Campionamento di rifiuti: il delicato tema della garanzie tra definizioni “fluide”

04 Set 2023 | giurisprudenza, penale

di Elisa Marini

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 17 maggio 2023 (dep. 22 giugno 2023), n. 27148 – Pres. Ramacci, Est. Galanti – ric. A.A., B.B., “(Omissis) di A.A. snc”

Nella fase delle indagini preliminari, l’attività di campionamento dei rifiuti non ha, di norma, natura di accertamento tecnico, ma di rilievo, salvi i casi in cui la refertazione dei campioni richieda specifiche competenze o l’utilizzo di tecniche particolari di prelievo, nei quali è riconosciuto all’indagato il diritto al previo avviso del compimento delle operazioni.

  1. Premessa

La sentenza in commento – molto articolata e complessa – affronta una serie di questioni di primario interesse sotto il profilo penale-ambientale.

I motivi oggetto dei ricorsi proposti dai due imputati e dalla società coinvolta ai sensi dell’art. 25 undecies D.Lgs. n. 231/2001 hanno, difatti, sollecitato la Corte di Cassazione a pronunciarsi in ordine ad una pluralità di tematiche piuttosto eterogenee.

Limitandosi a quelle da cui sono scaturite statuizioni che assumono una portata generale, e tentando di riassumerle, esse concernono: a) l’inquadramento normativo dell’attività di campionamento di rifiuti nella fase delle indagini preliminari; b) la possibilità di attribuire a determinati materiali la qualifica di “end of waste[1]; c) i poteri del giudice penale a fronte di un provvedimento amministrativo di autorizzazione alla gestione dei rifiuti non conforme alla normativa[2]; d) la configurabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 452 novies c.p.[3]; e) l’efficacia scriminante del modello organizzativo aziendale nei procedimenti per reati ambientali[4]; f) la quantificazione del profitto confiscabile in ipotesi di illeciti ambientali[5]; g) la legittimazione attiva all’azione di risarcimento del danno degli enti territoriali[6].

È evidente che ognuna richiederebbe un autonomo, ed ampio, spazio di trattazione.

Per tale ragione, pur dando incidentalmente atto – per completezza espositiva – delle conclusioni raggiunte dalla Suprema Corte su ciascuna di esse, il presente contributo si concentrerà esclusivamente sulla prima, relativa alle attività di campionamento: un argomento forse meno “battuto” a livello giurisprudenziale, ma non per questo meno significativo, soprattutto per le implicazioni relative alle garanzie dell’indagato/imputato nella fase delle indagini preliminari, che nei procedimenti penali-ambientali assume, come noto, un’importanza fondamentale.

  1. La nozione di “campionamento” ed il relativo inquadramento giuridico: il labile confine tra “rilievo” e “accertamento tecnico”

Le doglianze da cui derivano le statuizioni in commento si riferiscono alla inosservanza, sostenuta da uno degli imputati, delle norme processuali previste a pena di nullità (e segnatamente degli artt. 178, lett. c) e 191 c.p.p.), rispetto all’accertamento tecnico non ripetibile disposto ai sensi dell’art. 360 c.p.p. ed esperito in assenza di avvisi sulla data ed il luogo delle operazioni, benché, all’epoca dei fatti, i ricorrenti fossero già stati attinti – secondo la prospettazione difensiva – da indizi di reità.

Da ciò sarebbe conseguita la nullità del successivo campionamento, nonché “a cascata”, sulla base dell’art. 220 delle disposizioni di attuazione del codice di rito, delle operazioni di apertura dei campioni, delle analisi e della relazione redatta dagli ausiliari di Polizia Giudiziaria nominati dal Pubblico Ministero.

La Corte, partendo proprio dal richiamo testuale del citato art. 220 disp. att. c.p.p.[7], ha respinto le suesposte doglianze, affermando che, nel caso di specie, l’attività d’indagine non consisteva in un vero e proprio “accertamento tecnico”, ma in un “rilievo”.

Le due nozioni – ed è questo il punto centrale della sentenza, rispetto alla questione in esame – andrebbero tenute distinte[8], in ragione delle diverse attività ad esse sottese: se con il termine “rilievi” si intende una “mera osservazione, individuazione ed acquisizione di dati materiali”, gli “accertamenti” implicano “un’opera di studio critico, di elaborazione valutativa, ovvero di giudizio di quegli stessi dati o di valutazioni critiche su basi tecnico-scientifiche[9].

