di Roberto Losengo
Corte di Cassazione, Sez. III – 25 novembre 2021 (dep. 14 gennaio 2022), n. 1349 – Pres. Petruzzellis, Est. Ramacci – ric. V.
L’individuazione del luogo di consumazione del reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti deve essere effettuata sulla base del disposto degli artt. 8 e 9, comma 1 c.p.p. o delle regole determinate dalla connessione di cui all’art. 16 c.p.p., potendosi far ricorso ai criteri sussidiari dell’art. 9, commi 2 e 3 c.p.p solo in via residuale, allorché non possano trovare applicazione quei parametri oggettivi che, garantendo il collegamento tra competenza territoriale e luogo di manifestazione di almeno uno degli episodi che costituiscono la vicenda criminosa, meglio assicurano il principio costituzionale della ‘naturalità’ del giudice.
Il delitto di cui all’art. 452 quaterdecies c.p., in quanto abituale, si concretizza in una pluralità di operazioni di traffico illecito di rifiuti ed il luogo di consumazione è quello in cui si manifesta la reiterazione delle condotte illecite, quale elemento costitutivo del reato, non essendo apprezzabili attività di predisposizione documentale che integrino solo una frazione della condotta.
- Il quadro giurisprudenziale in materia di competenza territoriale del reato ex art. 452 quaterdecies c.p.
La sentenza della Corte di Cassazione, ribadendo un principio ormai consolidato in ordine alla competenza territoriale del reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, consente di tornare sulla tematica già affrontata (e su alcuni dubbi sollevati) su questa Rivista nel numero 22/2021, a commento della sentenza, sempre della Terza Sezione, del – 14 gennaio 2021 (dep. 16 aprile 2021), n. 14248[i].
In tale pronuncia, la Corte di legittimità, richiamata la non controversa natura abituale del delitto, delineava la differenza tra la consumazione “finale” del reato (o, per meglio dire, l’esaurimento della consumazione delle condotte unitariamente considerate) e la consumazione “iniziale” che determina il perfezionamento dello stesso, da individuarsi nel luogo in cui si manifesta la reiterazione delle condotte illecite.
Specificava in tal senso la sentenza che proprio in quanto “i fatti debbono essere molteplici e la reiterazione presuppone un arco di tempo che può essere più o meno lungo, ma comunque apprezzabile, la consumazione del reato abituale si ha con l’ultimo atto di questa serie di fatti, mentre il reato stesso si perfeziona nel momento e nel luogo in cui le condotte poste in essere diventano complessivamente riconoscibili, e ciò avviene quando l’agente realizza un minimo di condotte tipizzate nella norma incriminatrice e, nella specie, dirette alla gestione abusiva di ingenti quantitativi di rifiuti, collegate tra loro da un nesso di abitualità”.
Il principio espresso dalla Suprema Corte poteva in effetti dar luogo a controverse interpretazioni in tema di competenza territoriale: ben diverso, infatti, tenere in considerazione, per la determinazione della competenza, il luogo in cui viene realizzata l’ultima condotta tra quelle abituali o riferirsi al contesto territoriale in cui si manifesta la reiterazione della condotta stessa (cioè quel “minimo di condotte tipizzate” indicate dalla decisione).
Sul punto, la giurisprudenza, pur riportando usualmente il riferimento a massime incentrate su entrambi i “poli” della questione, presenta anche in relazione all’applicazione di fatto di tali principi posizioni non univoche, in quanto talvolta la competenza si correla a condotte di reiterazione dell’illecito correlate alla produzione del rifiuto, mentre in altre occasioni è valorizzata la fase di consumazione finale, correlata al luogo di smaltimento[ii].
Condivisibile, in proposito, l’osservazione formulata in una esaustiva pubblicazione sul reato in esame[iii], laddove si prospetta un possibile “baco” dell’orientamento basato sul luogo di smaltimento rilevando che nei casi, piuttosto frequenti nella pratica, in cui il rifiuto sia stato trattato in modo illecito attribuendo un codice di classificazione non conforme e poi avviato a diverse destinazioni in Italia o all’estero, risulta oggettivamente più adeguato individuare il luogo di consumazione nella sede del sito di trattamento, anziché in quella (invero casuale) della destinazione finale.
