Brevi osservazioni sul reato di gestione illecita di rifiuti

18 Apr 2019 | giurisprudenza, penale

di Enrico Fassi

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 1 febbraio 2019, n. 4973 – Pres. Cervadoro – Rel. Di Nicola – Ric. M.

La terza sezione della Cassazione conferma – accedendo all’ottica preventiva assegnata dal legislatore ai reati di pericolo (anche) in materia ambientale – la portata applicativa dell’art. 256, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 152/2006 alle fattispecie di gestione illecita di rifiuti riferite ad una condotta di illecita commercializzazione di MPS che, invece, non avevano subito l’attività di trattamento prescritta per il raggiungimento dello stato di c.d. End of Waste.

Nel solco della precedente elaborazione giurisprudenziale – per il vero non particolarmente numerosa – la Cassazione (ri)afferma e puntualizza la natura del reato di gestione non autorizzata di rifiuti, rilevante ai sensi dell’art. 256, I, lett. a), II e IV d.lgs. n. 152/2006, fornendo diverse indicazioni utili per una disamina della fattispecie.

Nella vicenda sottoposta allo scrutinio del Collegio, infatti, l’imputato – nella sua qualità di legale rappresentate della persona giuridica attinta dal procedimento penale – ricorreva per Cassazione avverso la sentenza di condanna emessa dal Tribunale di primo grado per la contestazione poc’anzi menzionata, atteso l’accertamento da parte della A.G. di condotte volte, da un lato, alla illecita commercializzazione di materie qualificate come MPS (Materie Prime Seconde) che, non essendo state oggetto delle analisi prescritte e volte alla attribuzione alle medesime della qualifica della c.d. End of Waste, dovevano più propriamente qualificarsi quali rifiuti (non pericolosi) e, dall’altro lato, al deposito incontrollato di tali MPS – rectius, rifiuti – al di fuori dei locali di proprietà dell’impresa, e infine dalla sistematica inosservanza delle prescrizioni contenute nel titolo autorizzativo rilasciato alla società (peraltro in epoca successiva all’inizio della condotta di stoccaggio dei materiali medesimi).

Sul punto e per quanto nella presente sede rilevante, il ricorrente osservava come il Tribunale avesse erroneamente ritenuto classificabili quali rifiuti le terre e rocce da scavo commercializzate dalla società, giacché, in considerazione della ritenuta assenza di qualsivoglia accertamento sulle attività di trattamento poste in essere sui materiali prima del loro trasporto, tale evenienza non poteva far discendere una presunzione circa la mancanza di una precedente attività di recupero rilevante ai sensi dell’art. 183 d.lgs. n. 152/2006 posta in essere dall’imputato medesimo.

La Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso per manifesta infondatezza e per sua presentazione al di fuori dei casi consentiti dalla legge, ha modo di svolgere talune interessanti riflessioni riguardanti sia la tematica della c.d. End of Waste, sia soprattutto relativamente al reato di cui all’art. 256, I, lett. a), d.lgs. n. 152/2006.

Per quanto concerne il primo punto, infatti, la Corte ribadisce come l’assenza nei materiali in questione dell’evidenza del rispetto dei criteri indicati dall’art. 184 ter d.lgs. n. 152/2006 implichi necessariamente la qualificazione dei medesimi quali rifiuti, ai sensi e per gli effetti di cui alla normativa ambientale.

Tali indici, come noto, sono frutto di una nutrita elaborazione normativa (e applicazione giurisprudenziale) volta alla ricerca di un equilibrio tra l’esigenza di protezione dell’ambiente, da un lato, e il recupero dei materiali di scarto da un ciclo produttivo, dall’altro, di derivazione comunitaria (discendente dalla direttiva 1975/442/CEE, seguita dalla successiva direttiva 2008/98/CE) e secondo una gerarchia che pone al primo posto l’obiettivo della prevenzione, attuato attraverso il riutilizzo, secondariamente il recupero, perseguito tramite il riciclaggio, e infine lo smaltimento[i].

