Cala il sipario sul “Clean Power Plan” di Obama. Secondo la Corte Suprema degli Stati Uniti, le “Agencies” federali non hanno titolo per risolvere problemi di rilevante significato politico

03 Nov 2022 | giurisprudenza, altro

di Andrea Gallarini

Supreme Court of the United States – West Virginia et Al. V. Environmental Protection Agency et A. – Certiorari to the United States Court of Appeals for the District of Columbia Circuit. No. 20 – 1530, Argued February 28, 2022 – Decided June 30, 2022.

L’introduzione di un cap nelle emissioni di anidride carbonica ad un livello tale da rendere di fatto necessario l’abbandono – su scala nazionale – dell’utilizzo del carbone nella produzione di energia elettrica potrebbe essere una soluzione sensata alla crisi attuale. Tuttavia, non è plausibile che il Congresso abbia inteso riconoscere all’EPA il potere di adottare, in via autonoma, una tale regolamentazione sulla base del Clean Air Act. Una decisione di tali magnitudo e conseguenze non può che restare di competenza del Congresso o, al più, di una agenzia che agisca sulla base di uno specifico mandato del Congresso medesimo.

Con una articolata decisione a firma del Chief Justice Roberts – supportata da una concurring opinion del giudice Gorsuch (a sua volta condivisa dal giudice Alito) e in relazione alla quale il giudice Kagan ha invece formulato una dissenting opinion – la Corte Suprema degli Stati Uniti, all’esito di una complessa vicenda processuale, ha “annullato con rinvio” la decisione della Corte di Appello per il District of Columbia Circuit con la quale – da un lato – è stata annullata l’abrogazione, da parte dell’EPA, del Clean Power Plan e, dall’altro, è stata annullata l’Affordable Clean Energy Rule (con la quale la stessa EPA aveva in precedenza sostituito il Clean Power Plan).

Poiché la sentenza che qui si commenta è stata adottata da un organo giurisdizionale facente parte di un ordinamento giuridico diverso dal nostro – sulla base di istituti (anche processuali) differenti rispetto a quelli a noi noti e all’esito di un iter lungo e travagliato, che peraltro ha visto succedersi, sul piano politico/amministrativo, ben tre differenti amministrazioni presidenziali di diverso orientamento (Obama, Trump e Biden) – è necessario ricostruire, in primis, i fatti e le vicende che hanno condotto la Corte Suprema USA ad emettere una sentenza che, a parere di chi scrive, racchiude in sé un insegnamento al quale anche i nostri organi legislativi e amministrativi dovrebbero guardare, quantomeno per evitare di trovarsi (quanto alla gestione delle problematiche ambientali) nella stessa situazione in cui si trovano oggi gli USA rispetto alle politiche di riduzione nelle emissioni di anidride carbonica.

Con una decisione che – sotto un certo profilo – assume quasi i connotati di una lezione di diritto costituzionale americano, la Corte Suprema indirettamente ci ricorda, infatti, che spesso le strade che conducono ad un “nulla di fatto” (o che, addirittura, aggravano i problemi che si era originariamente inteso risolvere quando si è scelto di percorrerle) sono lastricate di buone intenzioni.

La vicenda giunta all’attenzione dell’organo supremo del potere giudiziario federale americano nasce, del resto, proprio da un nobile intento, ovverosia quello di ridurre – entro pochi anni, non più di 15 secondo le intenzioni iniziali della seconda amministrazione Obama– le emissioni di anidride carbonica da parte degli impianti di produzione di energia elettrica attualmente alimentati a carbone o a gas.

Dopo sette anni di battaglie giudiziarie e senza che il Clean Power Plan sia mai entrato in vigore, gli USA si trovano – tuttavia – ancora al punto di partenza, ciò a causa della scelta di voler incidere radicalmente sulla politica energetica nazionale con un “tratto di penna” di un organo amministrativo non eletto democraticamente.

L’esito negativo di un simile tentativo – anche a prescindere dalle ragioni politiche che da un lato hanno condizionato o, forse, addirittura imposto la scelta delle modalità con le quali si è deciso, a suo tempo, di darvi concreta attuazione e, dall’altro, hanno portato al suo rigetto da parte della Corte Suprema – rappresenta un’occasione mancata rispetto ad un intervento ambientale (quello della riduzione delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera) che, se nel 2015 rappresentava un intervento non più procrastinabile, oggi forse è addirittura tardivo.

Da un certo punto di vista, la fallimentare esperienza americana – pur scontando una chiara valenza politica (che, ad avviso di chi scrive, la rende non condivisibile) – potrà comunque essere un valido monito anche per il nostro legislatore, in quanto anch’esso (forse proprio a causa della stessa fretta di recuperare l’immobilismo degli anni passati) non ha di certo dato prova di adeguata ponderazione nell’adozione di provvedimenti di natura “ambientale”[i].

Ciò detto, come si vedrà nel prosieguo della presente nota, la sentenza della Corte Suprema – se sfrondata dalla retorica che traspare chiaramente dalle motivazioni poste a suo fondamento (in particolare dalla concurring opinion) – va tuttavia ben oltre una semplice censura sull’azione di una autorità amministrativa, costituendo invece, a parere di chi scrive, la (triste) prova di quali possano essere – in un contesto politico e sociale non presidiato da garanzie concretamente efficaci sul piano pratico – gli effetti conseguenti ad una applicazione meramente accademica di principi fondamentali, i quali, per quanto universalmente condivisi, rischiano di diventare solo una sorta di “paravento molto nobile” a copertura di realtà ben differenti.

