Bonifica e SIN: Adagi Giurisprudenziali e questioni procedimentali

15 Ott 2019 | giurisprudenza, amministrativo

Di Eva Maschietto

T.A.R. Lazio, Roma, Sezione III – 5 settembre 2019, n. 8970 – Pres. Savoia, Est. Blanda – E.P. s.p.a. (avv.ti Acquarone) c. Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio (avv.ti Tufarelli e Ristuccia), Ministero Infrastrutture, Ministero Trasporti, Presidenza del Consiglio Ministri, Ministero Interno, Regione Toscana, Arpa Toscana, Istituto Superiore di Sanità, Iicram, Ispra, Provincia Livorno, Comune di Livorno, Comune di Collesalvetti, Autorità Portuale di Livorno, Sviluppo Italia Aree Produttive S.p.A., Ministero dello Sviluppo Economico (n.c.)

Al proprietario di un sito contaminato non possono essere ordinati interventi di messa in sicurezza di emergenza in assenza di prove sulla sua responsabilità in relazione allo stato di contaminazione riscontrato.

In caso di inquinamento diffuso è legittimo procedere a un accertamento del nesso causale sulla base di presunzioni, ma tale accertamento deve essere condotto dall’Amministrazione a seguito di adeguata e preventiva istruttoria, che dia complete garanzie procedimentali di pieno contraddittorio all’impresa insediata e sulla base di elementi certi quali, ad esempio, la vicinanza degli impianti e l’identità tra le sostanze rinvenute nelle matrici ambientali contaminate e quelle trattate, prodotte o stoccate, o comunque utilizzate dall’impresa.

La fase istruttoria di un procedimento di bonifica all’interno di un SIN è rigidamente scandita a livello normativo ed è soprattutto da espletarsi in condizioni di autonomia scientifica, alla luce degli odierni sviluppi della tecnologia.

La sentenza è recente, ma il caso non è nuovo: si tratta, infatti di un ricorso[i] proposto nel 2007 al TAR Toscana, riassunto innanzi al TAR Lazio nel 2009 e discusso il maggio scorso in un’udienza “di smaltimento” a distanza di oltre dieci anni, durante i quali presumibilmente poco è accaduto[ii], visto che l’interesse a ricorrere non è venuto meno.

Il sito di interesse nazionale è quello di Livorno nel quale la ricorrente, la più importante impresa di produzione elettrica italiana, è proprietaria di un’area industriale su cui sorge una centrale termoelettrica.

Lo stesso TAR, quasi a volersi scusare per la sintesi (che, in effetti, rende la ricostruzione non agevole), esordisce affermando che la vicenda in fatto è complicatissima e che gli atti che si sono susseguiti in relazione al SIN sono numerosi e articolati.

In breve, si capisce che la società elettrica, ritenendosi estranea alla causazione della contaminazione e quindi dichiarandosi “proprietario incolpevole” (affermazione sulla quale sin dalla narrativa il TAR esprime un certo scetticismo), esegue un piano di caratterizzazione in costanza del Decreto Ronchi e rileva il superamento dei valori tabellari del DM 471/99 per parametri – a dire della stessa – non riconducibili alle proprie attività industriali, né correnti, né pregresse. La società si rende disponibile alla messa in sicurezza d’emergenza della falda, che in effetti mette in atto tramite un classico sistema di pump&treat.

Il sito viene quindi inserito nel procedimento SIN condotto dal Ministero, che commissiona a Sviluppo Italia S.p.A la realizzazione di uno studio di fattibilità per la MISE dell’intero sito, attribuendo i relativi costi a tutte le imprese coinsediate.

Ma, nelle more dello studio di fattibilità, il Ministero rileva un’urgenza improrogabile e intraprende altre iniziative: in particolare, vengono ingiunte (anche) alla ricorrente diverse attività, dalla cui descrizione ed elencazione traspare in effetti una certa fretta e approssimazione, quasi in un affastellamento di prescrizioni. Si menziona la ripetizione di indagini già approvate, l’installazione di una barriera idraulica di emungimento, sino alla richiesta di presentazione del progetto preliminare di bonifica (nella vecchia sequenza procedimentale della disciplina previgente) dei suoli, della falda e anche di un tratto di mare.

La società elettrica insorge, infine, contro il verbale della conferenza dei servizi decisoria con il ricorso in commento e deduce undici motivi di impugnazione, molti di carattere procedimentale, alcuni di carattere sostanziale.

Lamenta in particolare un’inammissibile inversione procedimentale tra la fase istruttoria e la decisione (il Ministero impone attuazione di misure per conoscere una situazione e non viceversa), la violazione dei principi in materia di logica consequenzialità delle fasi procedimentali e di partecipazione nell’ambito del procedimento, e arriva infine a dichiarare l’inesistenza di un provvedimento conclusivo.