Esigenza di equilibrio, del resto, cagione di numerose problematicità applicative della normativa di cui all’art. 184 ter d.lgs. n. 152/2006 che demanda alla sede europea, ovvero ai singoli Stati membri, l’indicazione dei criteri dai quali far discendere il raggiungimento delle condizioni della c.d. End of Waste[ii], sulla base delle indicazioni fornite da un elaborato della Commissione Europea del giugno 2012, riprese dalla Circolare del Ministero dell’Ambiente n. 10045 del giorno 1 luglio 2016 e sconfessate – quanto ad applicazioni pratiche – da una controversa decisione del Consiglio di Stato del 2018[iii].

Per quanto concerne invece la tematica relativa alla portata definitoria del reato di gestione illecita di rifiuti di cui all’art. 256, I, lett. a), d.lgs. n. 152/2006, attesa la qualificazione dei cumuli di materiali allocati all’esterno del perimetro aziendale quali rifiuti non pericolosi, la Corte trae la conferma circa la non correttezza della condotta tenuta dall’imputato, in violazione dell’autorizzazione all’esercizio dell’impianto (che prevedeva apposite aree per lo stoccaggio dei materiali), ed estrinsecatasi attraverso una collocazione dei materiali stessi su superfici non impermeabilizzate né comunque pavimentate, tali da cagionare il pericolo di un pregiudizio per il bene giuridico protetto dalla disposizione incriminatrice.

Per tale motivo, il Collegio sostiene sotto un primo profilo come il giudice del merito, con motivazione coerente e logica, avesse ritenuto integrata la fattispecie di cui al secondo comma dell’art. 256 d.lgs. n. 152/2006, di deposito incontrollato di rifiuti e non già la diversa categoria del deposito temporaneo[iv].

Come noto infatti, la disciplina di cui all’art. 183, lett. b), d.lgs. n. 152/2006 delinea chiaramente i presupposti per la configurazione di un deposito temporaneo di rifiuti, al contempo fissando specifiche indicazioni riguardo alla quantità e qualità nonché alla durata del deposito medesimo, in difetto integrandosi, appunto, una gestione di rifiuti non autorizzata[v] che – ai sensi dell’art. 2 d.lgs. n. 36/2003 – ove superiore ad un anno, comporta la riconduzione di tale deposito all’interno della disciplina delle discariche[vi].

Ulteriormente e sotto un secondo profilo, alla luce del riscontro delle plurime violazioni delle prescrizioni autorizzative imposte alla società, quali quelle afferenti la gestione, il trattamento e le modalità di successiva allocazione dei materiali conferiti presso l’impianto, in una con la considerazione per cui il titolo autorizzativo fosse stato concesso soltanto successivamente all’esordio della condotta di irregolare deposito delle terre e rocce da scavo al di fuori del perimetro dell’impianto, la Corte conferma il percorso argomentativo seguito dai giudici di merito, per i quali tali materiali dovevano – appunto – più propriamente considerarsi ed essere qualificati come rifiuti, con quanto conseguente rispetto alla applicazione delle correlate disposizioni di cui al d.lgs. n. 152/2006.

La condotta tenuta dall’imputato, dunque, doveva considerarsi quale attività di gestione di rifiuti non autorizzata, come tale passibile di assumere penale rilevanza ai sensi dell’art. 256, I, lett. a), II e IV d.lgs. n. 152/2006.

La circostanza che da quanto accertato dalle autorità d’ambito non era derivato un concreto e fattivo pregiudizio, quale riscontrata contaminazione, dei terreni sui quali i cumuli di materiali erano stati allocati, viene pertanto – proprio in ragione della menzionata qualificazione giuridica della condotta posta in essere ai sensi dell’art. 256, I lett.a), d.lgs. n. 152/2006 – considerata non rilevante ai fini della sussistenza del reato.

La Cassazione infatti conferma come l’attività di gestione di rifiuti non autorizzata sia un reato di pericolo, di guisa che la valutazione in ordine al grado minimo della offesa al bene giuridico protetto debba essere effettuata al momento della condotta secondo un giudizio prognostico ex ante, con ciò affermando l’irrilevanza dell’assenza in concreto di eventuali lesioni alla matrice ambientale considerata[vii].

Quanto sostenuto conferma la tendenza riscontrata nel settore del diritto penale dell’ambiente, nel quale il compito del giudice del merito viene ricondotto al mero accertamento diretto a verificare – nei reati formali e di pericolo – che il fatto di reato abbia effettivamente leso ovvero (anche solo) messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato dalla disposizione incriminatrice.

