Cultural heritage: l’adunanza plenaria interviene sulla legittimità del vincolo di destinazione d’uso di un bene culturale #2

01 Lug 2023 | giurisprudenza, amministrativo

di Eleonora Gregori Ferri

Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 13 febbraio 2023, n. 5 – Pres. Maruotti, Rel. Rotondano – L.A.A.L. S.r.l. (Avv.ti Orsoni e Cintioli) c. Ministero della Cultura (Avv. Gen. dello Stato), Soprintendenza speciale archeologia belle arti e paesaggio di Roma, non costituita in giudizio e n.c.d. E.P. S.p.A. (Avv.ti Brunetti, Vitale e Costa)

Ai sensi degli artt. 7-bis, 10, co. 3, lett. d), 18, co. 1, 20, co.1, 21, co. 4, e 29, co. 2, del D. Lgs. n. 42 del 2004, il “vincolo di destinazione d’uso di un bene culturale” può essere imposto quando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici, sulla base di una adeguata motivazione da cui risulti l’esigenza di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato; nonché a tutela di beni che sono espressione di identità culturale collettiva, non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale, ma anche per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza.

La Sesta Sezione del Consiglio di Stato con ordinanza n. 5357 del 28 giugno 2022, ha chiesto all’Adunanza Plenaria di pronunciarsi in merito alla legittimità di un provvedimento di dichiarazione di interesse culturale, che imponga sul bene anche un vincolo di destinazione d’uso.

La vicenda si colloca nell’ambito di un lungo e complesso giudizio che ha coinvolto un famoso ristorante della Capitale, noto a livello internazionale per la sua cucina e per essere stato, sin dagli ’50 del Novecento, “teatro di frequentazioni e di eventi pubblici e privati significativi da parte di personaggi illustri italiani e stranieri[i].

I fatti di causa prendono avvio nel 2018, a seguito della dichiarazione, da parte del Ministero della Cultura, dell’interesse particolarmente importante – ai sensi degli artt. 10, co. 3, lett. d) e 7-bis del D. Lgs. n. 42/2004 – sia del locale ristorante (già oggetto di vincolo diretto[ii]), sia degli elementi di arredo contenuti al suo interno, oltre che dell’archivio e dei libri firma connessi all’attività di ristorazione.

Il provvedimento conteneva inoltre la precisazione che oggetto del vincolo non fosse da considerarsi solo l’immobile e il suo allestimento, bensì l’intero patrimonio immateriale connesso alla storica attività di ristorazione e costituito dall’insieme de “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”, così come trasmesso nel tempo e meritevole di tutela anche mediante la conservazione della “continuità d’uso esplicata negli aspetti legati alla tradizione culturale di convivialità del locale[iii].

La società allora proprietaria dell’immobile aveva quindi impugnato avanti al TAR Lazio l’ulteriore decreto di vincolo, lamentando che lo stesso avesse di fatto impresso una destinazione d’uso esclusiva al locale, in assenza di una norma attributiva di un siffatto potere, nonché in violazione dei principi costituzionali in materia di libertà dell’iniziativa economica (art. 41 Cost.) e di tutela della proprietà privata (art. 42 Cost.), introducendo di fatto una nuova forma di “espropriazione” in assenza delle garanzie previste dalla legge, nonché una disciplina di favore per l’allora gestore del ristorante, che avrebbe avuto così garantita la prosecuzione sine die della propria attività imprenditoriale.

Il TAR Lazio aveva accolto il ricorso, annullando gli atti impugnati sul presupposto che, da un lato, non rientrasse tra i poteri del Ministero quello di introdurre vincoli di destinazione d’uso dei beni culturali al di fuori delle ipotesi espressamente previste dal legislatore[iv] e, dall’altro lato, che l’art. 7-bis del D.Lgs. n. 42/2004 in materia di tutela delle “espressioni di identità culturale collettiva”, richiamato nel decreto ministeriale, non sarebbe stato idoneo a costituire il fondamento giuridico per la tutela di un’attività commerciale.

Alla sentenza del TAR si sono opposti in appello sia il gestore del ristorante, sia il Ministero della Cultura; quest’ultimo, in particolare, argomentando che il decreto di vincolo era stato emanato, in realtà, su di un duplice presupposto normativo: l’art. 10, co. 3, lett. d) del D.Lgs. n. 42/2004 per gli aspetti “materiali” – e, dunque, la tutela dei locali fisici – e l’art- 7-bis cit. per i caratteri “immateriali” legati alla tradizione culturale enogastronomica.

Per cui, secondo la difesa del Ministero, la sentenza di primo grado sarebbe stata viziata nella parte in cui contrapponeva la tutela degli aspetti materiali a quella dei caratteri immateriali del bene, impedendo, così, la salvaguardia di una res che era nel suo complesso (materiale e immateriale) una testimonianza di espressione di identità culturale collettiva.