La differenza si evincerebbe, tra l’altro, dal dato testuale delle norme procedurali di riferimento: la Cassazione ha sottolineato che “l’art. 359 c.p.p. (rubricato “Consulenti tecnici del pubblico ministero”) si riferisce ad entrambi i tipi di operazioni, laddove l’art. 360 si riferisce solo ai secondi, con conseguente esclusione, quanto ai “rilievi”, del diritto al previo avviso all’indagato, che può partecipare alle operazioni solo “ove presente” (arg. ex artt. 354 e 356 c.p.p., 114 disp. att. c.p.p.)”.

La sentenza ha successivamente precisato che la giurisprudenza – anche costituzionale (sul punto citando Corte Cost., n. 239/2017) – ha assimilato il concetto di “prelievo”, tipico del campionamento, a quello di “rilievo”, e che il fatto che in alcune disposizioni codicistiche (segnatamente, quelle di cui agli artt. 224 bis e 359 bis c.p.p.) siano previste particolari cautele in relazione ai “prelievi”, ma non anche ai “rilievi”,  è ricollegabile alla specificità di quei casi, e più precisamente alla circostanza che, in tema di investigazioni idonee ad incidere sulla libertà personale, l’attività presenta carattere invasivo solo nel caso del prelievo.

Pur sostenendo, dunque, la sostanziale equiparazione, in ambito ambientale, dei concetti di “prelievo” e “rilievo”, e la contestuale differenza con la nozione di “accertamento tecnico”, la Corte di Cassazione non ha mancato di rilevare come la già citata sentenza della Corte Costituzionale abbia sottolineato che anche operazioni di rilievo o prelievo, ed in generale di repertazione, possano richiedere, “in casi particolari, valutazioni e scelte circa il procedimento da adottare, oltre che non comuni competenze e abilità tecniche per eseguirlo, e in questo caso, ma solo in questo, può ritenersi che quell’atto di indagine costituisca a sua volta oggetto di un accertamento tecnico, prodromico rispetto all’atto da eseguire poi sul reperto prelevato”:  potendo verificarsi situazioni in cui, per la repertazione, siano richieste specifiche competenze tecniche, ovvero si debba ricorrere a tecniche particolari, nella sentenza si è precisato che anche l’attività di prelievo può divenire un’operazione tecnica non eseguibile senza il ricorso a competenze specialistiche, e dovrà dunque essere compiuta “nel rispetto dello statuto che il codice prevede per la acquisizione della prova scientifica[10].

Non a caso – ha evidenziato la Corte – “accorta dottrina parla, in proposito degli accertamenti tecnici, di categoria “liquida”, proprio a sottolinearne la natura “mobile” dei confini”: tale apprezzamento sarebbe, in concreto, rimesso al giudice del fatto, e dunque insindacabile in sede di legittimità, ove sorretto da adeguata motivazione.

In estrema sintesi, stando alla sentenza in commento, sarebbe evidente l’impossibilità di attribuire all’attività di campionamento dei rifiuti natura di accertamento tecnico ex se, essendo, al contrario, rimessa al giudice di merito la valutazione in ordine al “coefficiente” di competenza e difficoltà tecnica richiesto per l’effettuazione delle operazioni di prelievo, al fine di valutare la necessità di attivare la procedura garantita prevista dall’art. 360 c.p.p.

In assenza di situazioni peculiari – e dunque di norma, ad avviso della Corte – il campionamento di rifiuti andrebbe, al contrario, ricondotto “ontologicamente” alla categoria dei “rilievi”, e non a quella degli “accertamenti tecnici”: per tale ragione il ricorso dell’imputato è stato dichiarato inammissibile rispetto alle censure relative alla pretesa violazione del diritto all’avviso di cui all’art. 360 c.p.p., “indipendentemente dall’avvenuta iscrizione o meno dello stesso sul registro degli indagati e dalla dedotta natura irripetibile delle operazioni” (comunque esclusa nel merito, e ritenuta insindacabile in sede di legittimità), “nonché delle conseguenti lamentate nullità”.