E tale condizione di pericolo viene considerata integrata, accedendo alla categoria generale propria del diritto penale sostanziale e in un’ottica preventiva attribuita ai reati di pericolo, qualora, con un giudizio ex ante e secondo le evidenze scientifiche disponibili, appare probabile che dalla condotta possa conseguire l’evento lesivo che il legislatore, anticipando il momento della tutela, intende scongiurare.

La considerazione poc’anzi esposta si correla tuttavia alla attigua tematica relativa al problema della offensività e della individuazione dei beni giuridici immediatamente e direttamente attinti dalla offesa nel settore di cui trattasi, per i quali risulta costante l’osservazione per cui – legittimando la categoria delle fattispecie di pericolo astratto – risultano passibili di assumere penale rilevanza, in quanto ritenute pericolose, condotte potenzialmente in grado di vulnerare il bene giuridico protetto dalla normativa del settore[viii].

Per tali motivi, la Cassazione sostiene come – nel caso specifico – le condotte poste in essere dall’imputato non potevano considerarsi inoffensive, seppur formalmente integranti il reato di cui all’art. 256, I, lett. a), d.lgs. n. 152/2006, giacché portatrici di un disvalore tale da concretizzare la messa in pericolo del bene giuridico ambiente – oltre che della gestione in mano pubblica della risorsa ambientale – quale bene finale tutelato dalle norme incriminatrici de quo.

Sarebbe proprio la natura del pericolo (ovvero del danno), che sovente risulta la somma di comportamenti ripetuti nel tempo[ix], a rendere obbligata la scelta legislativa di prescindere dall’idoneità lesiva del singolo fatto, retrocedendo la soglia di rilevanza penale al pericolo di causazione di un pregiudizio al bene giuridico ambiente[x].

Nel caso concreto, proprio l’assenza di una autorizzazione al momento di esordio della condotta, e dunque la carenza di un controllo amministrativo preventivo sulle modalità di svolgimento dell’attività produttiva, cosi come l’inosservanza delle prescrizioni successivamente imposte all’impresa, avrebbero determinato una situazione intrinseca di rischio, essendo suscettibili di mettere in pericolo la salubrità dell’ambiente[xi].

Sotto un ultimo profilo, può invece conclusivamente puntualizzarsi, con riferimento alle condotte di (sola) inosservanza delle prescrizioni imposte dal titolo autorizzativo, rilevante ai sensi dell’art. 256, IV, d.lgs. n. 152/2006 – quest’ultimo necessario proprio per lo svolgimento della attività di gestione dei rifiuti (il cui illecito governo può appunto integrare la diversa fattispecie di cui al primo comma della disposizione) – come lo stesso debba considerarsi quale reato formale, non necessitando per la relativa integrazione che la condotta sia idonea a cagionare una situazione di concreto pregiudizio per il bene giuridico protetto[xii].

In tali ipotesi, difatti, si sanzionerebbe il mancato rispetto di norme amministrative di controllo, aventi appunto natura puramente formale, secondo un modello accessorio al diritto amministrativo, tanto da far considerare la disposizione quale “norma penale in bianco”, ovvero espressione di una “amministrativizzazione” del diritto penale[xiii].

Ciò in quanto, più propriamente, le autorizzazioni svolgerebbero un preminente ruolo di controllo del rispetto della normativa ambientale e dei correlati standards di tutela apprestati, legittimando ex se la rilevanza penale delle inosservanze ai titoli medesimi[xiv].

In ogni caso e in conclusione, avendo il ricorrente, secondo il Collegio, sostenuto un giudizio di valore ex post sulla condotta tenuta – che così procedendo del resto avrebbe privato di rilievo la natura e la funzione di tutela anticipata della disposizione incriminatrice, facendo dipendere l’assenza o la presenza del pericolo stesso dalla presenza ovvero dalla assenza di una effettiva lesione al momento dell’accertamento successivo al compimento della condotta pericolosa, e non già invece riconducendo l’integrazione del reato alla valutazione da compiersi ex ante – ne sarebbe derivata per la Corte, coerentemente con le premesse sviluppate, una declaratoria di inammissibilità delle argomentazioni sviluppate dall’imputato nei motivi di ricorso.