È opportuno, a questo punto, richiamare brevemente il contenuto delle due disposizioni normative su cui il decreto ministeriale impugnato si fonda. L’art. 10 del D.Lgs. n. 42/2004, al comma terzo, lett. d), afferma che rientrano nella definizione di beni culturali[v]le cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con a storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose”. Si tratta del cd. “vincolo relazionale”, il cui presupposto applicativo risiede nella “sussistenza di un legame tra il bene [culturale] e fatti storici specifici (…) non essendo sufficienti collegamenti generici non correlati a specifici eventi” (TAR, Milano, sez. III, 11/11/2020, n. 2119).

L’art. 7-bis del D.Lgs. n. 42/2004, invece, è stato introdotto nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, nel 2008, per tutelare le “espressioni di identità culturale collettiva” in conformità alle Convenzioni Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali (ratificate dall’Italia con le leggi 27 settembre 2007, n. 167 e 19 febbraio 2007, n. 19).

Ai sensi dell’art. 7-bis, le “espressioni di identità culturale collettiva” contemplate dalle Convenzioni Unesco sono assoggettabili alle disposizioni del Codice, qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano, dunque, i presupposti e le condizioni per considerare il relativo supporto materiale quale “bene culturale”, ai sensi dell’art. 10 del D.Lgs. n. 42/2004[vi].

Ciò premesso, con riferimento alle tipologie di beni che possono essere oggetto di tutela, la giurisprudenza del Consiglio di Stato è stata spesso discordante in merito all’ammissibilità del cd. “vincolo culturale di destinazione d’uso”. In merito, nel tempo, si sono infatti venuti a formare tre distinti orientamenti.

Un primo orientamento nega l’ammissibilità di un siffatto vincolo, in quanto ritenuto incompatibile con le previsioni contenute nel Codice dei beni culturali e del paesaggio (che ammettono vincoli di destinazione d’uso solo in ipotesi specifiche[vii]) e con i principi costituzionali di tutela del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica[viii].

Un secondo orientamento, invece, ammette il potere ministeriale di imporre un vincolo culturale di destinazione d’uso, solo però in quanto funzionale ad una migliore conservazione del bene materiale. All’interno di questo filone giurisprudenziale sono state individuate, inoltre, seppur con alcune differenze fra le diverse pronunce, le condizioni che legittimano un tale intervento di tutela. In particolare, secondo parte della giurisprudenza che appartiene a questo orientamento, vincoli culturali di destinazione d’uso sarebbero ammissibili solo in circostanze eccezionali, “qualora il bene abbia subito una particolare trasformazione con una sua specifica destinazione e un suo stretto collegamento per un’iniziativa storico-culturale di rilevante importanza[ix]. In tali ipotesi, infatti, il vincolo sarebbe giustificato dalla necessità di individuare un uso compatibile con la res dichiarata di interesse culturale, e non a legittimare un determinato soggetto a svolgere un’attività commerciale sine die.

Infine, un terzo orientamento configura invece l’ammissibilità dei vincoli di destinazione d’uso culturale in un senso ancora più ampio, ritenendo che la legittimità dei relativi provvedimenti debba essere valutata avendo riguardo esclusivamente all’adeguatezza della motivazione posta a fondamento della decisione amministrativa assunta.

In ragione di questo contrasto di vedute e sul presupposto di voler aderire alla tesi dell’ammissibilità in senso più ampio, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato, come detto, ha quindi ritenuto opportuno rimettere la questione alla decisione dell’Adunanza Plenaria.

In particolare, la sezione rimettente ha chiesto, in primo luogo, se in presenza di beni culturali ai sensi dell’art. 10, co, 3, lett. d), del D.Lgs. n. 42/2004, il potere ministeriale di imporre un vincolo di destinazione d’uso “possa avvenire soltanto qualora la res abbia subito una particolare trasformazione con una sua specifica destinazione e un suo stretto collegamento per un’iniziativa storico-culturale di rilevante importanza” ovvero “ogniqualvolta le circostanze del caso concreto, secondo la valutazione (tecnico) discrezionale del Ministero, adeguatamente motivata nel provvedimento di dichiarazione dell’interesse culturale sulla base di un’approfondita istruttoria, giustifichino l’imposizione di un siffatto vincolo di tutela al fine di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato[x].