  1. Considerazioni e conclusioni

Se, da un lato, le premesse “definitorie” sviluppate dalla pronuncia in esame possono ritenersi chiare e coerenti, oltre che saldamente ancorate al dato normativo ed ampiamente corroborate sotto il profilo giurisprudenziale, dall’altro, le conclusioni raggiunte in tema di campionamento di rifiuti non appaiono completamente convincenti, soprattutto sotto il profilo dei potenziali riflessi fattuali che potrebbero derivarne.

È senz’altro apprezzabile la circostanza che la Corte, pur potendo limitarsi a respingere le doglianze dei ricorrenti sulla base della affermata natura ripetibile delle operazioni contestate, abbia comunque voluto affrontare la tematica in termini più generali; tuttavia, se è corretto affermare che, astrattamente, sussistono tutti i presupposti per non inquadrare necessariamente l’attività in esame nell’ambito degli accertamenti tecnici, non può non evidenziarsi come la realtà dei fatti sia, a dispetto della rigidità delle definizioni teoriche, molto più fluida. Non a caso, nel menzionare la dottrina che si è espressa in merito alle attività di campionamento, la sentenza ha parlato di “categoria liquida” e di “natura “mobile” dei confini”.

Ed allora, se così è, e se è stata la stessa Corte a sottolineare che, in determinati casi, anche la scelta della metodica da seguire, comportando una valutazione tecnica, integra un accertamento, non si comprende la ragione per la quale l’attività di campionamento debba “ontologicamente” – per riprendere l’avverbio utilizzato in sentenza – inquadrarsi nell’ambito dei rilievi.

Desta perplessità, in particolare, la conseguenza pratica che deriva da tale statuizione: nel dubbio che un campionamento possa costituire un accertamento, e che lo stesso possa assumere carattere irripetibile (valutazione di merito demandata, dalla Corte, alla fase del giudizio), si rinuncia ad applicare le garanzie previste dal codice di rito in favore dell’indagato, nell’ambito di attività investigative che costituiscono, di fatto, una modalità atipica di assunzione della prova, e che sovente si rivelano decisive nel corso del dibattimento.

Del resto, il ruolo fondamentale del contraddittorio è stato affermato – per quanto incidentalmente e tra parentesi (nel senso letterale dell’espressione) – dalla stessa Cassazione: nel punto della sentenza in cui si parla della mancanza di una normativa generale vincolante in tema di metodiche[11], pur premettendo che, anche a livello europeo, la Corte di Giustizia UE (con sentenza 28 marzo 2019, cause riunite da C-487/17 a C-489/17, Verlezza) ha esclusivamente richiesto che le operazioni di campionamento offrano “garanzie di efficacia e di rappresentatività” e che i relativi metodi siano “riconosciuti a livello internazionale”, il Collegio ha evidenziato che la particolare delicatezza relativa alla scelta delle metodiche da adottare ed alla rappresentatività del campione rappresenti una “circostanza che rende consigliabile assicurare in ogni caso il contraddittorio”.

Ma vi è di più.

Anche rispetto a quelle attività che non presuppongono l’applicazione delle garanzie di cui all’art. 360 c.p.p., la Corte ha sostenuto che “particolare attenzione e cura dovranno essere rivolte alla verbalizzazione dell’attività (prevista dall’art. 357 c.p.p. solo per gli atti compiuti dalla polizia giudiziaria, ma da estendersi all’attività di indagine in generale, soprattutto ove non assistita dalla dialettica tra le parti), onde consentirne il controllo (e la contestazione) in contraddittorio nelle successive fasi processuali”.

La Corte di Cassazione ha, dunque, ritenuto opportuno non solo consigliare di assicurare il contraddittorio in tutti i casi in cui possa esservi incertezza sul perimetro normativo in cui si svolgono campionamenti di rifiuti, ma ha anche raccomandato particolare attenzione alla corretta verbalizzazione delle attività che non presuppongono le garanzie del contraddittorio, al fine di “preservare” il più possibile la dialettica processuale nelle fasi successive.