Nel merito, la ricorrente contesta l’omessa individuazione delle responsabilità da parte dell’amministrazione che ha indirizzato le prescrizioni alle imprese insediate limitandosi a constatare la proprietà del suolo soprastante la falda acquifera inquinata. In realtà, osserva la società elettrica, la falda è affetta da inquinamento storico diffuso non attribuibile alle proprie attività. Mancherebbero, poi, presupposti per la MISE non essendo intervenuto alcun accertamento di un pericolo reale e attuale e perché, in realtà, essendo il porto di Livorno completamente attivo si dovrebbe piuttosto dar corso ad una MISO. Non si sarebbe tenuto conto dell’entrata in vigore del D.Lgs. 152/06 e, quindi, anche sotto un profilo giuridico l’intera impostazione sarebbe viziata perché non basata sul modello di un’analisi di rischio, in una concezione più aderente alla realtà giuridica vigente. Addirittura, in fatto, lo studio idrogeologico disponibile dimostrerebbe l’assenza di una falda per cui non vi sarebbe un “valle idrogeologico” cui riferire il punto di conformità e, in ogni caso, non vi sarebbero matrici non inquinate da salvaguardare, perché lo stato ambientale del SIN sarebbe di gran lunga peggiore della situazione del sito di proprietà della società elettrica.

La minaccia del Ministero di iniziare un’esecuzione in danno, quindi, non avrebbe presupposto alcuno, perché mancherebbero gli accertamenti base imposti all’amministrazione per imputare alla ricorrente la responsabilità dell’inquinamento e, comunque, gli interventi ordinati non sarebbero idonei né compatibili con la normativa vigente.

Insomma, un autentico ginepraio dal quale il TAR cerca di districarsi sulla base di alcuni adagi giurisprudenziali in tema di bonifiche, per la verità non sempre di immediata e chiara ricostruibilità in una logica consequenziale.

La prima affermazione – apparentemente neutra – ricorda le differenze tra il procedimento di messa in sicurezza di emergenza[iii] e quello di bonifica[iv].

Il TAR passa, poi, rapidamente a una più preoccupante adesione a quella vecchia tesi che ammetterebbe, in generale, che il proprietario incolpevole sia gravato da obblighi diretti di intervento ulteriori rispetto alle misure di prevenzione indicate dall’art. 245 TUA. Il TAR, in particolare, sostiene gran parte della motivazione sul punto attingendo ad un proprio precedente (si tratta della sentenza Tar Lazio, Roma, Sez. II bis, 16 marzo 2015, n. 4224), nel quale afferma la

pretesa sussistenza di un “sistema sanzionatorio ambientale[v]” nel quale il proprietario incolpevole, nell’insediarsi in un sito contaminato, si assumerebbe un rischio imprenditoriale, tale da dover assumere a proprio carico il “ripristino ambientale”, anche nell’ipotesi di contaminazioni non attribuibili alla sua attività, adottando anche misure di sicurezza[vi], godendo comunque (quale magra consolazione) della rivalsa nei confronti del responsabile.

L’adesione a tale tesi – che chi scrive ritiene, invece, definitivamente superata in giurisprudenza a seguito delle più recenti pronunce della Corte di Giustizia a partire dalla C-534/13, peraltro citate dallo stesso TAR nella seconda parte della sentenza – sembra in realtà interessare ai giudici per l’affermazione di un diverso principio, particolarmente rilevante proprio per i SIN.

In particolare, il collegio ritiene che, nei casi di contaminazione estesa e diffusa, in relazione ai quali non è facile distinguere l’apporto individuale di ciascun operatore nella causazione del danno ambientale – anche in considerazione dell’ampio periodo di utilizzo produttivo del sito industriale durante il quale all’interno del sito stesso si sono avvicendati numerosi operatori – sia legittimo procedere a un accertamento presuntivo del nesso causale, sulla base di elementi certi quali “la vicinanza degli impianti e l’identità tra le sostanze rinvenute nelle matrici ambientali contaminate e quelle trattate, prodotte o stoccate, o comunque utilizzate dalle aziende”.

Si osserva, quindi, che la portata di tale affermazione è ben diversa dal riconoscimento di una responsabilità da posizione del proprietario di un’area contaminata sulla base dell’assunzione di un rischio imprenditoriale.

Da qui in avanti, quindi, la sentenza – che pure aveva iniziato con argomentazioni non certo indiscutibili, ispirate a un orientamento minoritario e piuttosto risalente – opera una sterzata positiva verso l’interpretazione più coerente[vii] dei principi di imputazione degli interventi di bonifica nei siti contaminati, accogliendo gran parte dei motivi proposti dalla ricorrente.