In termini più espliciti, se il richiamo ai principii costituzionali sui quali si fonda uno stato di diritto non può che essere utile – quantomeno nell’ottica di riaffermare la loro persistente necessità e importanza nella società contemporanea – nel momento in cui tale richiamo si disveli fine a se stesso e, soprattutto, fortemente scollato dalla realtà che su di essi si fonda, l’applicazione di tali principii rischia di diventare un mero esercizio di stile (nel caso di specie, peraltro, chiaramente orientato sul piano politico).

Infatti, riaffermare il dominio esclusivo del Congresso a discapito del potere regolamentare dell’Executive Branch – come ha fatto la Corte Suprema nel caso che ci occupa e come probabilmente si appresta a fare in molti altri settori della società americana, diversi da quello ambientale – significa, in buona sostanza, rifiutarsi (scientemente) di prendere atto di quel fenomeno che ormai da anni caratterizza le moderne democrazie occidentali: ovverosia, il progressivo trasferimento dell’attività di produzione della normativa di dettaglio o di natura attuativa dalla sede parlamentare a quella governativa conseguente all’altissimo livello di complessità raggiunto dalla società contemporanea e alla celerità degli scambi che in essa si verificano.

Tale fenomeno è particolarmente accentuato nei sistemi costruiti su un bicameralismo perfetto, quali sono quelli italiano (ove la decretazione d’urgenza per mano del governo è ormai la normalità) e statunitense. Infatti, la necessità che un testo di legge sia approvato da entrambi i rami del parlamento nella medesima formulazione richiede un consenso politico difficilmente raggiungibile. Ciò accade, in particolare, nell’ambito di quei settori (quale quello ambientale) particolarmente esposti all’attività di lobbying, che – pur non potendo essere qualificata a priori come illegittima (essendo anch’essa espressione delle istanze di una parte della società) – ove attuata attraverso pratiche scorrette finisce per falsare il confronto politico (si veda, a tal proposito, Catherine Rocchi, “Climate Protagonist? Strategic Misrepresentation and Corporate Resistance to Climate Legislation”, Stanford Law Review, Volume 74, May 2022, 1153 – 1198).

Anticipando qui le conclusioni delle considerazioni che seguono, a parere di chi scrive la sentenza offre una soluzione (politica e volutamente) anacronistica ad un problema legittimo e attuale quale è quello dei limiti del potere regolamentare di stampo prettamente amministrativo, che – in ragione delle sue indubbie capacità di celere adattamento alla realtà e di aggiornamento – ben potrebbe costituire, se correttamente modellato, un ottimo strumento di disciplina delle misure di lotta al cambiamento climatico.

  1. Il Clean Air Act e il Clean Power Plan dell’EPA

Di seguito si riassumono, in estrema sintesi, i presupposti in diritto e i precedenti (anche storici) che hanno condotto alla decisione della Corte Suprema oggetto di analisi in questa sede.

Nel 1970 il Congresso americano ha approvato il c.d. Clean Air Act (“CAA”) attraverso il quale – modificando le precedenti disposizioni del c.d. Air Quality Act del 1967 – ha adottato, per la prima volta, un nuovo approccio di respiro nazionale alla regolamentazione e al contrasto dell’inquinamento atmosferico, segnando quindi una rottura rispetto agli interventi passati incentrati invece su un approccio di tipo “regionale” (ritenuto scarsamente efficace alla luce del fatto che l’inquinamento dell’aria, date le ovvie caratteristiche fisiche di tale matrice ambientale, non ha confini e, tantomeno, segue i confini interni dei singoli stati[ii]).

Le previsioni del CAA sono oggi trasfuse nel US Code[iii], il quale al Title 42 (“the Public Health And Welfare”), Chapter 85 (“Air pollution prevention and control”), Subchapter I, Part A (“Air Quality and Emission Limitations”), Sec. 7411 (“Standards of performance for new stationary sources”), lett. b) prevede che “[…] 1(A) The Administrator shall, within 90 days after December 31, 1970, publish (and from time to time thereafter shall revise) a list of categories of stationary sources[iv]. He shall include a category of sources in such list if in his judgment it causes, or contributes significantly to, air pollution which may reasonably be anticipated to endanger public health or welfare […] (B) Within one year after the inclusion of a category of stationary sources in a list under subparagraph (A), the Administrator shall publish proposed regulations, establishing Federal standards of performance for new sources within such category […]”.

Ai sensi della Sec. 7411, lett. a), gli “standards of performance” sono definiti come lo “[…] standard for emissions of air pollutants which reflects the degree of emission limitation achievable through the application of the best system of emission reduction which (taking into account the cost of achieving such reduction and any nonair quality health and environmental impact and energy requirements) the Administrator determines has been adequately demonstrated […][v].