Se questo è il profilo senz’altro più apprezzabile del provvedimento in commento, essendo evidente l’intento di valorizzare la portata sostanziale di una questione solo apparentemente formale, rimane il punctum dolens relativo al rischio che, dalle considerazioni giuridiche contestualmente sviluppate, si arrivi al risultato opposto.

Un garantismo, dunque, sicuramente auspicato, ma di fatto, probabilmente, non favorito.

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RGA Online – Marini – contributo settembre 2023 (def.)

Per il testo della sentenza cliccare sul pdf allegato.

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NOTE:

[1] In tema di “end of waste”, la sentenza ha affermato che la possibilità di assegnare “caso per caso” a determinati materiali tale qualifica, indipendentemente dalla loro espressa inclusione in regolamenti eurounitari o in decreti ministeriali, sussiste solo per le autorizzazioni rilasciate ex art. 184 ter D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, a seguito dell’entrata in vigore della Legge 2 novembre 2019, n. 128, che ha previsto che le autorizzazioni per lo svolgimento di operazioni di recupero siano rilasciate o rinnovate direttamente dalle amministrazioni competenti, nel rispetto delle condizioni di cui all’art. 6, par. 1, della Direttiva 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, sulla base di criteri dettagliati, definiti nell’ambito dei medesimi procedimenti autorizzatori, e previo parere obbligatorio e vincolante dell’ISPRA o dell’ARPA territorialmente competenti.

La Corte ha, inoltre, speso ulteriori considerazioni sul tema, attualissimo, dell’onore della prova: in assoluta continuità con la giurisprudenza precedente (che nella sentenza in commento viene – correttamente – definita “univoca”), si è affermato che “l’onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge deve essere assolto da colui che ne richiede l’applicazione”, in conformità al principio di inversione dell’onus probandi riferito alla disciplina del deposito temporaneo, che sarebbe “applicabile in tutti i casi in cui venga invocata, in tema di rifiuti, l’applicazione di disposizioni di favore che derogano ai principi generali”.

Per approfondimenti giurisprudenziali e considerazioni critiche sulle richiamate conclusioni, che in definitiva non hanno mai consentito alla Suprema Corte di escludere la qualifica di rifiuto, si rimanda a R. Losengo, “End of waste e sottoprodotti nell’epoca dell’economia circolare”, in questa Rivista, n. 38/2023; R. Losengo, “Sottoprodotto ed End of Waste: requisiti e onere probatorio nella casistica giurisprudenziale”, in Lexambiente – Rivista trimestrale di diritto penale dell’ambiente, n. 1/2023; C. Testa, Rifiuti. Il sottoprodotto tra disciplina probatoria e l’esigenza di un cambio di prospettiva”, in Lexambiente.it, 4 luglio 2023; E. Fassi, Qualificazione come sottoprodotti e ripartizione dell’onere probatorio”, in questa Rivista, numero speciale aprile 2020.

[2] Sul punto, la Corte ha affermato che il giudice penale, in presenza di un provvedimento amministrativo di autorizzazione alla gestione dei rifiuti non conforme alla normativa che ne regola l’emanazione o alle disposizioni di settore, è tenuto a “valutare la sussistenza dell’elemento normativo della fattispecie, senza disapplicare l’atto amministrativo illegittimo o effettuare valutazioni rimesse alla pubblica amministrazione. Tale principio è stato “esportato” nell’ambito delle autorizzazioni ambientali, in rilievo nel caso di specie, dalla giurisprudenza formatasi nel settore urbanistico (contestualmente citate: Corte Cass. pen., Sez. III, 21 luglio 2017, n. 12389; Corte Cass. pen., Sez. III, 13 luglio 2017, n. 46477; Corte Cass. pen., Sez. III, 21 settembre 2018, n. 56678).