Va detto, tuttavia, che il medesimo “baco” si manifesta anche nell’orientamento che valorizza la reiterazione della condotta illecita, in quanto l’individuazione del luogo in cui si manifesta il suddetto “minimo di condotte tipizzate” risente significativamente dell’interpretazione che l’Autorità procedente delinea caso per caso, con criteri tutt’altro che uniformi.
Uno spunto in tal senso si rinviene anche in una recente pubblicazione dell’Estensore della sentenza ora in commento[iv], che ripercorre nel dettaglio la questione, con un puntuale richiamo della giurisprudenza, riportando il principio dell’esaurimento della consumazione con l’ultima condotta abituale ed evidenziando come il luogo di consumazione (su cui si fonda la competenza territoriale) sia individuato in quello in cui avviene la reiterazione della condotta illecita.
Nel ribadire tali principi, l’Autore pone in evidenza una sentenza (Corte Cass. pen., Sez. III, 20 ottobre 2016, dep. 8 febbraio 2017 n. 5742) in cui la consumazione è stata individuata nel luogo in cui avveniva il trattamento del rifiuto, e non in quello della discarica in cui esso era conferito con attribuzione fittizia del codice di classificazione, dando atto che nella stessa sentenza la Corte aveva osservato che altri precedenti (citati dai ricorrenti di tale vicenda processuale), in assenza di una previa illecita gestione del rifiuto, avevano invece valorizzato la fase dello smaltimento finale dello stesso.
Rimane dunque piuttosto evidente che, pur in un quadro giurisprudenziale tendenzialmente consolidato, i criteri di effettiva individuazione della competenza territoriale siano variabili, a seconda che nei vari casi di specie si intendano valorizzare gli aspetti ideativi ed organizzativi, oppure quelli relativi alla gestione ed al trattamento del rifiuto, oppure ancora quelli dello smaltimento.
Del resto, la pluralità di condotte richiamate dall’art. 452 quaterdecies c.p. (“cede, riceve, trasporta, esporta, importa o comunque gestisce abusivamente”) consente in astratto di collocare il luogo in cui si manifesta il “minimo” di tali condotte tipizzate con larga discrezionalità e, conseguentemente, permangono altrettanto ampi margini di dubbio sull’idoneità dei principi espressi in via generale a determinare con certezza il giudice naturale nei diversi casi specifici, come si vedrà anche dalla disamina della sentenza in esame.
- La vicenda processuale e la decisione della Cassazione.
Il caso trattato dalla sentenza ora commentata concerne un ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame di Torino, che aveva rigettato il gravame avverso l’applicazione della misura custodiale per i delitti di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, associazione a delinquere e dichiarazione fraudolenta con utilizzo di fatture per operazioni inesistenti.
Peculiare il fatto che il ricorrente, nel proprio motivo di impugnazione in materia di competenza, abbia mostrato di aderire, richiamandolo, al principio giurisprudenziale che focalizza il luogo di consumazione del reato in quello di reiterazione della condotta illecita; principio fatto proprio anche dalla decisione della Corte che ha, tuttavia, rigettato il ricorso.
Il ricorrente, infatti, prospettava che il luogo di reiterazione dovesse essere individuato nel circondario di Napoli, in quanto le attività di commercializzazione di rottami (che, per quanto si intende, costituiscono l’oggetto della contestazione) sarebbero state organizzate a Casoria, località in cui sarebbero stati predisposti gli ordini di acquisto dei materiali e programmate le consegne in diverse aree del territorio nazionale, che avrebbero costituito, nell’ottica del gravame, solo la parte conclusiva dell’operazione.
La sentenza di legittimità, preliminarmente, ha richiamato il consolidato principio in base al quale, in termini generali, l’individuazione del luogo di consumazione del reato deve essere effettuata sulla base del disposto degli artt. 8 e 9, comma 1 c.p.p. o quelle determinate dalla connessione di cui all’art. 16 c.p.p., potendosi far ricorso ai criteri sussidiari dell’art. 9, commi 2 e 3 c.p.p “solo in via residuale, allorché non possano trovare applicazione quei parametri oggettivi che, garantendo il collegamento tra competenza territoriale e luogo di manifestazione di almeno uno degli episodi che costituiscono la vicenda criminosa, meglio assicurano il principio costituzionale della ‘naturalità’ del giudice”.
