Dal rifiuto al prodotto passando per il ciclo dell’”end of waste”. La Suprema corte si pronuncia sui criteri dell’ art. 184 ter del Testo Unico ambientale

15 Giu 2020 | giurisprudenza, penale

di Vincenzo Morgioni

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 14 novembre 2019 (dep. 26 febbraio 2020), n. 7589 – Pres. Sarno, Est. Gentili – ric. Kweku

Affinché un bene o una sostanza perda la qualifica di rifiuto è necessario che la stessa sia stata preventivamente sottoposta ad un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo che, sebbene possano consistere anche in operazioni di cernita e di selezione di beni, fin tanto che non si sono esaurite non comportano né la cessazione della attribuzione della qualifica di rifiuto ai beni in questione né tantomeno la estraneità di essi alla disciplina in materia di rifiuti.

  1. La vicenda processuale.

La vicenda prende le mosse dalla contestazione elevata nei confronti degli imputati per il reato di cui al vecchio art. 260 del D.Lgs. n. 152/2006, già allora rubricato “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”, in quanto, in concorso tra loro, avevano organizzato lo stoccaggio di un ingente quantitativo di rifiuti e il successivo trasporto verso l’Africa.

Segnatamente, i carichi erano costituiti da elettrodomestici rotti o comunque obsoleti, copertoni usurati, batterie di autoveicoli dismesse, ovvero, più in generale, da beni che, stando alle dichiarazioni rese dagli imputati nel corso del procedimento, erano privi di valore commerciale nel territorio nazionale, ma suscettibili di essere riparati e rivenduti in Ghana.

All’esito dei primi due gradi di giudizio, gli imputati erano ritenuti responsabili per il reato loro ascritto e condannati alla pena ritenuta di giustizia, sull’assunto che i materiali trasportati senza alcuna autorizzazione ben potevano essere qualificati come rifiuti e, pertanto, poteva dirsi integrata la fattispecie di cui all’art. 260 D.Lgs. n. 152/2006 (di seguito, Testo unico ambientale o T.U.A.).

Gli imputati ricorrevano dunque in Cassazione deducendo, innanzitutto la violazione di legge derivante dall’erronea interpretazione della nozione di rifiuto richiamata nel testo del reato a loro contestato.

In particolare, secondo l’assunto difensivo, i materiali stoccati e trasportati non potevano ricadere al di sotto di tale accezione posto che la merce era in gran parte costituita da beni ricevuti dagli imputati da parte di propri connazionali per la spedizione in Africa, ed in altra parte composta da materiali destinati ad essere impiegati in attività produttive presso il continente.

E qualora si fosse inteso ricondurre il materiale rinvenuto alla nozione di cui sopra, in ogni caso, secondo un altro motivo dedotto dalla difesa, avrebbe difettato nel caso di specie il requisito dell’ingente quantità dei rifiuti trattati.

La Cassazione, rigettando i ricorsi, osservava che il possibile riutilizzo dei materiali trasportati, oggetto dell’imputazione, non privava questi ultimi della loro qualità di rifiuti, considerando che, secondo le disposizioni vigenti, la perdita di tale qualifica è subordinata alla sottoposizione dei beni al procedimento c.d. di “end of waste”.

In particolare, occorreva a tal fine che i cespiti fossero oggetto di “un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo” o, quantomeno, di “cernita e di selezione”, come tuttora previsto dall’art. 184 ter, comma 1, del T.U.A., con la conseguenza che in assenza di tali condotte non poteva dirsi “cessata l’attribuzione della qualifica di rifiuto ai beni in questione”.

Ciò premesso, considerando che nel caso sottoposto all’esame della Suprema Corte non risultavano essere state compiute neppure operazioni di mera selezione dei beni sulla base della loro specifica tipologia, non poteva che dirsi integrato l’elemento oggettivo del reato per il quale gli imputati erano stati tratti a giudizio.

Inoltre, precisava la Suprema Corte, la quantità di rifiuti trasportata non poteva neppure considerarsi esigua, come ipotizzato dalla difesa, sia in virtù del peso della merce, circa nove tonnellate, sia in considerazione delle evidenze probatorie che avevano dimostrato come il carico sottoposto a sequestro costituisse il contenuto di una delle plurime spedizioni che gli imputati avevano effettuato verso l’Africa.

  1. La cessazione della qualifica di “rifiuto” e il ciclo dell’“end of waste”: l’art. 184 ter del T.U.A.

Il quadro normativo a cui fa riferimento la sentenza attiene alla disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto, che è subordinata ad una serie di parametri variabili in base alla tipologia del rifiuto sottoposto al ciclo di “end of waste”.

Quest’ultimo, in particolare, è disciplinato dall’art. 184 ter del T.U.A., una disposizione che ha fatto il suo ingresso nel nostro ordinamento a seguito dell’adeguamento della normativa nazionale al contenuto della Direttiva 2008/98/CE (e succ. mod.) ed è stato recentemente modificato dalla D.L. 3 settembre 2019, convertito in L. 128/2019 (che ha disciplinato il rilascio delle autorizzazioni “caso per caso” da parte delle Regioni).