[3] L’accoglimento della doglianza relativa alla sostenuta configurabilità (nel giudizio di merito) della circostanza aggravante di cui all’art. 452 novies c.p. ha determinato il parziale annullamento della sentenza impugnata. Sul punto la Corte, ricordando che la norma in questione stabilisce che “se dalla commissione del fatto deriva la violazione di una o più norme previste dal citato D.Lgs. n. 152 del 2006 o da altra legge che tutela l’ambiente“; ha escluso che la stessa contenga un rinvio a sole norme penali, “dovendo invece ritenersi che essa rinvii anche, e soprattutto, a norme extrapenali, volte alla tutela dell’ambiente”. Con riguardo all’art. 29 quaterdecis T.U.A., in contestazione nel caso in esame, la sentenza ha spiegato che, in linea teorica, la norma potrebbe riguardare altre disposizioni, “quali quelle concernenti l’utilizzo delle migliori tecniche disponibili (29-septies), il riesame periodico (29-octies), la modifica degli impianti o del gestore (29-nonies), il rispetto delle condizioni e i controlli (29-decies), le comunicazioni dovute (29-undecies)”. Nel procedimento che ci occupa, era contestata in rubrica la violazione dell’art. 6, comma 13, T.U.A., che prevede il rilascio di AIA per le modifiche sostanziali. Sul punto, tuttavia, nell’affermare la sussistenza dell’aggravante, la motivazione è stata ritenuta totalmente assente, comportando, perciò, l’annullamento parziale della sentenza.

[4] Dopo aver richiamato la giurisprudenza che definisce le nozioni di interesse e vantaggio (in primis, su tutti, le Sezioni Unite “Thyssenkrupp”, n. 38343/2014), la Corte ha affermato – o meglio ribadito – in tema di “colpa da organizzazione”, che in materia di reati ambientali “il modello di organizzazione e gestione, per avere efficacia esimente, deve essere adottato in riferimento alla specifica struttura e tipo di attività dell’impresa, prevedendo in modo chiaro e preciso i compiti, le responsabilità individuali e gli strumenti in concreto volti a prevenire la commissione di reati contro l’ambiente; esso, inoltre, deve essere efficacemente attuato, mediante l’istituzione dell’organismo di vigilanza (salvi i casi di cui all’art. 6, commi 4 e 4-bis, D.Lgs. n. 231 del 2001) dotato di concreti poteri di controllo e la previsione di sistemi di revisione periodica, che garantiscano la “tenuta” del modello nel tempo”, evidenziando – sulla scorta della citata Corte Cass. pen., Sez. III, 9 agosto 2018, n. 38363 – che “l’autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella penale della persona fisica che ha commesso il reato-presupposto, prevista dall’art. 8, D.Lgs. n. 8 giugno 2001, n. 231, deve essere intesa nel senso che, per affermare la responsabilità dell’ente, non è necessario il definitivo e completo accertamento della responsabilità penale individuale, ma è sufficiente un mero accertamento incidentale, purchè risultino integrati i presupposti oggettivi e soggettivi di cui agli artt. 5, 6, 7 e 8 del medesimo decreto, tale autonomia operando anche nel campo processuale“.

[5] La doglianza relativa alla quantificazione del profitto confiscabile è stata l’unica ritenuta fondata, unitamente a quella sull’aggravante ambientale. Sul punto, la Corte ha stabilito che se la quantificazione in via equitativa costituisce una modalità corretta di quantificazione del danno, tale criterio non può trovare applicazione in materia di confisca del profitto del reato, che va invece quantificato in modo certo, sulla base delle indicazioni fornite dalla giurisprudenza formatasi in materia e al contempo richiamata. Il profitto “potrà ben consistere” – ha affermato la Corte – “in risparmi di spesa; essi, tuttavia dovranno essere quantificati in concreto dal Giudice procedendo, a mero titolo esemplificativo, ad una stima dei costi di smaltimento lecito dei rifiuti ammassati, ovvero del costo di una fidejussione relativa a tale operazione di gestione dei rifiuti”.

[6] Dopo aver premesso che, sulla base dell’art. 311 T.U.A., spetta soltanto allo Stato (e per esso al Ministro dell’Ambiente) la legittimazione alla costituzione di parte civile nei procedimenti per reati ambientali al fine di ottenere il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica (inteso come lesione dell’interesse pubblico e generale all’ambiente), la sentenza ha ribadito – in primis sulla scorta della sentenza della Corte Costituzionale n. 126/2016, oltre che di una serie di precedenti propri contestualmente richiamati – che  “Per gli “enti territoriali” la legittimazione è limitata alla richiesta di risarcimento “non del danno all’ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico, di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale (…) pur se derivante dalla stessa condotta lesiva”.

