Fase post-operativa di gestione della discarica, commissariamento ex art. 45 D.lgs. n. 231/2001 e prescrizione del reato

01 Mag 2022 | giurisprudenza, penale

di Enrico Fassi

Corte di Cassazione, Sez. III – 15 luglio 2021 (dep. 18 ottobre 2021), n. 36727 – Pres. Galterio, Est. Liberati – ric. F.A. – L.P.L.

Nella precisazione dei confini applicativi della contravvenzione di discarica abusiva, la Cassazione ribadisce due concetti, nel caso di specie avvinti l’uno all’altro: la fase c.d. post-operativa di gestione della discarica, successiva all’esaurimento delle volumetrie autorizzate per i conferimenti, risulta comunque da ricomprendere nella locuzione di “gestione della discarica” ai fini della punibilità per il reato di cui all’art. 256, III, d.lgs. n. 152/2006; correlativamente, il commissariamento della società disposto quale sanzione sostitutiva a quelle interdittive ex d.lgs. n. 231/2001, non comportando il venire meno della potestà gestoria tout court in capo ai soggetti attivi del reato, influisce sulla integrazione del reato anche nella specifica fase di gestione del sedime adibito a discarica, non potendosi dunque considerare – ai fini prescrizionali – quale causa interruttiva della permanenza del reato.

Con la decisione in commento, la Suprema Corte (ri)afferma e precisa diverse tematiche interessanti per il corretto inquadramento del reato di realizzazione e gestione di discarica abusiva, come noto previsto dal terzo comma dell’art. 256 d.lgs. n. 152/2006[1], in particolare rispetto al corretto computo dei termini di prescrizione della contravvenzione – funzionali alla disamina del motivo di ricorso principale presentato dai soggetti imputati – nella disamina rispetto alla efficacia interruttiva della permanenza del reato del provvedimento di commissariamento della persona giuridica disposto quale misura ex art. 45, III, d.lgs. n. 231/2001.

Il collegio infatti effettua la ricognizione della fattispecie partendo da un punto di vista nel quale la contravvenzione contestata agli imputati si collocava ed intersecava in una più complessa vicenda, che per quanto si evince dalla motivazione risultava almeno in parte già sottoposta alla attenzione della Corte[2], e che evidenziava l’avvenuto provvedimento di commissariamento delle persone giuridiche interessate disposto dal GIP nella fase cautelare del procedimento penale, quale misura sostitutiva a quelle interdittive, applicata ai sensi dell’art. 45, III, d.lgs. n. 231/2001.

Commissariamento della persona giuridica che, nell’ottica difensiva, doveva essere assimilato ad uno degli eventi che determinano la interruzione del legame e del nesso di disponibilità della stessa e del sito operativo utilizzato nell’ambito dell’attività in capo ai soggetti attivi, con ciò rescindendo la loro potestà di intervento (anche) sul bene, e conseguentemente la cessazione della permanenza del reato, discendendo dunque dal provvedimento giudiziale l’inizio della decorrenza del termine di prescrizione della contravvenzione ex art. 256, III, d.lgs. n. 152/2006.

Un passo indietro è in ogni caso opportuno per contestualizzare le direttrici di approfondimento seguite dalla Cassazione per la contravvenzione in esame.

Per quanto risulta dalla motivazione della sentenza, i soggetti imputati hanno proposto ricorso per Cassazione nei confronti della sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Brescia, che aveva parzialmente riformato la decisione di condanna pronunciata dal Tribunale di Bergamo, con la quale i ricorrenti erano stati ritenuti responsabili per il reato di cui trattasi, in relazione a tre distinte contestazioni di realizzazione e gestione di discarica abusiva di rifiuti speciali non pericolosi, provenienti da lavori di scavo e di realizzazione di una galleria stradale (con conseguente condanna alla esecuzione dei lavori di bonifica e ripristino dello stato dei luoghi).

Il giudicante di seconde cure, pur condividendo le argomentazioni del Tribunale, aveva infatti riformato la decisione di primo grado, constatando l’avvenuta prescrizione di una delle condotte integranti il reato di cui all’art. 256, III, d.lgs. n. 152/2006, conseguentemente rideterminando la pena applicata agli imputati.