Sulla base di tale presupposto normativo, nel 2015 l’EPA ha adottato – nell’ambito del climate action plan del presidente Obama[vi] – il c.d. Clean Power Plan, volto ad assicurare (mediante l’individuazione degli “standard for emissions” di cui sopra) una riduzione delle emissioni di anidride carbonica generate dagli impianti di produzione di energia elettrica.

Nel Clean Power Plan l’EPA ha, quindi, stabilito in primo luogo che il best system of emission reduction per gli impianti alimentati a carbone e a gas naturale dovesse includere tre differenti tipologie di misure di intervento, chiamate “building blocks”.

Nel primo building block sono state inserite le misure volte ad assicurare una combustione più efficiente – attraverso un aumento della relativa temperatura – negli impianti alimentati a carbone.

Il secondo e il terzo building block sono stati invece orientati verso una “generation shifting at the grid level”, ovverosia una transizione – al livello più basso della catena di produzione di energia elettrica – da impianti ad alte emissioni ad impianti ad emissioni ridotte.

In particolare, mentre nel secondo building block è stata prevista una migrazione dagli impianti a carbone agli impianti alimentati a gas metano, il terzo building block è stato invece incentrato sull’abbandono di entrambe tali tipologie di impianti in favore di impianti alimentati da fonti rinnovabili (principalmente solare ed eolico).

Sulla base di tale presupposto, secondo quanto riportato nel syllabus della sentenza della Corte suprema, “[…] EPA determined the applicable emissions performance rates, which were so strict that no existing coal plant would have been able to achieve them without engaging in one of the three means of generation shifting […][vii].

  1. Le iniziative giudiziarie contro il Clean Power Plan e la sua abrogazione da parte dell’EPA

Lo stesso giorno in cui l’EPA ha promulgato il Clean Power Plan, numerosi soggetti privati e ben 27 Stati hanno impugnato il provvedimento avanti alla Corte d’Appello per il District of Columbia Circuit, formulando al contempo una “motion to stay” (più o meno l’equivalente dell’istanza di sospensione del provvedimento prevista nel nostro ordinamento).

Il 21 gennaio 2016, la Corte di Appello per il District of Columbia Circuit ha respinto la richiesta di sospensione del provvedimento, fissando la data per la discussione della causa al giugno del medesimo anno.

A fronte del diniego alla motion to stay, gli attori hanno fatto ricorso alla Corte Suprema la quale, in data 9 febbraio 2016, ha accolto la richiesta di sospensione[viii].

Nelle more del procedimento avanti alla Corte d’Appello per il District of Columbia Circuit si registra – con l’elezione di Donald Trump – un cambio nell’amministrazione presidenziale (e nelle relative politiche ambientali), tanto che la stessa EPA, quasi prendendo le distanze dalle sue precedenti decisioni, giunge a chiedere alla Corte di sospendere il giudizio al fine di consentire una revisione del Clean Power Plan. La Corte concede la sospensione e, successivamente, archivia il procedimento in quanto “perento”[ix].

Alla fine, nel 2019 l’EPA abroga il Clean Power Plan affermando che lo stesso era stato adottato “[…] in excess of its statutory authority […]”. In particolare, l’ente per la protezione dell’ambiente americano afferma che la “generation shifting” introdotta con il Clean Power Plan non avrebbe potuto essere considerata come facente parte del best system of emission reduction (applicandosi quest’ultimo solo “[…] to those systems that can be put into operation at a building, structure, facility, or installation, such as add-on controls and inherently lower emitting process/practices/designs […]”).

In tale occasione l’EPA ha sostenuto, inoltre, che il problema di fondo posto dal Clean Power Plan –ovverosia, se un sistema di riduzione delle emissioni possa essere costituito da “generation – shifting measures” – dovesse essere in ogni caso risolto alla luce della “major questions doctrine”, in forza della quale solo a fronte di una disciplina chiara e inequivocabile sarebbe possibile ritenere che il Congresso abbia inteso assegnare ad una agency (quindi ad un organo non democraticamente eletto) il potere di assumere decisioni di tale portata e rilevanza sul piano economico e politico[x].

Contestualmente all’abrogazione del Clean Power Plan, l’EPA ha adottato una regolamentazione differente – denominata “Affordable Clean Energy” Rule (“ACE”) – nella quale ha stabilito che il miglior sistema sarebbe (solo) simile al primo building block del Clean Power Plan: ovverosia, una combinazione di aggiornamenti delle apparecchiature e di pratiche operative tale da assicurare, di fatto, un miglioramento nell’efficienza degli impianti tramite l’innalzamento dei tassi di calore.

Alcuni Stati ed un certo numero di soggetti privati hanno impugnano immediatamente – sempre avanti alla Corte d’Appello per il District of Columbia Circuit – l’abrogazione del Clean Power Plan e l’adozione dell’ACE.

La Corte d’Appello – riuniti tutti i ricorsi – ha ritienuto errata l’abrogazione del Clean Power Plan attuata dall’EPA in quanto fondata su una interpretazione non corretta del Clean Air Act: “[…] The Court of Appeals […] then held that EPA’s repeal of the Clean Power Plan rested critically on a mistaken reading of the Clean Air Act – namely, that generation shifting cannot be a system, of emission reduction […]”.

Sulla base di tale presupposto, la Corte ha – quindi – annullato sia l’abrogazione del Clean Power Plan, sia il repeal dell’ACE Rule.

