Consiglio di Stato, sez. IV – 17 marzo 2025, n. 2186
Sono condivisibili e attuali i principi sanciti dall’Adunanza Plenaria n.19/2019 in ordine all’applicabilità degli obblighi di bonifica anche alle condotte di contaminazione realizzate prima dell’entrata in vigore della normativa (d.lgs 22/1997 e d.lgs 152/2006) e quindi la conformità della normativa in materia di bonifiche sia con i principi sanciti dalla CEDU (art.7, par.1 sull’irretroattività, art. 1.del Prot. 1 tutela dell’affidamento) sia con i principi costituzionali.
La bonifica è volta a recuperare l’area alla sua destinazione legale al tempo in cui la bonifica è autorizzata e non a quello che aveva al tempo dell’inquinamento in modo da salvaguardare la condizione dinamica del territorio.
Ai fini della determinazione della soglia di contaminazione, in presenza di una pluralità di metodiche di misurazione, è rimessa alla discrezionalità tecnica dell’operatore la scelta di quella da adottare, salvo verifica dell’incongruità scientifica o tecnica della medesima.
In assenza di una metodologia predeterminata, l’applicazione del c.d. valore di incertezza nelle misurazioni ambientali utilizzata d Arpat non +e manifestamente arbitraria o irragionevole in quanto conforme al principio di precauzione.
Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato riforma la sentenza di primo grado del Tar Toscana, respingendo i motivi di appello della originaria ricorrente ma accogliendo invece alcuni motivi dell’appello incidentale proposto dalla Regione Toscana.
Tutti i motivi di appello della Società ricorrente inerenti all’individuazione della sua responsabilità nella contaminazione e il suo conseguente obbligo alla bonifica sono stati dichiarati infondati sulla base delle ormai granitiche posizioni della giurisprudenza amministrativa, ribadite dalla sentenza punto per punto, affermando in particolare che:
- ai fini della ricostruzione delle attività, del nesso causale e quindi dell’individuazione delle responsabilità il riferimento non può che essere la dettagliata istruttoria effettuata dagli enti competenti, applicando il principio del più “probabile che non”;
- il privato per dimostrare la propria estraneità ai fenomeni di inquinamento non può limitarsi ad affermare la possibilità di altri contributi alla contaminazione da parte di altri soggetti, ma ha l’onere di confutare in modo dettagliato e approfondito quanto rilevato dall’ente di controllo, prospettando una “ragionevole ipotesi eziologica alternativa” e/o un’ipotesi dotata di una consistenza probabilistica maggiore “di quella in base alla quale è stata identificata la sua responsabilità;
- l’adesione ai principi espressi dall’Adunanza Plenaria n.19/2019 in ordine all’applicabilità degli obblighi di bonifica anche alle condotte di contaminazione realizzate prima dell’entrata in vigore della normativa (d.lgs 22/1997 e d.lgs 152/2006) e quindi la conformità della normativa sia con i principi sanciti dalla CEDU (art.7, par.1 sull’irretroattività, art. 1.del Prot. 1 tutela dell’affidamento) sia con i principi costituzionali. Ciò considerato che l’obbligo di bonifica non afferisce al momento in cui la contaminazione è stata avviata, ma al suo perdurare allo stato attuale.
- La disciplina non si pone in contrasto neppure con la disciplina comunitaria poiché “il principio chi inquina paga, come costantemente interpretato dalla Corte di Giustizia, non osta anche alle c.d. contaminazioni storiche” ne divieti specifici si rinvengono in direttive comunitarie.
Il Collegio, come detto in apertura, ha invece accolto alcuni motivi dell’appello incidentale proposto dalla Regione Toscana.
La Regione aveva innanzitutto impugnato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva accolto il ricorso con riferimento ad una contestazione inerente alla destinazione d’uso da prendere in considerazione al fine di valutare il superamento delle CSC e quindi di verificare la sussistenza dell’inquinamento. La questione si poneva in quanto la pianificazione urbanistica aveva modificato nel tempo gli assetti precedenti, mutando la destinazione produttiva dell’area a destinazione a verde pubblico e residenziale.
