Gestione non autorizzata di rifiuti: il momento consumativo in caso di messa in riserva non autorizzata

02 Nov 2023 | giurisprudenza, penale

di Andrea Ranghino

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 14 giugno 2023 (dep. 12 settembre 2023), n. 37114 – Pres. Ramacci, Est. Reynaud– ric. E. D. s.r.l.

Come tutte le condotte illecite in tema di rifiuti, anche la messa in riserva, essendo finalizzata all’esecuzione di una delle operazioni di recupero previste nei punti da R1 a R12 dell’allegato C alla Parte quarta del D.Lgs. n. 152/2006, quando è svolta senza la prescritta autorizzazione, integra una fattispecie di reato permanente, sicché la consumazione si protrae sino all’interruzione della condotta illecita, da individuarsi nell’ottenimento dell’autorizzazione o nella definitiva cessazione dell’attività gestoria di recupero.

  1. Il caso.

Una società condannata per l’illecito amministrativo dipendente dal reato di cui all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006, contestato con riguardo a un’attività di recupero di rifiuti non autorizzata e di deposito di rifiuti su un’area non autorizzata, proponeva ricorso per cassazione deducendo la violazione degli artt. 25 undecies, 60 e 67 D.Lgs. n. 231/2001 e dell’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006, perché non era stata rilevata l’improcedibilità dell’azione derivante dall’intervenuta prescrizione del reato presupposto.

Secondo la ricorrente, il reato contestato, riguardante il deposito di tre specifici cumuli di rifiuti indicati nel capo di imputazione, aveva natura istantanea e si era consumato oltre quattro anni prima dell’esercizio dell’azione nei confronti della persona giuridica. Nella sentenza impugnata, invece, era stata ritenuta la natura permanente del reato in contestazione, tuttavia, in forza di un orientamento giurisprudenziale non unanime e relativo alla diversa fattispecie del deposito incontrollato di rifiuti, estranea al catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti e neppure contestata nel caso di specie. Del resto, sebbene nel capo di imputazione si facesse riferimento anche alla condotta di deposito, a giudizio del ricorrente, l’addebito si riferiva esclusivamente all’attività di recupero di rifiuti non autorizzata e, più nello specifico, alla messa in riserva.

  1. La decisione.

La Corte di Cassazione, pur aderendo a quest’ultimo rilievo, riteneva, comunque, insussistenti i presupposti applicativi dell’art. 60 D.Lgs. n. 231/2001, stante la natura permanente anche del reato effettivamente contestato.

Il percorso argomentativo seguito dal giudice di legittimità muove proprio da un intervento chiarificatore sulla qualificazione giuridica dei fatti oggetto di addebito, premessa senza dubbio opportuna, dal momento che avendo la sentenza impugnata disatteso il motivo di gravame in forza di un precedente giurisprudenziale relativo alla diversa fattispecie di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, poteva risultare non del tutto chiaro se a rilevare fosse l’attività di recupero o quella di deposito.

A giudizio della Corte, sebbene il capo di imputazione facesse riferimento a una pluralità di condotte di illecita gestione dei rifiuti, relative tanto all’attività di recupero in mancanza della prescritta autorizzazione, quanto al deposito di tre cumuli di rifiuti speciali su un’area non autorizzata, i fatti contestati dovevano essere qualificati, ai sensi dell’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006. Nel caso di specie, infatti, il cuore dell’addebito riguardava un’attività di recupero non autorizzata e, in particolare, la messa in riserva”, che la voce R13 dell’allegato C alla Parte quarta del D.Lgs. n. 152/2006 include tra le altre operazioni di recupero giuridicamente rilevanti ai sensi dell’art. 183, lett. t), D.Lgs. n. 152/2006. La messa in riserva, attività rientrante nella più ampia categoria dello stoccaggio, deve essere autorizzata ai sensi dell’art. 208, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 anche in relazione ai siti dove stoccare i rifiuti, pena l’integrazione della fattispecie di cui al comma 1 del citato art. 256.

Dopo aver dissolto ogni dubbio in merito alla corretta qualificazione dei fatti contestati il giudice di legittimità osservava che, proprio come la contravvenzione prevista dall’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 – a cui si riferiva il precedente giurisprudenziale citato nella sentenza impugnata –, anche la contravvenzione prevista dal primo comma della medesima norma, a seconda dei casi, può assumere la natura del reato istantaneo, permanente o eventualmente abituale in presenza di condotte ripetitive già di per sé idonee a integrare il reato.