I ricorsi per Cassazione presentati dagli imputati, per quanto rilevante, sono risultati pressoché sovrapponibili, incentrandosi sulla ritenuta violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata, giacché ritenuto erroneamente applicato il disposto dell’art. 158 cp, con riguardo all’individuazione del termine a partire dal quale avrebbe dovuto decorrere il termine di prescrizione del reato, in considerazione della supposta avvenuta cessazione della condotta esigibile in capo agli stessi.

Nello specifico, il decorso del termine di prescrizione delle contestazioni correlate alla integralità delle condotte punite dall’art. 256, III, d.lgs. n. 152/2006, avrebbe dovuto essere collegato ad un evento tale da ingenerare la cessazione della permanenza del reato, quale l’avvenuto commissariamento del gruppo di società gestite dai ricorrenti, disposto dal GIP di Brescia con provvedimento cautelare emesso il giorno 27 maggio 2012 ai sensi dell’art. 45, III, d.lgs. n. 231/2001.

Tale provvedimento, nell’ottica dei ricorrenti, aveva estromesso gli imputati dalla sfera gestoria delle società del gruppo, con conseguente impossibilità per gli stessi di intervenire nella loro conduzione e gestione, non potendo finanche porre in essere – nella c.d. fase post-operativa – azioni di ripristino e bonifica (cosiccome appunto di gestione stessa) dei terreni interessati dalle condotte di discarica abusiva, generando dunque una condizione di inesigibilità della condotta loro imposta dalla legge ed integrando una delle ipotesi di cessazione della permanenza del reato, determinata dalla privazione della disponibilità della res in capo agli agenti tale da rompere il legame tra costoro ed il bene[3].

La Cassazione, esaminati i ricorsi degli imputati, perviene alla loro declaratoria di infondatezza.

Per giungere a tale approdo, il collegio ripercorre l’elaborazione giurisprudenziale esistente per la contravvenzione di cui trattasi, partendo dalla disamina di due locuzioni contenute nel precetto dell’art. 256, III, d.lgs. n. 152/2006 e formulate attraverso il rinvio ad elementi normativi extrapenali, ovverosia i concetti di discarica e di gestione.

Riguardo al primo, la Corte osserva come il riferimento normativo sia contenuto nell’art. 2, I, lett. g), d.lgs. n. 36/2003, che definisce la discarica come l’area «adibita a smaltimento dei rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo, compresa la zona interna al luogo di produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi da parte del produttore degli stessi, nonché qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per più di un anno»[4], con ciò distinguendo da concetti contigui quali gli impianti ove i rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il successivo trasporto in impianto di recupero, trattamento o smaltimento, cosiccome le ipotesi di stoccaggio di rifiuti in vista del loro successivo recupero o smaltimento[5].

Rispetto al secondo, invece, il collegio si riporta alla consolidata argomentazione[6] per la quale l’attività di gestione presuppone «l’apprestamento di un’area per raccogliervi i rifiuti e consiste nell’attivazione di una organizzazione, articolata o rudimentale non importa, di persone cose e/o macchine (come, ad esempio, quella per il compattamento dei rifiuti) diretta al funzionamento della discarica», in rapporto alla contigua – e parimenti menzionata nell’art. 256, III, d.lgs. n. 152/2006 – condotta di realizzazione del sito di discarica che invece è stata individuata nella «destinazione e allestimento a tale scopo di una data area, con l’effettuazione, di norma, delle opere a tal fine occorrenti: spianamento del terreno impiegato, apertura dei relativi accessi, sistemazione, perimetrazione, recinzione, ecc[7].

Da tale distinzione tra le diverse condotte illecite, la Corte riporta altresì il corollario ormai granitico in giurisprudenza, per il quale la realizzazione di una discarica abusiva si consumerebbe nel momento nel quale viene ultimata l’opera abusiva, diventando successivamente ad effetti permanenti, mentre al contrario la gestione di discarica abusiva risulterebbe reato permanente per tutto il tempo nel quale l’organizzazione risulta attiva[8].

Per quanto osservato rispetto alla locuzione di gestione, la Corte si riallaccia altresì alla nozione di gestore della discarica, di cui all’art. 2, lett. o), d.lgs. n. 36/2003, affermando che la responsabilità del soggetto attivo del reato si protrarrebbe, per espressa previsione legislativa, fino al termine della gestione post-operativa del sito con i correlati obblighi vigenti per tale fase[9].