Per il testo della sentenza (estratto dal sito istituzionale della Corte di Cassazione cliccare sul pdf allegato. Fassi_Cass 4973_2019

[i] Stabilendo, nella direttiva 2008/98/CE, a livello teorico quale recupero «qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile sostituendo altri materiali che sarebbero stato altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione, all’interno dell’impianto o nell’economia in generale» e a livello pratico, sulla base dell’art. 6, dei precisi criteri cui ricondurre l’operazione medesima ossia: i. l’utilizzo per scopi specifici; ii. l’esistenza di un mercato o di una domanda per tale sostanza od oggetto; iii. la sussistenza di specifiche caratteristiche della sostanza o dell’oggetto per il soddisfacimento di requisiti tecnici volti agli specifici scopi di utilizzo, nel rispetto della normativa di settore; iv. l’assenza di effetti pregiudizievoli per l’ambiente o per la salute umana derivanti dall’utilizzo della sostanza.

[ii] Che risultano infatti stabiliti per specifiche materie, sia a livello comunitario, quali i Reg. UE 2011/333 per i rottami metallici, 2012/1179 per i rottami di vetro, 2013/715 per i rottami di rame, sia a livello nazionale, quale ad esempio il DM 22/2013 per i combustibili solidi secondari (c.d CSS).

[iii] Nello specifico la sentenza 28 febbraio 2018, n. 1229 che ha ritenuto non conforme quanto precedentemente indicato dal Ministero dell’Ambiente per l’attribuzione della qualifica di c.d. End of Waste, demandando – in assenza di disposizioni comunitarie – per tale compito alternativamente ad appositi Decreti Ministeriali ovvero alle singole Autorizzazioni concesse per l’esercizio degli impianti. Per un commento sulla decisione: Gubello, La regione non può decidere quando un rifiuto non è più un rifiuto, in Rivista Giuridica dell’Ambiente, 2018, 374; MAGLIA-SUARDI, Il recupero di rifiuti dopo la sentenza 1229/18 del Consiglio di Stato: fine dell’EoW o della corretta gestione dei rifiuti?, in www.lexambiente.it; KINIGER, Criteri per l’End of Waste: giro di vite in arrivo?, su www.ambientesicurezzaweb.it.

[iv] Si veda, PAONE, Il reato di deposito incontrollato di rifiuti (art. 256, II, D. Lgs. n. 152/2006) è un reato permanente?, in www.penalecontemporaneo.it; si veda anche, dello stesso autore, Reati in materia di rifiuti, consumazione e decorrenza della prescrizione, in www.lexambiente.it. 

[v] Cass., sez. III, 30 dicembre 2009, n. 49911.

[vi] Per un approfondimento in ordine ai concetti di abbandono di rifiuti, posto in essere da privati ovvero da titolari di imprese o responsabili di enti, e di discarica abusiva, si veda ex multis, RAMACCI, Diritto penale dell’ambiente, Piacenza, 2017, p. 270 e ss.

[vii] Citando sul punto Cass., sez. III, 17 gennaio 2012, n. 19349.

[viii] Purché, a loro volta, non siano frutto di valutazioni arbitrarie e irrazionali (c.d. offensività in astratto) e non siano applicate ad ipotesi che nel caso concreto siano del tutto prive di potenzialità lesiva (c.d. offensività in concreto). C. Cost., 23 giugno 2005, n. 265; C. Cost., 11 giugno 2008, n. 225.

[ix] Essendo invece esclusa la possibilità di ravvisare l’integrazione del reato in presenza di una condotta assolutamente occasionale, richiedendo la disposizione, appunto, una «attività». Cass., sez. III, 7 gennaio 2016, n. 5176.

[x] Cass., sez. III, 27 settembre 2007, n. 35621.

[xi] Traendo una ulteriore conferma dalla decisione della Corte di Giustizia UE, 18 dicembre 2007, C-194/05, che aveva affermato come le attività di movimentazione e deposito ai fini di un successivo riutilizzo di terre e rocce da scavo sarebbero idonee a configurare in capo al detentore un particolare onere di cautela in quanto potenzialmente fonte di danni per l’ambiente.

[xii] Cass., sez. III, 14 marzo 2007, n. 15560; Cass., sez. III, 2 febbraio 2011, n. 6256.

[xiii] Cass., sez. III, 27 marzo 2008, n. 20277.

[xiv] Cass., sez. III, 13 aprile 1996, n. 3589.

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