Con specifico riferimento al caso di specie la Corte di Cassazione osservava che il reato oggetto di addebito, essendo consistito in un’attività di recupero di rifiuti non autorizzata, nelle forme della messa in riserva, si era protratto sino all’interruzione della condotta illecita, momento che può coincidere o con l’ottenimento dell’autorizzazione o con la cessazione dell’attività di recupero.

Di conseguenza, benché riferiti a una diversa fattispecie, non doveva ritenersi improprio il richiamo ai precedenti giurisprudenziali operato nella sentenza impugnata, in quanto le condotte illecite in tema di rifiuti, compreso il deposito incontrollato – se non esaurisce i propri effetti fin dal momento dell’abbandono e non presuppone una successiva attività gestoria di recupero o smaltimento – hanno natura permanente quando l’attività illecita è prodromica al successivo recupero o smaltimento. In tal caso, quindi, la condotta cessa solo nel momento in cui sono compiute le fasi ulteriori rispetto a quella del rilascio.

L’applicazione di tali principi nel caso concreto conduceva la Corte di Cassazione a ritenere rilevante, ai fini dell’individuazione del momento consumativo del reato, non le date del reiterato deposito dei tre cumuli di rifiuti nello specifico sito, ma la persistenza dell’attività di recupero di tali rifiuti al momento del sopralluogo, verosimilmente degli operanti di polizia giudiziaria, avvenuto in epoca successiva. Da qui fatalmente lo spostamento in avanti anche del termine di prescrizione del reato contestato e la valutazione di tempestività dell’azione esercitata contro l’ente.

  1.  Conclusioni.

Nel caso in esame la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla natura della fattispecie di cui all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006, quando a essere contestata è l’attività di recupero non autorizzata di cui al punto R13 del decreto legislativo appena menzionato, vale a dire la messa in riserva dei rifiuti.

Benché non espressamente menzionata dalla fattispecie incriminatrice, stando ai precedenti giurisprudenziali relativi all’attività di stoccaggio, sembra pacifico che la messa in riserva, se effettuata senza autorizzazione, integri la contravvenzione di gestione di rifiuti non autorizzata[1].

Del resto, come rilevato anche nella sentenza in commento, l’art. 183, lett. aa), D.Lgs. n. 152/2006 qualifica espressamente la messa in riserva di rifiuti quale attività di stoccaggio finalizzata all’esecuzione di una delle operazioni di recupero previste nei punti da R1 a R12 dell’allegato C alla Parte quarta del citato decreto legislativo più volte citato. Ne consegue, dunque, che, al pari del deposito preliminare di rifiuti[2], altra forma di stoccaggio prevista dall’art. 183, comma 1, lett. aa) sopra richiamato, anche la messa in riserva rappresenta una fase di gestione dei rifiuti. Per tale ragione può essere svolta solo previa autorizzazione della pubblica amministrazione, pena l’integrazione della fattispecie di cui all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006[3].

Sulla natura di tale fattispecie, la Corte di Cassazione, ancora di recente, si è espressa affermando che «ha sì natura di reato istantaneo, atteso che si perfeziona nel luogo e nel momento in cui si realizzano le singole condotte tipiche, fatta peraltro eccezione del caso in cui, stante la ripetitività della condotta, esso si configuri quale reato eventualmente abituale […] con la conseguenza che, coincidendo il momento della consumazione della condotta delittuosa con la cessazione dell’abitualità, il termine di prescrizione decorre dal compimento dell’ultimo atto antigiuridico»[4]. In applicazione del principio di diritto sopra riportato il giudice di legittimità ha quindi ritenuto che la presenza di rifiuti nel sito aziendale al momento dell’accesso degli operanti di polizia giudiziaria inibisse la possibilità di ritenere il reato estinto. Al ricorrente, che aveva invocato l’intervenuta prescrizione del reato ancora prima dell’accesso della polizia giudiziaria, facendo decorrere il relativo termine dal momento in cui era avvenuto il deposito (o l’ultimo dei depositi), la Corte sembrerebbe aver risposto, come nel caso di specie, che, al fine di stabilire quando il reato si è consumato, non si deve guardare al momento in cui l’attività di gestione illecita è iniziata (con lo stoccaggio), ma a quello in cui detta attività può dirsi compiuta o in cui, comunque, viene meno la connotazione antigiuridica (perché l’attività è stata interrotta dall’intervento dell’Autorità o perché, nel frattempo, autorizzata).