Il gestore, in altre parole, rimarrebbe tale – appunto anche dal punto di vista della sua responsabilità penale – fino al termine della vita della discarica, coincidente con il provvedimento amministrativo di chiusura del sito in seguito agli adempimenti previsti dalla legge[10].

Da ciò, la Corte conferma come il mancato esercizio dell’attività di controllo e vigilanza sul sito di discarica, anche dopo la cessazione dei conferimenti, rientrerebbe precisamente nella condotta integrante il reato di cui all’art. 256, III, d.lgs. n. 152/2006 e non risulterebbe invece estrinsecazione di un generico obbligo di eliminare le conseguenze dannose di un reato già perfezionatosi[11].

E dunque, approssimandosi all’esame della doglianza presentata dai ricorrenti, in relazione all’individuazione del termine di prescrizione della contravvenzione contestata, anche la gestione abusiva del sito mantenuta nella fase post-operativa rileverebbe in primis per l’integrazione della fattispecie di cui trattasi[12] e, al contrario, verrebbe meno – con quanto conseguente in punto di cessazione della permanenza del reato – con il venire meno della situazione di antigiuridicità, determinata alternativamente dal rilascio della autorizzazione amministrativa, dalla rimozione dei rifiuti, dalla bonifica dell’area, dal sequestro del sito che sottrarrebbe al gestore la relativa disponibilità, «ferma restando la facoltà del gestore di chiedere e ottenere la restituzione al solo fine di rimuovere i rifiuti e provvedere a ogni altro intervento ripristinatorio», ovvero infine con la pronuncia della sentenza di primo grado[13].

L’inquadramento compiuto dal collegio diviene pertanto funzionale alla disamina del motivo di ricorso principale dei soggetti imputati, nella sostanza afferente alla parificazione – quanto alla capacità di far cessare la permanenza del reato con ciò interrompendo il decorso del termine di prescrizione – della misura del commissariamento dell’ente ex art. 45, III, d.lgs. n. 152/2006 con uno degli eventi individuati dalla costante giurisprudenza di legittimità.

Tema, quest’ultimo, invero già incidentalmente affrontato dalla Corte nel precedente arresto riguardante la vicenda oggetto della decisione, la quale aveva infatti affermato come il commissariamento della società non potesse costituire un evento parificabile al sequestro dell’area, giacché si tratterebbe di istituti diversi tra loro, il primo afferente la sfera soggettiva dell’organo gestorio dell’ente, mentre il secondo riguardante un dato di carattere oggettivo.

La conclusione già raggiunta dalla Cassazione, pertanto, viene riproposta anche nella sentenza in commento, ove la cesura nella permanenza del reato viene individuata nella pronuncia della sentenza di primo grado, avvenuta il giorno 13 settembre 2017, con quanto conseguente in punto di mancato decorso dei termini massimi di prescrizione per le contestazioni contravvenzionali residuali per due fattispecie di discarica abusiva, accompagnate da talune considerazioni riguardanti la natura e perimetro della misura cautelare interdittiva applicabile agli enti ai sensi del d.lgs. n. 231/2001.

Partendo dai dati fattuali riscontrabili, viene infatti osservato come:

– da un lato, fossero ben precisi i compiti affidati al commissario giudiziale con il provvedimento del GIP del maggio del 2012, consistenti nella prosecuzione dell’attività di impresa con la gestione degli appalti e delle forniture pubbliche, all’uopo adottando i modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;

– dall’altro lato, la Corte territoriale avesse riscontrato la permanenza di contatti tra gli imputati ed i collaboratori operativi presso i siti di discarica, ciò che non avrebbe eliso i rapporti di carattere personali tra gli stessi e – si aggiunge, leggendo tra le righe – non avrebbe impedito agli apicali, solo ove ve ne fosse stata la intenzione, di attivarsi per proporre, anche per mezzo del commissario giudiziale nominato, iniziative di carattere ambientale per pervenire alla eliminazione della situazione antigiuridica rilevata.

In generale, l’istituto del commissariamento, di cui all’art. 45, III, d.lgs. n. 231/2001, prevede infatti come la A.G. possa, in luogo di disporre una misura interdittiva ai sensi del comma 1 della medesima disposizione, e sussistenti le condizioni di legge, attribuire ad un commissario giudiziale i poteri previsti dall’art. 15 d.lgs. n. 231/2001[14], secondo uno schema che delinea il carattere afflittivo della misura, desumibile sia dalla sua durata, pari alla sanzione che sostituisce, sia dalla previsione della confisca dell’eventuale profitto tratto dall’ente nel periodo di gestione commissariale in caso di pronuncia di sentenza di condanna definitiva.