A tale decisione ha fatto seguito – con l’elezione di Biden – un nuovo cambiamento nell’amministrazione presidenziale, in conseguenza del quale sempre l’EPA ha avanzato, rispetto alla sentenza della Corte di Appello, una motion to stay al fine di poter impedire la reviviscenza del Clean Power Plan[xi]. Poiché nessuna delle parti in giudizio si oppone, la Corte di Appello sospende la sua decisione in relazione all’annullamento dell’abrogazione del Clean Power Plan.

Le parti interessate alla difesa dell’abrogazione del Clean Power Plan presentano, di conseguenza, un “writ of certiorari” avanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti, la quale si pronuncia nel giugno 2022 con la sentenza in commento.

  1. La decisione della Corte Suprema: l’opinion of the Court

Rigettata l’eccezione preliminare inerente al difetto di legittimazione ad agire dei ricorrenti, sollevata dal Governo americano[xii], la Corte Suprema passa all’esame del thema decidendum del giudizio, individuato nella possibilità o no di annoverare nel “best system of emission reduction” di cui al Clean Air Act anche una ristrutturazione – a livello nazionale – del mix complessivo nella produzione di energia elettrica (con il passaggio, entro il 2030, dal 38% al 27% nella produzione di energia mediante l’utilizzo del carbone).

Nell’affrontare tale questione, la Corte Suprema assume come dato di partenza la constatazione – apparentemente scontata ma, come vedremo, determinante al fine di orientare la decisione dei giudici federali – secondo la quale alle autorità governative spettano unicamente quei poteri che sono loro conferiti dal Congresso, in quanto la legge attributiva di tali poteri non può essere considerata alla stregua di un “[…] open book to which the agency [may] add pages and change the plot line […]”.

A favore di tale posizione militerebbero sia il più generale principio di separazione dei poteri (tramite il quale, in alcuni recentissimi precedenti, è stata data nuova vita al principio della “non delegation doctrine”), sia un minimo di senso pratico nella ricerca del reale intento normativo. Entrambi tali elementi, a giudizio della Corte Suprema, non consentirebbero infatti di leggere in un testo normativo – soprattutto se caratterizzato da ambiguità o, comunque, dall’utilizzo di espressioni equivoche o vaghe (“modest words, vague terms or subtle device[s]”) – una delegazione di poteri così ampia quale quella riconosciutasi dall’EPA ai fini della adozione del Clean Power Plan.

Tale assunto risulterebbe, peraltro, confermato anche dalle precedenti applicazioni del Clean Air Act attuate dalla EPA stessa, la quale – in passato – si sarebbe sempre limitata a fissare limiti nelle emissioni delle sostanze inquinanti basati unicamente sull’applicazione di misure volte ad imporre modalità operative più “pulite” ed efficienti e non consistenti, invece, in sistemi di riduzione che impongono semplicemente uno shift da fonti energetiche più inquinanti a fonti energetiche meno inquinanti.

A ciò dovrebbe, inoltre, sommarsi – sempre secondo la Corte Suprema – la generale mancanza, in capo all’EPA, delle conoscenze necessarie ai fini della predisposizione di un piano di riduzione delle emissioni che si sostanzi in un radicale cambiamento nell’assetto energetico nazionale[xiii], dalla quale dovrebbe quindi desumersi l’intenzione del Congresso di non delegare all’agenzia governativa un siffatto potere.

Sulla base di tali considerazioni e alla luce di precedenti decisioni[xiv] nelle quali è stato negato ad altre agenzie un generale potere di intervento e di regolamentazione estraneo al dato letterale del testo normativo, la Corte Suprema conclude – quindi – affermando l’impossibilità di annoverare il “best system of emission reduction” identificato dall’EPA nel Clean Power Plan (ovverosia, il sistema di riduzione incentrato su uno shift nelle tecniche di produzione dell’energia elettrica: da quelle più inquinanti a quelle più pulite) entro i limiti del potere riconosciuto a quest’ultima dal Clean Air Act.

  1. La concurring opinion

A sostegno dell’opinion of the Court interviene la concurring opinion a firma del Justice Gorsuch (alla quale aderisce anche il Justice Alito), che – a parere di chi scrive – è quella che forse connota, ancor meglio dell’opinion of the Court, la sentenza in commento.

Proprio dalla concurring opinion emerge infatti, con estrema chiarezza, il rilievo e il peso – sul piano costituzionale, ma anche e soprattutto politico – della decisione della Corte Suprema per ciò che concerne, in particolare (ma non solo), la materia ambientale che, come noto, se – da un lato – si caratterizza per uno spiccato tecnicismo, dall’altro, rappresenta forse uno dei crinali più scivolosi sul piano del consenso sociale, nel quale si assiste ormai da tempo ad un continuo confronto/scontro tra le istanze di tutela dell’ambiente e la necessità di non intralciare eccessivamente l’attività delle economie nazionali (ad esempio, con costosi vincoli nelle emissioni o con la messa al bando di tecnologie produttive particolarmente inquinanti o di determinati materiali), già provate da una nutrita serie di crisi finanziarie.

