

Ciò sembra logico dedurre – è tanto più vero con riguardo all’inquinamento derivante dalla dispersione nell’ambiente di mercurio, sostanza già da tempo riconosciuta come pericolosa e gravemente nociva per la salute.

Il limite dell’irretroattività della disciplina rimane, quindi, segregato alla normativa penale, non rilevando neppure il fatto che il diritto dell’Unione abbia espressamente sancito l’irretroattività della disciplina.  Né soccorre la tutela dell’affidamento, perché – in caso di esercizio di attività pericolose – qualsiasi affidamento sarebbe sempre colpevole per l’oggettiva, intrinseca ed evidente capacità, quanto meno potenziale, di determinare, aggravare o, comunque, agevolare la contaminazione dell’ambiente.

Sgomberato il campo, quindi, dalle obiezioni più generali sull’applicazione della disciplina, il Consiglio di Stato si concentra sulla figura della ricorrente/appellante e afferma che anche la cessione di ramo d’azienda antecedente al Decreto Ronchi non elide gli obblighi di bonifica della società cedente per quei fenomeni di contaminazione che si siano verificati in epoca antecedente alla cessione. Tale conclusione è coerente con quanto appena descritto e soprattutto con i principii in materia di trasferimento di ramo d’azienda (secondo anche quanto affermato dalla precedente giurisprudenza del medesimo Consiglio.

Il Consiglio di Stato, quindi, ricorda la derivazione comunitaria del principio “chi inquina paga”, che basa la disciplina nazionale dettata in tema di distribuzione degli oneri conseguenti alla contaminazione di aree (si tratta, in particolare, della Parte IV – Titolo V del codice dell’ambiente, ossia gli articoli 240 e ss.), aggiungendo, tuttavia, che in ragione della derivazione euro-unitaria del principio medesimo (articoli 191 e 192 del TFUE), questo ha valenza “inderogabile di normativa di ordine pubblico, in quanto tale insuscettibile di deroghe di carattere pattizio” e richiamando in proposito il proprio precedente Cons. Stato, Sez. VI, 10 settembre 2015, n. 4225 (relative ad un conferimento di azienda, in quel caso).

Nel precedente citato, il Consiglio di Stato aveva chiarito la portata di tale propria affermazione, circoscrivendo il proprio intervento anche sulla base del fatto che le disposizioni contrattuali esaminate rispondevano “alla sola finalità di regolare l’attribuzione delle passività che fossero effettivamente esistenti alla data del conferimento (pur non essendo state indicate nella situazione patrimoniale)….” ma non fossero state invocate per “esentare la società cedente – e le sue aventi causa – dagli oneri di fonte legislativai quali, pur non sussistendo alla data del conferimento, fossero stati enucleati in un periodo successivo attraverso una scelta legislativa volta a individuare “ora per allora” il responsabile dell’inquinamento e a determinare parimenti “ora per allora” gli obblighi sullo stesso ricadenti.”

In questo caso, il Consiglio di Stato – invece – in maniera forse eccessivamente laconica si ferma ad affermare che non hanno, dunque, in radice alcun rilievo né le previsioni contenute nel contratto di cessione di ramo d’azienda a suo tempo stipulato, né l’accordo transattivo, di natura novativa, successivamente intercorso (nel 2003) fra Eni ed Edison, peraltro, a quanto consta, afferente alla più ampia questione del regolamento delle conseguenze economiche del fallito tentativo di integrazione delle rispettive attività industriali nel settore chimico.

L’ambiguità della dizione utilizzata dal Consiglio di Stato, la frettolosità della conclusione e l’espressa affermazione del fatto che si tratti di una “inderogabile normativa di ordine pubblico” non convincono del tutto, salvo che si svolga un’operazione interpretativa complessiva che riconduca all’ambito corretto la pronuncia in esame.

Si deve quindi ricostruire l’esatto significato e portata della pronuncia del Collegio che deve essere necessariamente inquadrata esclusivamente nell’ambito della giurisdizione amministrativa, esplicitando quanto nella laconicità della decisione è rimasto implicito.

Innanzitutto va rilevato come, evidentemente, il Consiglio di Stato stia esaminando un motivo di ricorso con cui l’appellante vorrebbe opporre all’amministrazione procedente una distribuzione della responsabilità diversa da quella di legge (e ricadente, nella specie, sul gruppo controinteressato).

In questo caso e a questi fini, si ritiene assolutamente corretto affermare – come fa, purtroppo solo tra le righe, il Consiglio di Stato – che non sia “opponibile” all’amministrazione pubblica procedente alcun accordo contrattuale che voglia allocare la responsabilità diversamente dalla legge, o anche solo imputare i costi (senza, quindi, procedere ad una vera individuazione del soggetto “responsabile”) ad un soggetto diverso dal “responsabile dell’inquinamento” identificato secondo i canoni del diritto eurounitario del “polluter pays principle”.

E’ noto, infatti, come nel nostro diritto non sia consentito quell’”agreement on liabilities” invalso nella prassi anglosassone, che vede partecipare la pubblica amministrazione come “parte” vera e propria dell’accordo tra acquirente e venditore di un sito contaminato e conduce ad una liberazione di parte venditrice da qualunque responsabilità sul sito compravenduto.