Particolarmente rilevante diviene per ciò la previsione che attribuisce al commissario, sulla base della ordinanza cautelare del giudice, specifici poteri e incarichi nell’esercizio dell’attività societaria, e che dovrebbero limitarsi allo specifico settore o ambito di competenza nel quale si assume essere stato commesso l’illecito[15], mentre più problematica appare invece l’attribuzione dell’ulteriore compito di dare attuazione ed esecuzione ai modelli organizzativi e di controllo idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi, giacché si imporrebbe siffatto incombente in un momento nel quale non vi è una sentenza definitiva che abbia accertato la responsabilità dell’ente e quindi una effettiva carenza nel modello stesso[16].

Tale previsione risulta accompagnata e completata, seguendo il percorso interpretativo della Corte, dalla mancata indicazione, nel d.lgs. n. 231/2001, di una norma parificabile all’art. 2409 cc, da ciò potendosi osservare come la nomina del commissario non sembrerebbe operare la decadenza o la sospensione tout court degli organi amministrativi della società, con i quali quindi il commissario giudiziale stesso dovrebbe ripartirsi i poteri ed i compiti[17].

Rapportando dunque i formanti cennati dell’istituto al caso di specie, il collegio osserva in primo luogo come fossero stati ben precisati e determinati i compiti del commissario giudiziale nel provvedimento del GIP di Brescia del 25 maggio 2012 e in secondo luogo che, essendo la responsabilità per la gestione (post) operativa della discarica un’obbligazione comunque gravante su chi aveva realizzato e gestito il sito, fino al completamento delle procedure di chiusura previste dalla legge secondo la definizione data dall’art. 2, lett. o), d.lgs. n. 36/2003, il provvedimento giudiziale di mutamento dell’organo amministrativo non avrebbe determinato la integrale impossibilità in capo al gestore di provvedere a tutte le attività appunto connesse alla fase post operativa di gestione.

La Corte dunque afferma, nel prendere posizione sul motivo di ricorso degli imputati, che «il mero mutamento dell’organo amministrativo non comporta […] il venir meno degli obblighi gravanti sul gestore relativi alla fase post operativa della discarica, con la conseguenza che tale evenienza non determina neppure il cessare della permanenza della condotta», così che l’estraneità alla amministrazione e alla gestione dell’ente nel cui interesse venne realizzata la discarica abusiva, o la indisponibilità dell’organizzazione di impresa in seguito a provvedimento della A.G., non escluderebbero la sussistenza dell’obbligo di provvedere alla fase post operativa della discarica il capo al gestore, attraverso la proposizione – si ritiene, con il coinvolgimento necessario della figura commissariale – di richiesta per avviare l’iter amministrativo volto alla eliminazione o quantomeno riduzione delle conseguenze del reato.

In conclusione, ciò che si evidenzierebbe sarebbe un particolare onere di attivazione dell’amministratore sostituito ex art. 45, III, d.lgs. n. 231/2001, mediante proposte di impulso per il governo della problematica ambientale riscontrata (che se attivate e condotte a termine spiegherebbero i propri effetti quantomeno in punto di cessazione della permanenza del reato), a maggior ragione ove la misura interdittiva non sia stata accompagnata da un provvedimento cautelare reale di sequestro del sito, ciò che invece reciderebbe, secondo la giurisprudenza sopra richiamata, il legame di disponibilità del gestore sul sedime (e dunque per quanto qui rilevante, la permanenza del reato di cui all’art. 256, III, d.lgs. n. 152/2006).

Quanto esposto, in particolare, in un caso come quello oggetto della pronuncia in commento, nel quale – in assenza di provvedimenti di sequestro preventivo del sito – non erano state riscontrate iniziative in tal senso dei soggetti imputati, pur se rimossi dalla carica societaria, né verso le autorità d’ambito, né verso il proprietario dei terreni ove la discarica abusiva era stata realizzata, i quali si erano limitati a sostenere nel giudizio di merito la impossibilità, determinata dall’avvenuto commissariamento giudiziale delle società, di procedere alle attività necessarie per la fase post operativa, essendo viceversa per la Corte ben possibile l’impostazione di una iniziativa di mitigazione ambientale secondo le indicazioni stabilite dagli enti tutori competenti.