L’incipit della concurring opinion lascia poco spazio a eventuali dubbi sulla scelta di campo compiuta dalla Corte Suprema: richiamando il principio di separazione dei poteri e la conseguente competenza esclusiva del Congresso in relazione all’esercizio del potere legislativo, i giudici federali (ri)aprono la strada alla applicazione della c.d. “nondelegation doctrine” (qualificabile, forse, come il frutto avvelenato della estremizzazione della major questions doctrine), peraltro in un settore – quale è quello ambientale – ove la creazione di un consenso politico sufficientemente forte tale da condurre alla approvazione di provvedimenti realmente incisivi è “merce assai rara”.

Nel motivare la propria adesione alla decisione della Corte, il giudice Gorsuch ricorda in primo luogo come “[…] In Article I, “the People” vested “[a]ll federal legislative powers …. in Congress […] this means that “important subjects …. must be entirely regulated by the legislature itself”, even if Congress may leave the Executive “to act under such general provisions to fill up the details […] the Constituion’s rule vesting federal legislative power in Congress is vital to the integrity and maintenance of the system of government ordained by the Constitution […]”.

Secondo il giudice federale, infatti, l’assetto repubblicano consacrato nella carta costituzionale sarebbe incompatibile con un regime amministrato da una classe di ministri “irresponsabile” (nel senso di non essere tenuta a rispondere all’elettorato)[xv], ciò in quanto “[…] The Constitution […] placed its trust not in the hands of a few, but [in] a number of hands […] so that those who make our laws would better reflect the diversity of the people they represent and have an immediate dependence on, and an intimate sympathy with, the people […]”.

Di conseguenza, l’ipotesi in cui il Congresso dovesse spogliarsi di tale competenza esclusiva in favore del potere esecutivo non potrebbe essere mai ammessa in quanto ad essa si accompagnerebbe un vero e proprio sovvertimento dello schema voluto dai padri costituenti. Un simile ipotesi, secondo quanto riportato nella concurring opinion, trasformerebbe il potere legislativo nella mera espressione di funzionari non eletti chiamati a rispondere unicamente ad un presidente, il quale – a sua volta – potrebbe non avere tempo o non essere disponibile a rivedere le “agency decisions” (“[…] In a world like that, agencies could churn out new laws more or less at whim […]”).

Il quadro dipinto dal Giudice Gorsuch per descrivere una simile ipotesi è certamente a tinte fosche: “[…] Stability would be lost, with vast numbers of laws changing with every new presidential administration. Rather than embody a wide social consensus and input from minority voices, laws would more often bear the support only of the party currently in power […] Finally, little would remain to stop agencies from moving into areas where state authority has traditionally predominated […]”.

L’unico baluardo di fronte ad un eccesso di potere da parte delle “agencies” federali risiederebbe, a giudizio di Gorsuch, in ciò che lo stesso giudice definisce alla stregua un vero e proprio corollario dell’Articolo I della Costituzione americana, la major questions doctrine, sviluppatosi in particolare a partire dagli anni Settanta del secolo scorso[xvi]:

[…] The major questions doctrine seeks to protect against “unintentional, oblique, or otherwise unlikely” intrusions on these interests. […] The doctrine does so by ensuring that, when agencies seek to resolve major questions, they at least act with clear congressional authorization and do not “exploit some gap, ambiguity, or doubtful expression in Congress’s statutes to assume responsibilities far beyond” those the people’s representatives actually conferred on them […]”.

La major questions doctrine impedirebbe, quindi, una eventuale “fuga in avanti” del potere esecutivo nel caso in cui quest’ultimo – di fronte alla apparente lentezza del Congresso nel risolvere i problemi – decidesse di “prendere nelle sue mani” le relative questioni. Ciò in quanto “[…] the Consitution does not authorize agencies to use pen-and-phone regulations as substitutes for laws passed by the people’s representatives […]”.

Sulla base di tali presupposti, il giudice Gorsuch – ritenendo che la decisione della Corte “[…] helps safeguard that foundational constituional premise […]” – dichiara quindi di aderire all’opinion ufficiale a firma del Chief Justice Roberts.

  1. La dissenting opinion

Nella dissenting opinion a propria firma, il giudice Kagan contesta – in primo luogo – le valutazioni fatte dalla Corte Suprema in relazione alla pretesa natura non chiara e generica della terminologia utilizzata dal Clean Air Act in sede di riconoscimento, in capo all’EPA, del potere di individuare il c.d. best system of emission reduction.

In tale contesto, le espressioni scelte dal legislatore americano per delimitare il potere dell’EPA costituirebbero – a dispetto della tesi sostenuta dalla “majority” – la prova della volontà di attribuire all’Agency un potere duttile, capace di adattarsi in breve tempo alle particolarità del caso concreto di volta in volta oggetto di regolamentazione, in tal modo compensando sia la “rigidità” che contraddistingue – nell’ambito di un sistema fondato sul bicameralismo perfetto – il procedimento aggravato di formazione delle leggi, sia la mancanza di adeguate conoscenze tecniche in capo ai membri dell’organo parlamentare.