Con un secondo quesito la sezione rimettente ha invece chiesto all’Adunanza Plenaria se, in presenza di beni culturali dichiarati ex art. 10 co, 3, lett. d) cit., “che rappresentino (altresì) una testimonianza di espressioni di identità culturale collettiva ex art. 7 bis”, il potere ministeriale di imporre un vincolo di destinazione d’uso possa essere motivato “a garanzia non solo della conservazione [materiale della res], ma pure della continua ricreazione, condivisione e trasmissione della manifestazione culturale immateriale di cui la cosa costituisce testimonianza[xi].

Sul primo quesito, l’Adunanza Plenaria ha risposto affermando che, contrariamente a quanto sostenuto nella pronuncia di primo grado, la disciplina positiva contenuta nel Codice dei beni culturali e del paesaggio “valorizza l’uso del bene culturale quale strumento per consentirne la conservazione materiale[xii], per cui deve ritenersi “non estranea al sistema dei vincoli per la tutela delle cose di interesse storico o artistico la previsione del potere amministrativo di disporre limiti alla loro destinazione, quando la misura imposta miri a salvaguardare l’integrità e la conservazione del bene (Cons. Stato, sez. VI, 18ottobre 1993, n. 741), senza che ciò si risolva nell’obbligo di gestire una determinata attività[xiii].

La Plenaria precisa però che, non trattandosi di una ipotesi tipicamente normata dalla legislazione di settore, è preciso onere dell’autorità procedente motivare adeguatamente le peculiarità del caso concreto all’esito di una adeguata istruttoria, senza che ciò possa mai risolversi né in una imposizione di un obbligo di prosecuzione di una attività economica, né in una “riserva di attività” in favore di un determinato soggetto. Solo in queste ipotesi si può quindi ammettere che il vincolo contenga tanto un divieto di usi diversi da quello attuale, a tutela del bene e delle sue qualità materiali e immateriali, quanto una conferma dell’uso attuale cui la cosa è stata storicamente destinata. Sotto questo profilo, inoltre nel caso di specie secondo l’Adunanza Plenaria anche la tipologia di vincolo diretto imposto dal Ministero della Cultura – un vincolo di tipo “testimoniale” o “relazionale” ai sensi dell’art. 10 co, 3, lett. d), del D.Lgs. n. 42/2004 – sarebbe funzionale proprio alla “conservazione sia della res che alla prosecuzione dell’attività ivi svolta (…) inscindibile e compenetrata negli elementi materiali considerati di interesse storico-culturale[xiv].

Anche al secondo quesito l’Adunanza Plenaria ha risposto positivamente, avvalorando la posizione della sezione rimettente e richiamando la ratio dell’art.7-bis che, come detto sopra, “ha inteso valorizzare le espressioni culturali condivise, riprodotte e trasmesse dalle collettività di riferimento, per propria natura aventi valore immateriale” a condizione che delle stesse “sussista una testimonianza materiale e vi siano i presupposti di cui all’art. 10 D. Lgs. n. 42/04[xv]. Pertanto, laddove il bene presenti i caratteri di un bene tutelabile ai sensi del citato art. 10 e rivesta, al contempo, “una particolare rilevanza per il suo collegamento qualificato con una manifestazione culturale immateriale, della cui esistenza la stessa res costituisce prova, consentendo di ricostruirne contenuto e caratteristiche identitarie” ai sensi dell’art. 7-bis cit., nulla osta a un rafforzamento degli ordinari strumenti di tutela, anche mediante l’imposizione di un vincolo di destinazione d’uso, esercitabile “dal Ministero della Cultura, attraverso i moduli procedimentali ordinari, propri della tutela dei beni culturali ex artt. 13 e ss. D. Lgs. n. 42/04[xvi].

Un approccio, quest’ultimo, che l’Adunanza Plenaria interpreta come conforme al dato normativo, richiamando i principi affermati dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 118/1990, per cui “il collegamento di un bene con il suo uso pregresso può imprimere e dare al medesimo il valore culturale che gli si riconosce, nella misura in cui detta utilizzazione, che non assume rilievo autonomo, separato e distinto dal bene, si compenetri nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale, dovendo essere insieme a questa protetta[xvii].

Da ciò deriva che ben possono essere tutelati, mediante un vincolo di destinazione d’uso, anche i beni che sono espressione di una identità collettiva, ogniqualvolta non sia possibile distinguere la dimensione materiale da quella immateriale, di tal ché questi due elementi “vengono così a coesistere in un tutt’uno inscindibile, in cui spazio e tempo attribuiscono nel loro insieme alla res il valore culturale meritevole di tutela[xviii].