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RGA Online – Fassi maggio 22

Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Giustizia Amministrativa) cliccare sul pdf allegato.

Cass. pen., Sez. III, 37601_2021 (fassi)

[1] Che prevede come «Fuori dei casi sanzionati dall’art. 29 quattuordecies, comma 1, chiunque realizza o gestisce una discarica non autorizzata è punito con la pena dell’arresto da sei mesi a due anni e con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro. Si applica la pena dell’arresto da uno a tre anni e dell’ammenda da euro cinquemiladuecento a cinquantaduemila se la discarica è destinata, anche in parte, allo smaltimento di rifiuti pericolosi. Alla sentenza di condanna o alla sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, consegue la confisca dell’area sulla quale è realizzata la discarica abusiva se di proprietà dell’autore o del compartecipe del reato, fatti salvi gli obblighi di bonifica o di ripristino dello stato dei luoghi».

[2] Si veda Cass., sez. III, 5 marzo 2015, n. 12970, che aveva accolto i ricorsi presentati dalla Procura della Repubblica (e dalle parti civili costituite).

[3] Richiamando i ricorrenti Cass, sez. III, 27 marzo 2007, n. 22826.

[4] Senza dimenticare la distinzione, a monte, tra concetto di discarica e concetto di mero abbandono di rifiuti, foriera di inconvenienti applicativi soprattutto nelle ipotesi nelle quali la realizzazione del sito di discarica non era preceduta dagli interventi tipici per la predisposizione dei luoghi e per l’approntamento delle attività (quali l’esecuzione di sbancamenti, escavazioni, impermeabilizzazioni del terreno, ecc.) e risolta dalla giurisprudenza con la individuazione di indici rilevatori tipici, come la dimensione del fenomeno – in termini spaziali e quantitativi – la ripetitività degli scarichi e infine la permanenza del processo di smaltimento dei rifiuti per un tempo apprezzabile. Si veda Cass., sez. III, 15 novembre 2006, n. 37557.

[5] Secondo la distinzione tra i diversi tipi di deposito individuata, sinteticamente: i) nel raggruppamento di rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo nel quale gli stessi sono prodotti, definito deposito temporaneo ex art. 183, I, lett. bb), d.lgs. n. 152/2006; ii) attività di stoccaggio (per un periodo inferiore a tre anni qualora riferito a successive attività di recupero o trattamento, ovvero per un periodo inferiore a un anno, in caso di successive attività di smaltimento; iii) attività di deposito permanente nel suolo o sul suolo, ossia appunto di discarica, subordinate al possesso da parte del gestore delle apposite iscrizioni previste dalla Parte Quarta del d.lgs. n. 152/2006 ovvero dal d.lgs. n. 36/2003. Per un approfondimento, BOVINO, Rifiuti e imballaggi, in Manuale Ambiente, 2016, Milano, p. 535 e ss.

[6] Discendente dalla ormai risalente, ma sempre citata, Cass., SS.UU., 28 dicembre 1994, n. 12753.

[7] E con allargamento dell’operatività di tale condotta attiva evidenziabile altresì nelle ipotesi di ripetitivo accumulo nello stesso luogo di materiali oggettivamente destinati all’abbandono, con trasformazione del sito, degradato dalla presenza di rifiuti. Cass., sez. III, 1 febbraio 2006, n. 3932