Quindi, alla luce di tale interpretazione, i termini utilizzati nel Clean Air Act non risultano più vaghi, non chiari, ambigui o nebulosi. Al contrario, essi sarebbero connotati da quella giusta ampiezza che consente alle norme di “sopravvivere” alla evoluzione – a volte frenetica – della tecnica:

[…] Congress used an obviously broad word […] to give EPA lots of latitude in deciding how to set emission limits. And contra the majority, a broad term is not the same thing as “vague” one. […] A broad term is comprehensive, extensive, wide-ranging; a “vague” term is unclear, ambiguous, hazy […] So EPA was quite right in stating in the Clean Power Plan that the “[p]lain meaning” of the term system in Section 111 refers to “a set of measures that work together to reduce emissions […]”.

Ferme le considerazioni di carattere lessicale che precedono, la dissenting opinion cita inoltre – a confutazione della tesi sostenuta nell’opinion of the Court – una serie di precedenti (non certo recenti) nei quali il Congresso ha dato ampi poteri all’esecutivo ai fini della risoluzione di problematiche particolarmente complesse e delicate[xvii], ciò a dimostrazione del fatto che – ben lungi dal costituire una eccezione – “[…] It is not surprising that Congress has always delegated, and continues to do so – including on important policy issues […] it is often “unreasonable and impracticable” for Congress to do anything else […]”.

Le ragioni alla base della necessità di ricorrere alla delega risiedono – secondo una semplice osservazione del giudice Kagan, del tutto condivisibile e, per certi versi, quasi ovvia – proprio nella sopra citata mancanza di conoscenze tecniche in capo ai membri del parlamento e nella impossibilità, per il Congresso, di assicurare un costante aggiornamento della normativa di settore.

In un simile contesto, lo strumento della delega del Congresso in favore dell’Executive Branch avrebbe aiutato – secondo il giudice Kagan – lo sviluppo della stessa nazione, ciò in ragione del fatto che il Congresso “[…] gave broad-ranging powers to administrative agencies, and those agencies then filled in – rule by rule by rule – Congress’s policy outlines […]”.

La misura, i limiti e le modalità di attuazione pratica della delega da parte del potere esecutivo sarebbero, peraltro, meglio conosciuti dal Congresso che dai tribunali, i quali – quindi – non dovrebbero avere la pretesa di imporre la loro idea di delega.

Poiché, nel caso di specie, la Corte Suprema americana si è arrogata il diritto di sindacare la misura della delega in favore dell’EPA, la dissenting opinion si chiude con una censura che, nella sostanza, si regge sul medesimo principio della separazione dei poteri che il giudice federale ha richiamato a proprio favore:

[…] the Court today prevents congressionally authorized agency action to curb power plant’s carbon dioxide emissions. The Court appoints itself – instead of Congress or the expert agency – the decision maker on climate change policy […]”.

  1. Conclusioni

All’esito dell’esame dell’opinion of the Court, dell’opinion adesiva e della dissenting opinion, è possibile dare spiegazione di quanto accennato nelle premesse in relazione alla valenza politica e al taglio quasi esclusivamente accademico (qui, in una accezione negativa) della decisione della Corte Suprema.

La sentenza finisce per riconoscersi un merito – quello di aver restituito la piena competenza legislativa in capo al massimo organo rappresentativo repubblicano – che, in realtà, si risolve esso stesso nella violazione del principio di separazione dei poteri.

Infatti, come evidenziato dal Justice Kagan nella dissenting opinion, la Corte Suprema, nel censurare il preteso “sconfinamento” dell’EPA, finisce per sostituirsi al Congresso nella individuazione dei limiti della delega da questo conferita all’Agency americana in tema di contrasto all’inquinamento atmosferico: la decisione del massimo organo del potere giudiziario federale sconta – quindi – il medesimo peccato originale che viene contestato al Clean Power Plan:

[…] the Court substitutes its own ideas about delegations for Congress’s. And that means the Court substitutes its own ideas about policymaking for Congress’s. The Court will not allow the Clean Air Act to work as Congress instructed. The Court, rather than Congress, will decide how much regulation is too much […] The Court appoints itself – instead of Congress or the expert agency – the decision maker on climate policy […]”.

A ciò si aggiunga che nel riconoscere una competenza esclusiva assoluta in capo al Congresso – con la conseguenza di assegnare al potere esecutivo un ruolo di mero esecutore di scelte (anche tecniche) compiute da coloro che hanno ricevuto una investitura popolare – la Corte Suprema si pone in aperta antitesi con la realtà dei fatti, nella quale si è sempre assistito (sin dalla risoluzione dei c.d. “Indians affairs”) ad un ampio uso della delega a favore dell’Executive Branch.

Tale scollamento rispetto all’esperienza maturata sino ad oggi è, peraltro, ancor più manifesto nell’ambito di un settore – quale è quello della lotta al cambiamento climatico – ove è possibile compiere “scelte ragionate” solo se in possesso di conoscenze e nozioni tecniche difficilmente rinvenibili nella classe politica, la quale – al contrario – è (da sempre) particolarmente esposta agli effetti dell’attività di lobbying attuata (anche tramite pratiche non certo fair) dagli operatori economici interessati al mantenimento dello status quo[xviii].