Ma si deve aggiungere che tale inopponibilità – che appunto è caratteristica del nostro sistema giuridico – non deriva affatto ad avviso di chi scrive dalla “contrarietà all’ordine pubblico” di una pattuizione contrattuale che determini un’allocazione dei costi differente da quella legalmente prevista, ma soltanto dall’applicazione del più semplice principio di diritto civile per cui il contratto ha forza di legge tra le parti, e non nei confronti dei terzi (art. 1375 cod. civ.).

L’amministrazione è, infatti, un terzo cui non può essere opposta una disciplina derogatoria, perfettamente valida ed efficace inter partes, come quella contrattuale, che determini una allocazione diversa dei costi di bonifica rispetto a quelli legali.  Ciò sembra confermato dallo stesso Consiglio di Stato anche perché, nel precedente del 2015, lo stesso collegio riconosce la coesistenza di un giudizio civile che viene trattata come causa con un rapporto di presupposizione logica.

Affermare, invece, con tanta veemenza e al di fuori di un contesto chiaro, che un contratto che preveda l’allocazione dei costi in maniera diversa da quella prevista dal “polluter pays principle” sarebbe “contrario all’ordine pubblico”, significherebbe sancirne in realtà la nullità assoluta anche inter partes.

Tale conclusione sarebbe ben più preoccupante ed esorbitante dalla competenza giurisdizionale del giudice amministrativo tanto che si ritiene esuli totalmente dalle intenzioni della pronuncia in esame.

Si deve desumere che la massima, che pur si è riportata in epigrafe, in tutta la sua crudezza, debba essere interpretata in modo da sancire l’assoluta irrilevanza di una pattuizione contrattuale che ripartisca i costi di bonifica in modo difforme dal dettato legale nei confronti dell’amministrazione, ma senza determinarne una insanabile nullità inter partes.

Peraltro, il dogma per cui il principio “chi inquina paga” sia “una normativa di ordine pubblico inderogabile”, se applicato in modo restrittivo e rigoroso, sarebbe in contrasto con la stessa disciplina positiva che pone in capo al “proprietario incolpevole” gli oneri fino al valore venale del bene post bonifica, principio invece normativamente cristallizzato a livello nazionale e confermato, nella sua piena e perfetta compatibilità con il diritto dell’Unione, dalla Corte di Giustizia in numerose occasioni proprio sollecitato dalle Adunanze Plenarie del Consiglio di Stato.

Sotto un profilo civilistico, quindi, non deve esservi dubbio che nella prassi della contrattualistica delle operazioni straordinarie, potrà – com’è d’uso – prevedersi una allocazione pattizia della ripartizione dei costi che non avrà alcuna efficacia nei confronti dell’amministrazione procedente (o del Ministero dell’Ambiente quale ente titolare dell’azione per il risarcimento del danno ambientale), ma che sarà pienamente efficace tra le parti.

In questi casi, non vi sarà mai alcuna vera e propria “traslazione” dell’obbligo di bonifica a carico del successore (fenomeno che, invece, si verifica in quei casi di successione a titolo universale – come l’incorporazione – nei quali si verifica l’estinzione soggettiva del cedente: cfr. Adunanza Plenaria n. 10 del 22 ottobre 2019), ma sarà possibile comunque pattuire previsioni efficaci inter partes (privatorum) che determinino obblighi giuridicamente vincolanti di facere (in relazione alle attività che, sotto un profilo pratico possono pacificamente essere condotte ex art. 245 D.Lgs. 152/06 anche da soggetto non responsabile) ovvero di dare (in relazione agli obblighi di pagamento dei costi di bonifica).

Nel finale, la decisione conferma l’approccio pragmatico, stabilendo che il responsabile dell’inquinamento non ha alcun titolo per pretendere di articolare le operazioni di bonifica secondo un progetto da lui stesso redatto. Egli versa, in sostanza, in una situazione di soggezione rispetto a un obbligo legale, il cui contenuto concreto dipende da valutazioni tecnico-discrezionali dell’amministrazione procedente, la quale – operando per il comune interesse del ripristino ambientale – non può che agire nel migliore dei modi possibili.

Nel caso in cui, quindi, esista un preesistente progetto, al responsabile che sia costretto a subirlo non resta che dimostrare che il progetto si discosta notevolmente dall’ideale, dovendo nella realtà comprovare e documentare che quanto approvato dall’amministrazione non risulta inidoneo al conseguimento dello scopo di ripristino ambientale. Diversamente, anche per motivi di intrinseca urgenza sottesi naturalmente – secondo il supremo collegio – a qualsiasi intervento ambientale, sarà costretto a realizzarlo.

Tali considerazioni, evidentemente orientate ad assicurare un risultato pratico, aprono ulteriori importanti orizzonti per chi opera nel mondo delle operazioni straordinarie che viene chiamato a studiare nuovi e ancora più ampi strumenti di tutela.

Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Giustizia Amministrativa) cliccare sul PDF in allegato.

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[i] Commentata in questa Rivista da Carlo M. Tanzarella nel numero di Febbraio 2020 https://rgaonline.it/article/bonificare-oggi-i-siti-contaminati-di-ieri/

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