[7]Quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice”.

[8] Sul punto, la sentenza ha evidenziato che per quanto alcuni autori, in dottrina, abbiano parlato dei due concetti alla stregua di “endiadi”, tale interpretazione non sarebbe corretta, proprio sulla base delle norme codicistiche di riferimento, risultando inoltre smentita da alcuni precedenti della stessa Corte (ex plurimis Corte Cass. pen., Sez. VI, 6 febbraio 2013, n. 10350; Corte Cass. pen., Sez. II, 10 gennaio 2012, n. 2087; Corte Cass. pen. Sez. II, 10 luglio 2009, n. 34149), nonché, più recentemente, da una sentenza della Consulta (n. 239/2017), che hanno costantemente distinto i concetti di “rilievo” e “accertamento tecnico”.

[9] Quali precedenti conformi sono state richiamate: Corte Cass. pen., Sez. V, 29 settembre 2000, n. 11866; Corte Cass. pen., Sez. II, 8 febbraio 2016, n. 45751; Corte Cass. pen., Sez. I, 25 febbraio 2015, n. 18246; Corte Cass. pen., Sez. I, 10 ottobre 2013, n. 45283; Corte Cass. pen., Sez. II, 25 luglio 2014, n. 33076; Corte Cass. pen., Sez. I, 13 novembre 2007, n. 2443; Corte Cass. pen., Sez. II, 10 luglio 2009, n. 34149.

Tali sentenze hanno stabilito come la nozione di “accertamento tecnico” concerne non l’attività di raccolta o di prelievo dei dati pertinenti al reato, priva di alcun carattere di invasività e tipica del “rilievo”, ma si estenderebbe allo studio ed alla valutazione critica dei medesimi dati, secondo canoni tecnico-scientifici.

Sempre come pronunce conformi, ma con specifico riferimento ai prelievi di campioni di DNA, sono state inoltre richiamate Corte Cass. pen., Sez. I, 25 febbraio 2015, n. 18246 e Corte Cass. pen., Sez. I, 30 marzo 2022, n. 31880.

[10] Il richiamo testuale si riferisce a Corte Cass. pen., Sez. II, 27 novembre 2014, n. 2476.

[11] Sul carattere non vincolante delle metodiche di campionamento, la Corte ha richiamato una serie di sentenze, soprattutto in materia di scarichi. Si riporta, per eventuali approfondimenti, l’estratto contenente gli estremi e le massime: “in tema di inquinamento delle acque (Sez. 3, n. 32996 del 14/05/2003, Rv. 225547 – 01: “in tema di controllo dei reflui degli scarichi il metodo di campionamento è regolamentato da una metodica flessibile, in quanto accanto al criterio ordinario, riferito ad un campione medio prelevato nell’arco di tre ore, prevede la possibilità di criteri derogatori in relazione alle specifiche esigenze del caso concreto, quali quelle derivanti dalle prescrizioni contenute nell’autorizzazione allo scarico, dalle caratteristiche del ciclo tecnologico, dal tipo di scarico così come dal tipo di accertamento, la cui valutazione spetta all’autorità amministrativa di controllo nonchè, in sede processuale, al giudice penale”; Sez. 3, n. 36701 del 03/07/2019, Rv. 277158 – 01: ” In tema di inquinamento idrico, la norma sul metodo di prelievo per il campionamento dello scarico ha carattere procedimentale e non sostanziale e, dunque, non ha natura di norma integratrice della fattispecie penale, ma rappresenta il mero criterio tecnico ordinario per il prelevamento, ben potendo il giudice, tenuto conto delle circostanze concrete, motivatamente ritenere la rappresentatività di campioni raccolti secondo metodiche diverse”), nonchè di mangimi per animali (Sez. 3, n. 21652 del 02/04/2009, Rv. 243726 – 01: “Le norme relative al prelevamento e all’analisi di campioni di merci hanno carattere ordinatorio e non costituiscono condizioni per il regolare esercizio dell’azione penale, sicchè eventuali irregolarità in materia non determinano nullità, pur dovendo il giudice, che da tali analisi voglia trarre elementi di convincimento per la decisione, motivare adeguatamente in ordine all’attendibilità del risultato”)”.

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