[8] Sul punto può riportarsi un dibattito svoltosi sulla tematica della discarica abusiva e della gestione di rifiuti, che prende le mosse dalla vecchia disciplina dell’art. 6, lett. d), d.lgs. n. 22/1997, che includeva nella gestione anche il controllo delle discariche e degli impianti di smaltimento dopo la chiusura, confermata dal successivo art. 2, lett. g), d.lgs. n. 36/2003, che menziona il piano di sorveglianza ed il controllo di gestione post-operativa del sito. Da ciò era stato osservato come la permanenza del reato di gestione discarica abusiva poteva considerarsi cessata solo dopo dieci anni dalla cessazione dei conferimenti ovvero con l’ottenimento e la rimozione dei rifiuti, Cass, sez. III, 27 gennaio 2004, n. 2662. Tale conclusione era stata criticata dalla dottrina, che, correttamente, riteneva non sussistente nella normativa un riferimento temporale decennale, mentre al tempo stesso osservava come le ulteriori attività di controllo successive alla chiusura dell’impianto non fossero comprese nelle nozioni di smaltimento o recupero, trattandosi di fasi non autonome e dunque soggette a particolare regime amministrativo, bensì di regole comportamentali da seguire nello svolgimento delle attività di raccolta, trasporto, recupero e smaltimento, PAONE, Ancora incertezze sul reato di discarica non autorizzata, in Ambiente Consulenza e Pratica per l’impresa, 2004, 10, p. 979. La tematica fu nuovamente affrontata dalla giurisprudenza, che pervenne alla affermazione per cui la fase post-operativa, con i relativi controlli e precauzioni, in una con il ripristino ambientale del sito, costituirebbero parte del ciclo di vita della discarica, come tali soggette alla disciplina autorizzatoria e dunque da ricomprendere all’interno del precetto di cui all’art. 256, III, d.lgs. n. 152/2006 anche rispetto alla considerazione sulla permanenza del reato, estesa fino al momento nel quale il deposito e l’accumulo di rifiuti sono effettuati in contrasto con l’ordinamento, Cass., sez. III, 16 dicembre 2004, n. 48402.

[9] RUGA RIVA, Diritto penale dell’ambiente, Torino, 2016, p. 169 e ss.

[10] Così, Cass., sez. III, 16 giugno 2016, n. 40318.

[11] Cass., sez. III, 18 marzo 2013, n. 32797; Cass., sez. III, 5 marzo 2015, n. 12970; Cass., sez. III, 15 dicembre 2016, n. 12159.

[12] Come del resto la stessa Cassazione aveva evidenziato nella precedente decisione resa proprio su una vicenda collegata a quella oggetto del ricorso de quo, nella quale aveva valorizzato ai fini della definizione dell’attività di gestione della discarica anche quella effettuata nella fase post-operativa. Si veda sub nota 2 per i riferimenti.

[13] Riportando Cass., sez. III, n. 32797, cit., poi confermata da successivi arresti del giudice di legittimità, tra i quali, ex multis, Cass., sez. III, 13 aprile 2016, n. 39781. In senso critico di tale orientamento, PAONE, Discarica abusiva; rilevanza della fase postoperativa e permanenza del reato, in Ambiente, 2014, p. 267 e ss.

[14] Nello specifico, quando sussistono i presupposti per l’applicazione di una misura interdittiva che determina l’interruzione della attività dell’ente, il giudice può, in luogo della applicazione della stessa, disporre per la prosecuzione dell’attività da parte del commissario giudiziale individuato per un periodo di tempo pari alla durata della pena interdittiva che sarebbe stata applicata e se l’ente svolge un pubblico servizio o un servizio di pubblica necessità ovvero se l’interruzione dell’attività possa recare un grave pregiudizio alla collettività o ancora se dalla interruzione possano conseguire rilevanti implicazioni occupazionali, tenuto conto delle dimensioni e delle condizioni economiche della persona giuridica. Per un inquadramento dell’istituto, VARRASO, Il procedimento per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, in Trattato di Procedura Penale, UBERTIS-VOENA (diretto da), Milano, 2012, p. 212 e ss.; BRICHETTI, Misure cautelari, in AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti. D.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, Milano, 2002, p. 267 e ss.

[15] Come osservato da Cass., sez. VI, 25 gennaio 2010, n. 20560, che ha valorizzato il principio di frazionabilità delle misure interdittive, nonché di adeguatezza e proporzionalità delle stesse, intendendo limitato l’ambito dell’intervento interdittivo, ove possibile, alla sola parte dell’attività della impresa interessata dalla condotta illecita.

[16] VARRASO, Il procedimento per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, cit., p. 214; PAOLOZZI, Vademecum per gli enti sotto processo, Torino, 2006, p. 145 e ss.

[17] Secondo tale norma, il giudice civile, una volta riscontrate gravi irregolarità nella gestione dell’impresa, può adottare provvedimenti cautelari, o, nei casi più gravi, revocare amministratori e sindaci e nominare un amministratore giudiziario, determinando poteri e durata dell’incarico.

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