A parere di chi scrive, l’applicazione nel caso in esame del principio di diritto su cui ci si è appena soffermati avrebbe condotto la Corte a una soluzione sostanzialmente identica a quella indicata nella sentenza in commento. Del resto, il reiterato deposito dei tre cumuli di rifiuti – di cui si dà atto nella decisione – avrebbe consentito di qualificare il reato come eventualmente abituale e, di conseguenza, di far coincidere il momento consumativo con il completamento dell’attività di recupero o, comunque, con l’interruzione della situazione antigiuridica.

Il giudice di legittimità, invece, ha optato per una qualificazione della messa in riserva in termini di reato permanente, il che non rappresenta una novità assoluta, dal momento che, con riferimento alla generica condotta di stoccaggio, un tale principio era già stato affermato[5].

La decisione assunta dalla Corte, in ogni caso, non sembra entrare in contrasto con le pronunce che riconoscono alla fattispecie di cui all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 natura eventualmente abituale. È la stessa sentenza in commento, del resto, a precisare come detta fattispecie possa «assumere i contorni di un reato istantaneo, permanente o eventualmente abituale». Semmai se ne trae la conferma ulteriore, o definitiva, che, quando il reato di illecita gestione dei rifiuti è integrato da una condotta di stoccaggio, allora, acquisirà natura permanente e si consumerà solo al momento della rimozione della situazione abusiva.

Da sottolineare che il giudice di legittimità, a quanto risulta per la prima volta, al fine di affermare la natura permanente dell’attività di stoccaggio, ha richiamato anche i principi interpretativi, ormai consolidati, formulati riguardo alla diversa fattispecie del deposito incontrollato di rifiuti[6].

Il giudice di legittimità, quindi, sembra aver riconosciuto espressamente una sovrapponibilità, quantomeno in ordine alle finalità perseguite, tra la condotta di deposito sanzionata dall’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 e quella di stoccaggio riconducibile alla fattispecie di cui al prima comma del medesimo articolo. Alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale[7] degli ultimi anni, del resto, può dirsi ormai certo che, a differenza dell’abbandono e proprio come lo stoccaggio, il deposito si contraddistingue per essere prodromico «ad una successiva fase di smaltimento o di recupero del rifiuto […], caratterizzandosi essa, pertanto, come una forma, per quanto elementare, di gestione del rifiuto (della quale attività potrebbe dirsi che costituisce il “grado zero”)»[8].

In sostanza, il ragionamento sviluppato dalla Corte sembra riassumibile nei seguenti termini: se il deposito incontrollato ha natura permanente quando è finalizzato al successivo smaltimento o recupero dei rifiuti, la medesima natura deve essere attribuita alle attività di stoccaggio che tendono a tali finalità per espressa previsione legislativa.

Nella sentenza in commento l’estensione dei principi ermeneutici formulati con riferimento al deposito incontrollato ha rappresentato uno strumento senza dubbio efficace per argomentare in ordine alla natura permanente della condotta di messa in riserva.

Sorge solo un dubbio: con l’assimilazione del deposito incontrollato alle attività di stoccaggio, seppur limitatamente alla natura del reato, non si finisce per attrarre sempre di più la prima condotta all’attività di gestione dei rifiuti e, dunque, alla fattispecie di cui al primo comma dell’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006? Si è visto, del resto, che in alcune sentenza il deposito incontrollato viene qualificato come forma di gestione dei rifiuti sia pure elementare. In altri termini, non si corre il rischio che le condotte di deposito, ovviamente realizzate al di fuori delle previsioni di legge, siano, sempre più spesso, qualificate come gestione illecita dei rifiuti riducendo a un ambito del tutto marginale la fattispecie – già residuale – di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006)?

Soprattutto per gli enti non si tratta di una questione di scarso rilievo considerando che solo la prima fattispecie rientra tra i reati presupposto della responsabilità amministrativa.

Forse sono timori infondati, tuttavia, non va trascurato che il deposito incontrollato sembra tuttora patire un difetto di tipicità, dal momento che non trova debita definizione in alcuna fonte normativa.[9]

Sarebbe allora auspicabile un ulteriore sforzo da parte della Corte, volto a chiarire quando il deposito incontrollato, seppur propedeutico a successive operazioni di smaltimento o recupero dei rifiuti, non possa essere considerato attività di gestione. E ciò, verosimilmente, in ragione dell’occasionalità della condotta e della mancanza di qualsiasi tipo di organizzazione.