Il TAR snocciola quindi una ricostruzione aggiornata della teoria dell’imputazione della responsabilità per la bonifica ambientale aderente alla giurisprudenza più recente, ricordando le conclusioni delle due notissime ordinanze dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 21 del 25 settembre 2013 e n. 25 del 13 novembre 2013) e la pronuncia della Corte di Giustizia nella nota sentenza del 4 marzo 2015 nella causa C-534 (per cui cfr. nota v). In particolare, il Consiglio di Stato aveva già escluso sei anni fa che, in base al principio «chi inquina paga», l’amministrazione potesse imporre al proprietario di un’aera inquinata, che non fosse anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza, essendo il proprietario medesimo tenuto solo nei limiti dell’onere reale e del privilegio speciale immobiliare previsti dalla normativa. E la Corte di Giustizia aveva specificato, sulla stessa scia, che l’autorità competente deve dimostrare l’esistenza di un nesso causale tra l’azione di uno o più operatori individuabili e il danno ambientale concreto e quantificabile al fine dell’imposizione a tale operatore (o a tali operatori) di misure di riparazione, a prescindere dal tipo di inquinamento di cui si tratta.

La riconduzione delle teorie sul proprietario incolpevole al dato normativo costituisce, poi, il culmine della parte in diritto della decisione, per cui il TAR ricorda che “le disposizioni contenute nel Titolo V della Parte IV, del d.lgs. 152/2006 (artt. da 239 a 253) del resto pongono una chiara e netta distinzione tra la figura del responsabile dell’inquinamento e quella del proprietario del sito, che non abbia causato o concorso a causare la contaminazione, e il riferimento all’onere reale non vale a far diventare obbligatorio l’intervento di bonifica, che nell’art. 245 del medesimo decreto, il legislatore ha qualificato in termini di una mera facoltà, quanto, piuttosto, a far gravare sul fondo il rimborso delle spese sostenute dall’autorità che abbia provveduto d’ufficio all’intervento”.

A questo punto il TAR, preso da un certo slancio, dopo aver accolto quattro motivi di merito, condivide anche le censure di carattere procedimentale, accogliendone addirittura sei e riaffermando diversi principi cardine in materia di procedimenti SIN.

Innanzitutto, sotto un profilo di completezza del contraddittorio, “il proprietario del suolo o dell’impianto interessato alle procedure di bonifica ha titolo per partecipare pienamente al relativo procedimento amministrativo e la disciplina del procedimento è soggetta alle norme e regole generali di cui alla l. 241 del 1990 sia a quelle specifiche di settore, contenute nel d.lgs. 152 del 2006.

In secondo luogo, il TAR definisce la logica dell’istruttoria, affermando che in un procedimento di bonifica questa è rigidamente scandita dal legislatore ed è soprattutto da espletarsi in condizioni di autonomia scientifica, alla luce degli odierni sviluppi della tecnologia, lasciando poi all’organo decisionale, politico o amministrativo, solamente la responsabilità della scelta delle migliori modalità logistiche in ordine alle concrete soluzioni di intervento (che si fondino sempre sui risultati delle indagini) e la cura e la verifica della loro corretta e scrupolosa attuazione.

In tal senso, è necessario che dapprima vengano posti in essere tutti gli studi necessari a fornire all’organo amministrativo o politico procedente la completa cognizione di causa, individuando cause ed effetti dei fenomeni scientifici sui quali devono essere assunte le determinazioni dell’Autorità; e poi che queste ultime vengano assunte dietro ponderata valutazione amministrativa delle risultanze degli studi scientifici, volta ad apprestare ed organizzare i mezzi tecnici e finanziari, ed a valutare altresì quegli apporti tecnici, scientifici e consultivi che le parti interessate o controinteressate possono fornire (le quali, a loro volta, devono essere messe, concretamente, in condizioni di farlo)”.

Quindi l’inversione procedimentale non è ammessa e il procedimento va condotto in Conferenza dei Servizi dove devono essere prese le decisioni (punto questo, certamente determinante nella prassi).

Nella specie gli studi di partenza a disposizione erano insufficienti e vi è stata inversione procedimentale, peraltro la normativa sui SIN presenta aspetti peculiari che necessitano di una particolare programmazione e di un particolare coordinamento anche tra le diverse imprese coinsediate, oltre che uno specifico raffronto tra le tecnologie disponibili.

La sentenza si chiude facendoci comprendere che anche in questo SIN la conclusione del procedimento e la fine degli interventi di bonifica sono ancora di là da venire, quasi un miraggio al termine di un percorso impervio e ricco di insidie. Ciò sembra sufficiente ai giudici per compensare le spese di giudizio: decisione che lascia certamente un po’ di amaro in bocca alla ricorrente, stante il numero di motivi accolti e la sostanziale integrale soccombenza dell’amministrazione.