È proprio sotto tale ultimo profilo che emerge la valenza politica della decisione della Corte Suprema (oggi a maggioranza repubblicana), la quale – di fatto disattivando il potere regolamentare dell’Executive Branch nell’ambito delle tematiche ambientali – ha spianato la strada alla applicazione generalizzata dalla c.d. non-delegation doctrine, in tal modo pregiudicando gravemente la possibilità per l’autorità governativa di disciplinare questioni di particolare attualità nella società contemporanea[xix]. Si noti, inoltre, che la sentenza interviene su un provvedimento mai entrato in vigore e che la stessa EPA ha dichiarato di voler rivedere nel suo contenuto (la stessa agenzia per la tutela dell’ambiente ha, infatti, a suo tempo avanzato una richiesta di “sospensione” della decisione della Corte d’Appello per il District of Columbia Circuit al fine di evitare il ritorno in vigore del Clean Power Plan).

In tale ottica, gli effetti negativi della decisione della Corte Suprema sono quindi destinati a manifestarsi anche al di fuori dei confini della lotta al cambiamento climatico, la quale – tuttavia – rappresenta oggi una delle sfide più pressanti e più delicate sul piano economico e sociale, la cui soluzione richiederebbe interventi tempestivi che, ad oggi, fatti salvi alcuni settori, non hanno ancora superato la fase embrionale.

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Commento Supreme Court no. 20_1530_7 ottobre 2022

Per il testo della sentenza cliccare sul pdf allegato.

CS USA 2022

NOTE

[i] A titolo meramente esemplificativo, si può citare il maldestro intervento normativo introdotto nel settembre 2020 in tema di etichettatura ambientale. Nella totale assenza di indicazioni operative ufficiali, le nuove norme – ancor prima di entrare in vigore – si sono, infatti, immediatamente dimostrate non applicabili sul piano concreto, da un lato, rendendo necessari continui rinvii del termine di efficacia iniziale (allo stato fissato al primo gennaio 2023) e, dall’altro, costringendo gli operatori di settore – di fatto abbandonati a loro stessi – a compiere notevoli sforzi economici e interpretativi nel tentativo di potersi adeguare per tempo ai nuovi requisiti. Sotto questo profilo, solo la storia potrà essere testimone di quel cambiamento nella produzione normativa necessario affinché le misure di futura adozione possano essere realmente utili nella lotta alla tutela dell’ambiente e non rappresentino invece – come spesso accade oggi, in ragione della scarsa qualità degli interventi – solo occasione per screditare e, quindi, vanificare gli sforzi compiuti. Le premesse – da questo punto di vista – non sono sino ad ora molto incoraggianti.

[ii] Per una disamina di carattere storico del Clean Air Act si veda “EPA Historu: The Clean Air Act of 1970” by Paul G. Rogers reperibile al seguente link: https://www.epa.gov/archive/epa/aboutepa/epa-history-clean-air-act-1970.html

[iii] Il “US Code” non costituisce un “codice” analogo a quelli che si rinvengono – in molti settori del diritto – all’interno del nostro ordinamento (tra tutti, il Codice Civile, il Codice di Procedura Civile, il Codice Penale, etc.). Esso va inteso alla stregua di una “[…]  consolidation and codification by subject matter of the general and permanent laws of the United States. It is prepared by the Office of the Law Revision Counsel of the United States House of Representatives […]”. Il “US Code” rappresenta, quindi, una sorta di raccolta consolidata della normativa federale in vigore. Di seguito si riportano utili link ove poter consultare la versione tempo per tempo aggiornata del US Code: http://uscode.house.gov/https://www.govinfo.gov/app/collection/uscode/2015/

[iv] Quanto alla definizione di “stationary sources”, la stessa Sec. 7411, lett. a) stabilisce che “[…] (3) The term “stationary source” means any building, structure, facility, or installation which emits or may emit any air pollutant. […]”.

[v] Si noti l’affinità della nozione di “best system of emission reduction” con quella, di derivazione europea, di “best available techniques – BAT” oggi trasfusa nell’art. 5 1 del D.lgs. n. 152/2006.

[vi] Nel climate action plan del 2013 del presidente Obama si legge, infatti, quanto segue: “[…] Power plants are the largest concentrated source of emissions in the United States, together accounting for roughly one-third of all domestic greenhouse gas emissions. We have already set limits for arsenic, mercury, and lead, but there is no federal rule to prevent power plants from releasing as much carbon pollution as they want. […] the Obama Administration proposed a carbon pollution standard for new power plants. The Environmental Protection Agency’s proposal reflects and reinforces the ongoing trend towards cleaner technologies, with natural gas increasing its share of electricity generation in recent years, principally through market forces and renewables deployment growing rapidly to account for roughly half of new generation capacity installed in 2012 […] To accomplish these goals, President Obama is issuing a Presidential Memorandum directing the Environmental Protection Agency to work expeditiously to complete carbon pollution standards for both new and existing power plants […]”.

[vii] Nell’Opinion of The Court si specifica che “[…] The point, after all, was to compel the transfer of power generating capacity from existing sources to wind and solar. The White house stated that the Clean Power Plan would drive a[n] …aggressive transformation in the domestic energy industry […]”.