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RGA Online – Ranghino novembre 2023

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Cass. III, 37114_2023 (nota Ranghino)

NOTE:

[1] In giurisprudenza si veda Corte Cass. pen., sez. III, 13 novembre 2013, n. 48491, in cui si è affermato: «la giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di rilevare che anche nelle direttive comunitarie l’attività di stoccaggio viene considerata un’operazione di smaltimento o di recupero secondo la destinazione del rifiuto, con l’ovvia conseguenza che, qualora il termine stoccaggio non venga utilizzato in alcune disposizioni (come in quelle che prevedono sanzioni per l’illecita attività di gestione) si applicheranno comunque le disposizioni previste, a seconda dei casi, per lo smaltimento ed il recupero».

[2] Finalizzato all’esecuzione di una delle operazioni di smaltimento previste nei punti da D1 a D14 dell’allegato B alla Parte quarta del D.Lgs. n. 152/2006.

[3] Cfr. sul punto V. Paone, Il deposito incontrollato di rifiuti e l’individuazione del suo momento consumativo, in Lexambiente, 1/2020.

[4] Corte Cass. pen., Sez. III, 29 settembre 2022, n. 43590. Nello stesso sono richiamate anche Corte Cass. pen., Sez. III, 30 novembre 2006, n. 13456 e Corte Cass. pen., Sez. II, 12 novembre 2020, n. 4651.

[5] Si veda Corte Cass. pen, Sez. III, 14 aprile 2015, n. 39373, in cui si afferma che «lo stoccaggio di rifiuti […] è un reato di natura permanente, la cui consumazione termine con la rimozione della situazione di fatto abusiva».

[6] Sulla natura del reato di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. 152/2006 e sulle principali questioni interpretative si sono già soffermati, di recente, A. Puccio – F. Tomasello, Deposito incontrollato di rifiuti: la cassazione torna a pronunciarsi sulla natura del reato, in questa Rivista, n. 38, gennaio 2023 e A. Marcora, Abbandono di rifiuti e deposito incontrollato: la natura permanente o istantanea del reato dipende dalle circostanze del caso concreto, in questa Rivista, 1° luglio 2023.

[7] Come noto, la natura del reato di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 è stata oggetto di articolato dibattito dottinale e giurisprudenziale. Per una ricostruzione del quadro nella sua interessa si rinvia a V. Paone, Il deposito incontrollato di rifiuti e l’individuazione del suo momento consumativo, cit. In giurisprudenza hanno ritenuto che il reato di deposito incontrollato abbia natura istantanea eventualmente con effetti permanenti, tra le altre, Corte Cass. pen., Sez. III, 20 maggio 2014, n. 38662; Corte Cass. pen., Sez. III, 9 luglio 2013, n. 42343; Corte Cass. pen., Sez. III, 21 ottobre 2010, n. 40850; Corte Cass. pen., Sez. III, 19 dicembre 2007, n. 6098. Il reato di abbandono incontrollato ha invece natura ha natura permanente se l’attività illecita è prodromica al successivo recupero o smaltimento delle cose abbandonate e, quindi, la condotta cessa soltanto con il compimento delle fasi ulteriori rispetto a quella del rilascio, tra le altre, secondo: Corte Cass. pen., Sez. III, 26 maggio 2011, n. 25216; Corte Cass. pen., Sez. III, 13 novembre 2013, n. 48489; Corte Cass. pen., Sez. III, 10 giugno 2014, n. 30910, in CED Cassazione n. 260011; Corte Cass. pen., Sez. III, 19 novembre 2014, n. 7386; Corte Cass. pen., Sez. III, 22 novembre 2017, n. 6999; Corte Cass. pen., Sez. III, 9 maggio 2019, n. 36411; Corte Cass. pen., Sez. III, 31 ottobre 2019, n. 44516; Corte Cass. pen., sez. III, 13 gennaio 2022, n. 8088.

[8] Corte Cass. pen., Sez. III, n. 36411/2019, cit.

[9] Secondo Corte Cass. pen., Sez. III, n. 44516/2019, cit. «in mancanza di una definizione normativa, il deposito incontrollato può qualificarsi escludendone la collocazione, come accennato in precedenza, nelle diverse ipotesi lecite di deposito (deposito preliminare, deposito temporaneo e messa in riserva) e distinguendolo dalle altre condotte descritte nell’art. 256, comma 2 d.lgs. 152/2006 (abbandono e immissione in acque superficiali o sotterranee)». In dottrina si veda V. Paone, Il deposito incontrollato di rifiuti e l’individuazione del suo momento consumativo, cit. e F. BARRESI, Attività di gestione di rifiuti non autorizzata, in Il nuovo diritto penale dell’ambiente, L. CORNACCHIA, N. PISANI (diretto da), Torino, 2018, p. 543.

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