Per il testo della sentenza del T.A.R. Lazio, Roma, Sezione III – 5 settembre 2019, n. 8970 (estratto dal sito istituzionale della Giustizia Amministrativa) cliccare sul PDF in allegato.

Maschietto_TAR Lazio 8970-2019

[i] In realtà le sentenze e i ricorsi più d’uno: la decisione infatti è “gemella” della sentenza n. 8968/2019 dello stesso TAR, sez. III, di contenuto sostanzialmente identico emessa in pari data nel quale la ricorrente aveva impugnato i successivi decreti di adozione delle determinazioni delle Conferenze dei Servizi Decisorie. Più in particolare, oggetto del ricorso deciso dalla sentenza in esame è il verbale della Conferenza di Servizi decisoria convocata presso il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio in data 28 aprile 2006, che è confluito quale atto prodromico nei successivi direttoriali prott. nn. 3315 e 3316/QdV/DI adottati in data 7 febbraio 2007 dal Direttore Generale per la Qualità della Vita del Ministero dell’Ambiente, impugnati con separato ricorso di cui al n. di RG. 9721/2009.

[ii] Nella parte finale della sentenza sembra darsi atto che il procedimento sarebbe ancora (a maggio 2019) alla fase di indagine.

[iii] La messa in sicurezza d’emergenza (cd. m.i.s.e.) può essere disposta solo in presenza di contaminazioni «repentine» al fine di contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito e rimuoverle in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente…” (citando T.A.R. Sardegna, sez. II, 8 ottobre 2007, n. 1809). La definizione è ora contenuta nell’art. 240 comma 1 lett. m TUA.

[iv] Il procedimento di bonifica è soggetto a procedure e tempi che ne assicurano la ponderazione e quindi la qualità, nel mentre la m.i.s.e. si caratterizza per essere un intervento di contenimento immediato di situazioni improvvise e quindi è regolata da una procedura di urgenza, come tale limitata, puntuale e non estensibile oltre i suoi limiti naturali, (cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. I, n. 1254/2007; T.A.R. Toscana, Sez. II, 6.5.2009, n. 762).

[v] Tar Lazio, Roma, Sez. II bis, 10 luglio 2012, n.6251; Idem, Sez. I, 14 marzo 2011, n. 2263; Idem, sez. II bis, 16 maggio 2011, n. 4215, quest’ultima commentata criticamente anche da F. Vanetti in Rivista Giuridica dell’Ambiente, 2011 pp. 660, “Bonifica da parte del proprietario incolpevole: è un obbligo o una facoltà?”. Una disamina della giurisprudenza minoritaria che riconduce la responsabilità alla semplice posizione di proprietario è contenuta nella nota di commento alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sez. III, 4 marzo 2015 causa C-534/03, a cura di chi scrive, La Corte di Giustizia dell’Unione Europea conferma la compatibilità della disciplina italiana sul “proprietario incolpevole” dell’inquinamento con i principi comunitari in materia ambientale, in Rivista Giuridica dell’Ambiente 2015, pag. 33 e segg.ti (cfr. in particolare nota 6 pag. 37).

[vi] In particolare, secondo tale impostazione, la responsabilità degli operatori economici insediati nell’area rispetto a generiche “misure di ripristino ambientale” (tra le quali, evidentemente vi è ben di più di una semplice esecuzione di misure di prevenzione ex art. 245 TUA): essa si configurerebbe come ‘oggettiva responsabilità imprenditoriale’, fondata sul principio secondo cui “gli operatori economici che producono e ritraggono profitti attraverso l’esercizio di attività pericolose, in quanto ex se inquinanti, o in quanto utilizzatori di strutture produttive contaminate e fonte di perdurante contaminazione, sono per ciò stesso tenuti a sostenere integralmente gli oneri necessari a garantire la tutela dell’ambiente e della salute della popolazione, in correlazione causale con tutti indistintamente i fenomeni di compromissione collegatisi alla destinazione industriale del sito, gravato come tale da un vero e proprio onere reale a rilevanza pubblica, in quanto finalizzato alla tutela di prevalenti ed indeclinabili interessi dell’intera collettività”.

[vii] Anche in questo caso le citazioni della giurisprudenza sono piuttosto lontane nel tempo ricordando – in maniera anche qui piuttosto scolastica – che “l’obbligo di bonifica, così come quello di messa in sicurezza, grava – tra gli operatori economici – sul “responsabile” dell’inquinamento (cfr. T.A.R. Toscana, Sez. II, 17 aprile 2009, n. 665; T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 26 luglio 2007, n. 1254; T.A.R. Veneto, Sez. II, 2 febbraio 2002, n. 320) e non può, dunque, essere addossato, a prescindere da una qualsivoglia indagine, su un soggetto incolpevole, come nella specie”.

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