Secondo il Tar, infatti, accogliendo la tesi dell’allora ricorrente, il riferimento per la valutazione della contaminazione avrebbe dovuto essere la funzione che l’area aveva al momento in cui sono state svolte le attività da cui è derivato l’inquinamento. Una tesi non condivisa però dal Consiglio di Stato, per il quale la bonifica deve ritenersi volta “a recuperare l’area alla sua destinazione legale al tempo in cui la bonifica viene autorizzata e non a quello che aveva al tempo dell’inquinamento. Un simile approccio salvaguardia la condizione dinamica del territorio ed è diretta conseguenza della natura permanente dell’illecito ambientale”. Solo in questo modo, secondo il Collegio, si rispetta l’obiettivo della normativa volto a garantire che il sito contaminato, una volta bonificato, venga effettivamente restituito alla fruizione della collettività. Obiettivo che ricaviamo anche dalla lettura dell’art. 240 del d.lgs 152/2006 che nel definire gli interventi di ripristino ambientale, conclude nell’indicare in termini generali gli interventi che “consentono di recuperare il sito alla effettiva e definitiva fruibilità per la destinazione d’uso conforme agli strumenti urbanistici”.
La sentenza ha poi accolto anche un’ulteriore censura prospettata nell’appello incidentale della Regione. Una censura di profilo tecnico/operativo, relativa all’applicazione della c.d. regola dell’incertezza nella determinazione della soglia di applicazione dei valori di riferimento. Anche in questo caso Il Tar aveva accolto la censura del ricorrente, reputando illegittima la metodologia applicata da ARPAT. Di contrario avviso il Giudice amministrativo d’appello secondo il quale “in assenza di una metodologia predeterminata, quella adottata da Arpat che prevede l’applicazione del c.d. valore di incertezza nelle misurazioni ambientali – per cui il risultato del valore R è non conforme quando risulta maggiore del valore soglia VL con una probabilità maggiore del 95% – non appare manifestamente arbitraria o irragionevole in quanto conforme al principio di precauzione, sia alle linee guida dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale n. 52/2009, sia le direttive europee che prevedono la valutazione dell’incertezza di misura per i metodi di prova relativi a parametri in matrici alimentari e ambientali”. Sul punto è sicuramente comprensibile il tentativo del Collegio di dare un fondamento regolatorio solido ad una scelta effettuata dall’ente di verifica ai fini della misurazione della contaminazione; tuttavia, si tratta di un aspetto che mostra non poche criticità, che partono proprio dall’affermazione relativa all’assenza di una metodologia predeterminata, in altre parole in assenza di una metodologia regolamentata in modo espresso e valida per tutti. Quetta assenza di regole predeterminate rischia infatti di ampliare eccessivamente la discrezionalità tecnica degli enti di controllo nell’attività di valutazione dei dati, riducendo se non annullando la possibilità di contestazione delle stesse. Ma soprattutto crea disparità di trattamento, laddove ogni ente di controllo, se supportato da documenti tecnico scientifici anche derivati da normative di altri settori, può liberamente applicare la metodica che reputa più idonea, ancorché diversa da quanto applicato in altri casi e in altri territori. Tutto ciò crea una situazione di grave incertezza in capo agli operatori che, seppur liberi di scegliere, come peraltro afferma lo stesso Consiglio di Sato, la metodica analitica che reputano più adatta, si trovano a non avere certezze in merito alle valutazioni da parte degli enti che possono mutare di caso in caso.
Bisognerebbe però dedicare maggiore attenzione alla disciplina degli aspetti tecnici in settori così importanti come quello delle bonifiche, predisponendo regolamenti generali in grado di predefinire anche le metodiche valutative, al fine di ridurre quanto più possibile scelte discrezionali, diversità di trattamento e comunque predeterminando specifiche ragioni applicative che consentano anche ai privati al momento delle scelte di misurarsi con l’applicazione delle stesse.
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