Prosegue inoltre l’Adunanza Plenaria “Il bene culturale è percepito come tale dalla comunità attraverso quel determinato uso, ma al contempo lo trascende, diventando non solo “patrimonio culturale”, in un’ottica soltanto “conservativa” per la sua preservazione, ma anche una “eredità culturale” da trasmettere alle future generazioni[xix]. Vale a dire che il bene culturale diventa “cultural heritage”, come definito nella Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società[xx], ai sensi della quale il “patrimonio culturale” (o “eredità culturale”, come tradotto nella versione in lingua italiana), è “l’insieme delle risorse ereditate dal passato, riflesso di valori e delle credenze, delle conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione, rilevanti per una comunità di persone, rimarcando il valore e il potenziale del patrimonio culturale come risorsa per lo sviluppo sostenibile e per la qualità della vita e individuando il «diritto al patrimonio culturale»”.

Il quid pluris introdotto dall’art. 7 bis sta dunque nel consentire, riguardo alla cosa materiale, non solo la conservazione del valore culturale in essa incorporato e derivante già dalla sua qualificazione come bene culturale ai sensi dell’art. 10 D. Lgs. n. 42/04, ma anche la continuità dell’espressione culturale di cui la cosa costituisce testimonianza[xxi].

E prosegue: “Pertanto, in materia di protezione dei beni culturali ‘la tutela delle cose ‘non può essere contrapposta alla ‘tutela delle attività’, laddove la cosa materiale vada salvaguardata e protetta non solo per la sua intrinseca consistenza (ovvero: per il suo valore strutturale ed estetico), ma anche per la sua connessione funzionale con una attività, un costume o una tradizione che le attribuiscono quella peculiare rilevanza artistica, storica e culturale[xxii].

In conclusione l’Adunanza Plenaria, nel restituire alla Sezione remittente la decisione del giudizio di merito[xxiii], ha affermato che : il “vincolo di destinazione d’uso di un bene culturale” può essere imposto “quando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici, sulla base di una adeguata motivazione da cui risulti l’esigenza di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato”, nonché “a tutela di beni che sono espressione di identità culturale collettiva, non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale, ma anche per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza.

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RGA Online_Luglio 2023_ Cons. St AP 5_2023

Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Giustizia Amministrativa) cliccare sul pdf allegato.

Consiglio di Stato AP_5_2023

NOTE:

[i] Decreto ministeriale n. 50 del 13 luglio 2018.

[ii] Decreto ministeriale de 22 agosto 2006, di dichiarazione dell’interesse storico-artistico del “Palazzo dell’Istituto Nazionale di Previdenza sociale” di Piazza Augusto Imperatore in Roma, ai sensi dell’art. 10, co. 1 del D.Lgs. n. 42/2004.

[iii] Decreto ministeriale n. 50 del 13 luglio 2018.

[iv] Ad esempio, con riferimento agli studi d’artista, artt. 11, co. 1, lett. b) e 51 del D.Lgs. n. 42/2004.

[v] A seguito dell’intervenuta dichiarazione di interesse culturale ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. n. 42/2004..

[vi] Per un approfondimento si veda De Cesaris A. L., Gregori Ferri E., I Beni Culturali Immateriali, in: Bracchitta L., Monti S. (eds.), La gestione amministrativa dei beni culturali. Visioni, regole, proposte, Maggioli Editore, 2019.

[vii] Vd nota iv.

[viii] Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 16 settembre 1998, n.1266; sez. VI, 12 luglio 2011, n. 4198; sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1003; sez. IV,29 dicembre 2017, n. 6166; sez. V, 25 marzo 2019, n. 1933 (paragrafo 2.1 della sentenza in commento).

[ix] Paragrafo 2.2. della pronuncia in commento. Si vedano inoltre: Consiglio di Stato, sez. VI, 28 agosto 2006, n.5004; sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2009; sez. IV, 12 giugno 2013, n. 3255.

[x] Vd paragrafo 1.1. della pronuncia in commento.

[xi] Vd paragrafo 1.1. della pronuncia in commento.

[xii] Vd paragrafo 3.1. della pronuncia in commento.

[xiii] Vd paragrafo 3.6. della pronuncia in commento.

[xiv] Vd paragrafo 3.8. della pronuncia in commento.

[xv] Vd paragrafo 4.3. della pronuncia in commento.

[xvi] Vd paragrafo 4.8. della pronuncia in commento.

[xvii] Ibidem.

[xviii] Vd paragrafo 5.3. della pronuncia in commento.

[xix] Ibidem.

[xx] Firmata a Faro il 27 ottobre 2005 e ratificata dall’Italia con legge 1° ottobre 2020, n. 133, http://musei.beniculturali.it/wp-content/uploads/2016/01/Convenzione-di-Faro.pdf.

[xxi] Vd paragrafo 5.4. della pronuncia in commento.

[xxii] Vd paragrafo 5.5. della pronuncia in commento.

[xxiii] Ai sensi dell’art. 99, comma 4 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.

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