Ancora, la pronuncia premette necessariamente che la vicenda pende in fase di indagini, dunque il luogo di commissione del reato potrebbe non essere ancora compiutamente circoscritto ed è comunque “correlato alla sostanziale ‘fluidità’ del procedimento”.
Orbene, in tale contesto “fluido”, la decisione (richiamando la ricostruzione del Tribunale del riesame) evidenzia che:
- le attività di traffico illecito di rifiuti, oltre ad essersi manifestate per la prima volta in territorio novarese, si erano principalmente svolte in Piemonte, attraverso la reiterazione di numerosi trasporti e conferimenti di rottame illecitamente smaltito;
- tra gli acquirenti figuravano principalmente ditte piemontesi e lombarde e solo in minima parte aziende campane o di altre regioni;
- la sede legale della società che utilizzata le fatture illecite era in provincia di Torino e che nella stessa località del circondario sabaudo aveva luogo un magazzino della società di commercializzazione dei metalli (che, come esposto nel ricorso, aveva sede amministrativa a Casoria);
- il gruppo criminale (o preteso tale), pur compiendo le attività documentali presso la sede campana, movimentava i rifiuti principalmente attraverso l’attività di un terzo soggetto, che trattava di persona con clienti e fornitori soprattutto in Brianza e in Piemonte Orientale (dunque non in provincia di Torino);
- la predisposizione dei documenti falsi, che si assume realizzata a Casoria, costituiva solo una frazione della condotta, non idonea a fondare la competenza territoriale.
Di per sé, la decisione (stando a quando indicato nella motivazione, e senza voler ovviamente entrare nel merito di un procedimento ancora pendente) appare in prima analisi avere adeguatamente “scartato”, tra le varie opzioni, quella della competenza napoletana; se infatti, come indicato in sentenza, a Casoria aveva luogo esclusivamente un’attività fiscale, essa non pare rientrare tra le condotte tipizzate di gestione dei rifiuti.
Dalle premesse, tuttavia, sembrerebbe che il ricorrente avesse voluto individuare la sede di Casoria anche come luogo in cui avveniva la produzione del rifiuto e la programmazione delle spedizioni, ditalchè tale dato di fatto avrebbe anche potuto consentire (sulla scorta dell’orientamento che valorizza maggiormente le fasi di produzione o trattamento del rifiuto, invece di quella di smaltimento) l’individuazione della competenza nel circondario campano.
Ma anche stando alla ricostruzione del Collegio di riesame, l’individuazione nel caso di specie del giudice naturale appare, più che fluida, pressoché legata a fattori casuali.
Si indica infatti, seguendo evidentemente l’orientamento che valorizza la reiterazione delle condotte abituali o della manifestazione della “minimo di condotte tipizzate”, che essa avrebbe avuto luogo nel circondario di Novara.
Il che, ovviamente, giustifica – in sede di indagini – la competenza distrettuale della Procura del capoluogo torinese, ma lascia ampi dubbi sul fatto che sia effettivamente il Tribunale di Novara (nell’ipotesi di uno sviluppo dibattimentale) il giudice naturale per la complessa vicenda.
Pare infatti di comprendere che Novara fosse solo uno dei luoghi di destinazione del rottame commercializzato, che tuttavia veniva previamente immagazzinato in provincia di Torino (e dunque la competenza per la fase processuale sarebbe del Tribunale del capoluogo) e conferito però anche in Brianza (dunque il tutto si sposterebbe a Monza) e, sia pure meno frequentemente, anche in Campania o in altre regioni.
Ecco dunque che, ad una semplice disamina della ricostruzione fattuale riportata dalla sentenza (e, si ribadisce, senza minimamente voler entrare nel merito della questione concreta), che il già paventato “baco” in materia di competenza territoriale si appalesa in piena concretezza.
Se, infatti, il luogo di “manifestazione minima” del reato si ricollega all’ambito territoriale, assolutamente variabile, in cui può aver luogo, tra le molte tipizzate, la condotta di avvio allo smaltimento di un rifiuto, l’individuazione del giudice naturale si traduce in un esercizio di pura casualità.