La norma prevede che un rifiuto cessi di essere tale se, innanzitutto, venga “sottoposto a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo”.

Si tratta di concetti il cui significato è esaustivamente chiarito dall’art. 183 del T.U.A. per il quale:

  • è recupero, ai sensi del comma 1, lett. t), “qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile, sostituendo altri materiali che sarebbero stai altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione all’interno dell’impianto o nell’economia generale”. Il testo rimanda poi ad un elenco non esaustivo contenuto nell’allegato C) del T.U.A;
  • è riciclaggio, ai sensi del comma 1, lett. u), “qualsiasi operazione di recupero attraverso cui i rifiuti sono trattati per ottenere prodotti, materiali o sostanze da utilizzare per la loro funzione originaria o per altri fini”;
  • infine, rientrano nella preparazione per il riutilizzo “le operazioni di riutilizzo di controllo, pulizia, smontaggio e riparazione attraverso cui i prodotti o componenti di prodotti diventati rifiuti sono preparati in modo da poter essere reimpiegati senza pretrattamento”.

La sostanza prodotta all’esito di una delle operazioni descritte dovrà poi soddisfare dei criteri specifici determinati dalla normativa di settore (in termini generali per determinate categorie di materiali) o dalle autorizzazioni (appunto, per disciplinare le ipotesi di end of waste “caso per caso”): segnatamente, per ciascuna tipologia di rifiuti, tali criteri dovranno assicurare, innanzitutto che la sostanza recuperata abbia riacquistato una propria utilità ovvero possa “essere utilizzata per scopi specifici” e reinserita in un mercato per la sua commercializzazione.

Infine, i criteri di volta in volta stabiliti dovranno garantire che la sostanza così entrata in un circuito economico fruibile alla pubblica utenza “rispetti la normativa e gli standard esistenti applicabili” e, quindi, non dia luogo a “impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana”.

Il comma secondo del citato art. 184 ter del T.U.A. dispone inoltre che l’operazione di recupero possa altresì consistere semplicemente nel controllare che i rifiuti soddisfino i criteri elaborati in conformità delle citate disposizioni.

Con riferimento all’individuazione di tali criteri, lo stesso comma stabilisce una gerarchia degli organi competenti in materia per la quale, innanzitutto, spetta alle fonti comunitarie il compito di dettare i criteri specifici dell’“end of waste” e solo in via residuale, in assenza quindi di una disciplina sovranazionale, al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare.

Sinora, l’introduzione di specifici criteri a livello comunitario si è avuta in relazione alcuni tipi di rottami metallici (Reg. n. 333/2011/UE), di vetro (Reg. n. 1179/2012/UE), e da ultimo ai rottami di rame (Reg. n. 715/2013/UE), mentre, in Italia risultano essere stati emanati il D.M. n. 22 del 14 febbraio 2013, recante la disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di determinate tipologie di combustibili solidi secondari (CSS), il D.M. 28 marzo 2018, n. 69, relativo alla disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di conglomerato bituminoso, il D.M. 15 maggio 2019, n. 62 per la cessazione della qualifica di rifiuto da prodotti assorbenti per la persona (PAP) e, da ultimo, il Decreto relativo agli pneumatici fuori uso, firmato dal Ministro dell’Ambiente il 1° aprile 2020.

Con riguardo ai rifiuti per i quali non siano ancora stati emanati specifici criteri di end of waste (o non sia stata rilasciata un’autorizzazione) le attività di recupero sono disciplinate da due precedenti decreti, dal taglio più generico, ovvero il D.M. 5 febbraio 1998 sul recupero in forma semplificata dei rifiuti non pericolosi, e il D.M. 12 giugno 2002, n. 161, sul recupero dei rifiuti pericolosi.

Già da questo quadro sommariamente tracciato si può desumere come, considerata tale stratificazione normativa, la linea di confine tra rifiuto e prodotto sia mutevole e destinata a spostarsi in relazione a ciascuna tipologia che il produttore dovesse trovarsi a trattare, con evidenti ricadute sulla certezza del diritto e sulla tipicità della norma penale il cui precetto, come anticipato, si aggancia a tali concetti.

Nel caso preso in esame dalla sentenza, peraltro, non vi era dubbio (per quanto si intende dalla ricostruzione della pronuncia) che i ricorrenti non avessero posto in essere alcuna delle condotte volte alla cessazione della qualifica di rifiuto, ed infatti gli stessi hanno sostenuto essere mancante, a monte, la volontà di disfarsi dei materiali da parte dei loro originari detentori, che li avrebbero affidati agli imputati per la loro valorizzazione in Africa; la Corte, come detto, ha rigettato tale prospettazione, ritenendo prevalente l’assetto oggettivo della natura del rifiuto, rispetto alla asserita valutazione soggettiva della stessa.

Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Cassazione) cliccare sul pdf allegato.

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