[viii] A questo link (https://www.documentcloud.org/documents/2709346-15A773-West-Virginia-v-EPA-Order-c1.html?embed=true&responsive=false&sidebar=false&text=false) è possibile reperire copia del provvedimento di sospensione. Secondo quanto riportato dall’American Bar Association (https://www.americanbar.org/groups/litigation/committees/environmental-energy/practice/2016/021716-energy-supreme-court-stays-epas-clean-power-plan/), la decisione della Corte Suprema di sospendere un provvedimento impugnato prima ancora del suo esame da parte di una corte di appello federale rappresenterebbe un precedente assoluto. Tale assunto è confermato anche dalle parole formulate dal giudice Kagan nella dissenting opinion: “[…] This Court has obstructed EPA’s effort from the beginning. Roght after the Obama administration issued the Clean Power Plan, the Court stayed its implementation. That action was unprecedented: Never before had the Court stayed a regulation then under review in the lower courts […]”.

[ix] Si è scelto di utilizzare tale termine in quanto nell’Opinion of the Court si specifica che “[…] The new administration requested that the litigation be held in abeyance so that EPA could reconsider the Clean Power Plan. The D.C. Circuit obliged, and later dismissed the petitions for review as moot è […]”.

[x] Nell’Opinion of the Court si riporta quanto segue: “[…] EPA argued that under the major questions doctrine, a clear statement was necessary to conclude that Congress intended to delegate authority of this breath to regulate a fundamental sector of the economy […] It found none. Indeed, it concluded, given the text and structure of the statute, Congress has directly spoken to this precise question and precluded the use of measures such as generation shifting […]”.

[xi] Si veda, sul punto, quanto riportato nell’Opinion of the Court: “[…] EPA moved the Court of Appels to paertially stay the issuance of its mandate as it pertained to the Clean Power Plan. The Agency did so to ensure that the Clean Power Plan would not immediately go back into effect […]”.

[xii] Quanto alle motivazioni alla base del rigetto dell’eccezione relativa al difetto di legittimazione, si legge in sentenza quanto di seguito riportato: “[…] the Government’s mootness argument boils down to its representation that EPA has no intention of enforcing the Clean Power Plan prior to promulgating a new […] rule. But voluntary cessation does not moot a case unless it is absolutely clear that the allegedly wrongful behavior could not reasonably be expected to recur […] Here the Government nowhere suggests that if this litigation is resolved in its favor it will not reimpose emission limits predicated on generation shifting […] We do not dismiss a case as moot in such circumstances […]”.

[xiii] Si veda, sul punto, quanto riportato in sentenza: “[…] For one thing, as EPA itself admitted when requesting special funding, “Understand[ing] and project[ing] sysrem wide … trends in areas such as electricity transmission, distribution, and storage” requires “technical and policy expertise not traditionally needed om EPA regulatory development […]”.

[xiv] Nella sentenza si cita Brown & Williamson, nella quale la Corte Suprema ha negato che nei poteri riconosciuti dalla legge alla Food and Drug Administration fosse incluso anche quello di disciplinare i prodotti a base di tabacco: “[…] In Brown & Williamson, for instance, the Food and Drug Administration claimed that its authority over drugs and devices included the power to regulate, and even ban, tobacco products. […] We rejected that expansive construction of the statute, concluding that Congress could not have intended to delegate such a sweeping and consequential authority in so cryptic a fashion […]”.

[xv][…] the framers believed that a republic – a thing of the people – would be more likely to enact just laws than a regime administrated by a ruling class of largely unaccountable “ministers” […]”.

[xvi] Cfr. concurring opinion, pag. 7: “[…] With the explosive growth of the administrative state since 1970, the major questions doctrine soon took on special importance. In 1980, this Court held it “unreasonable to assume” that Congress gave an agency “unprecedented power[s]” in the “absence of a clear [legislative] mandate […] In the years that followed, the Court routinely enforced “the non-delegation doctrine” through “the interpretation of statutory texts, and, more particularly, [by] giving narrow constructions to statutory delegations that might otherwise be thought to be unconstitutional […]”.

[xvii] Sono citate, a tal proposito, le questioni attinenti all’amministrazione del territorio, agli “Indian affairs”, al “foreign and domestic debt”, al servizio militare e alle corti federali.

[xviii] Si veda, in proposito, il già citato articolo “Climate Protagonist? Strategic Misrepresentation and Corporate Resistance to Climate Legislation”: “[…] In the absence of lobbying reform, strategic misrepresentation has the potential to disrupt legislative processes once again […]”.

[xix] Si veda, nella stampa generalista, l’articolo “The Supreme Court Wants to Revive a Doctrine That Would Paralyze Biden’s Administration”, nella quale si afferma che “[…] Joe Biden promised us an FDR-sized presidency—starting with bold action to halt the spread of COVID-19, end the worst economic downturn in decades, and stop the climate crisis. Biden could use regulation and executive action to move quickly to decarbonize the economy, cancel student loan debt, and raise wages. But a Biden administration has an even bigger problem than two long-shot special elections in Georgia: the new 6–3 conservative majority on the Supreme Court may soon burn down the federal government’s regulatory powers. At least five conservative justices have signaled that they are eager to revive the “non-delegation doctrine,” the constitutional principle that Congress can’t give (“delegate”) too much lawmaking power to the executive branch. On paper, the rule requires Congress, when delegating power to an agency, to articulate an “intelligible principle” (like air pollution regulation needed “to protect public health”) to guide the agency’s exercise of that power […]” (https://slate.com/news-and-politics/2020/12/supreme-court-gundy-doctrine-administrative-state.html).

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