Ad esempio, per stare nel caso di specie, se i rifiuti prodotti in provincia di Napoli e commercializzati / smaltiti principalmente in provincia di Torino fossero stati, solo per i primi due trasporti, conferiti ad un impianto calabrese, o marchigiano, o friulano, ciò avrebbe in ipotesi (ed aderendo strettamente all’orientamento della reiterazione della condotta abituale) determinato la possibile competenza delle Procure distrettuali di Reggio Calabria, Ancona o Trieste e lo sviluppo della fase processuale in uno dei Tribunali di circondario di tali regioni, che pure – con buona evidenza – difficilmente potrebbero considerarsi giudice naturale della complessiva condotta.
Appare allora necessario, al fine di evitare forzature interpretative (e dando atto del difficile compito della magistratura chiamata a risolvere situazioni particolarmente complesse), individuare dei criteri di maggiore certezza e che effettivamente possano dare applicazione al principio costituzionale di naturalità del giudice.
In tale ottica, il distinguo operato, sia pur sinteticamente, dalla citata sentenza n. 5742/2017 sembra poter dare quantomeno un indice di lettura concreto: nel caso in cui l’illecita gestione si sia manifestata sin dal luogo di produzione del rifiuto (ad esempio attraverso un trattamento non consentito, o una non corretta classificazione), il luogo di prima manifestazione potrà adeguatamente correlarsi alla sede di “genesi” del rifiuto; solamente nel caso (a questo punto da considerarsi residuale) in cui l’attività di produzione o trattamento del rifiuto sia lecita, ed il profilo di violazione normativa sia esclusivamente da identificarsi nel luogo di destinazione, ciò potrà consentire di valorizzare tale successiva fase della condotta.
Si tratta, a modesto avviso di chi scrive, di un approccio (pur non esente dalla variabilità de caso concreto) che pare peraltro maggiormente attinente all’assetto organizzativo tipico del reato, pur declinato in chiave monosoggettiva, che non può condurre a trascurare la fase ideativa dell’illecito, quando essa abbia avuto, nel luogo dell’ideazione ed organizzazione, quella pur minima manifestazione esterna richiesta dalla giurisprudenza.
Per visualizzare la sentenza, si veda il documento pdf allegato.
Cass. III, 1349_2022 (losengo)
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losengo – traffico illecito di rifiuti – cass. III 1349.2022
Note
[i] Sia consentito rimandare alla disamina del quadro giurisprudenziale ivi esposta nel contributo “Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti: il labile confine (anche territoriale) tra perfezionamento e consumazione del reato abituale”.
[ii] Ad esempio, Corte Cass. pen., Sez. III, 28 dicembre 2018, n. 54484, che ha disatteso le prospettazioni delle difese volte ad individuare quale luogo di radicamento della competenza quello ove era ubicato il cantiere di destinazione, individuando invece la competenza nel luogo ove aveva sede l’impianto di trattamento dei rifiuti in contestazione;
Si veda, in senso conforme, anche la sentenza successivamente citata (Corte Cass. pen., Sez. III, 20 ottobre 2016, n. 5472).
In senso opposto, Corte Cass. pen., Sez. III, 3 dicembre 2009, n. 46705, aveva ricondotto la competenza al luogo di smaltimento per “interramento”, e – più recentemente – Corte Cass. pen., Sez. III, 12 aprile 2019, n. 16123, che ha individuato la competenza in base al sito di destinazione del rifiuto ove avveniva l’indebita miscelazione in violazione della disciplina sul recupero.
[iii] A. Galanti, Traffico illecito di rifiuti: il punto sulla giurisprudenza di legittimità, in Diritto Penale Contemporaneo, 12/2018, dove si osserva: “Ancorare sempre la competenza territoriale al ‘destino finale’ dei rifiuti potrebbe comportare conseguenze aberranti; basti pensare all’ipotesi, non infrequente, in cui ad un trattamento di rifiuti svolto in modo illecito all’interno di uno stabilimento, attraverso operazioni non consentite o tramite il ricorso al c.d. ‘giro bolla’ per declassificare i rifiuti, corrisponda il conferimento ad impianti di recupero o smaltimento operanti in core diverse parti del territorio nazionale o addirittura all’Estero. In tutti questi casi non vi è dubbio che il ‘core’ dell’operazione criminale risieda nel luogo dove i rifiuti sono stati trattati/classificati, e non in quelli della destinazione finale”.
[iv] L. Ramacci, Questioni processuali relative al delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, in Lexambiente – Rivista trimestrale di Diritto penale dell’ambiente, 4/2021.