Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti: il labile confine (anche territoriale) tra perfezionamento e consumazione del reato abituale

20 Giu 2021 | giurisprudenza, penale, in evidenza 4

di Roberto Losengo

Corte di Cassazione, Sez. III – 14 gennaio 2021 (dep. 16 aprile 2021), n. 14248 – Pres. Marini, Est. Di Nicola – ric. C.F.G.

La consumazione del delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, in quanto abituale, si consuma con l’ultimo atto avvinto dal nesso di abitualità, ma il reato deve intendersi già perfezionato quando l’agente realizza un minimo di condotte tipizzate nella norma incriminatrice e dirette alla gestione abusiva di ingenti quantitativi di rifiuti, collegate tra loro da un nesso di abitualità.

  1. La vicenda processuale ed il principio di diritto.

La Corte di Cassazione prende nuovamente in esame il tema della natura abituale del delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, attraverso una sentenza che, pur ribadendo un orientamento consolidato circa il momento consumativo del reato, delinea la differenza, non priva di conseguenze, tra la consumazione del reato ed il perfezionamento dello stesso.

Nel caso di specie, i giudici di legittimità si sono confrontati con un’ordinanza del Tribunale del riesame di Trieste, che aveva confermato il provvedimento restrittivo nei confronti dei soggetti sottoposti ad indagine, i quali (secondo la contestazione loro mossa) avrebbero adibito un capannone industriale a sito di deposito abusivo di ingenti quantitativi di rifiuti plastici provenienti dalla raccolta urbana differenziata.

Uno degli interessati aveva prospettato, nel proprio ricorso, di avere partecipato alle sole fasi ideative e di preparazione dell’illecito, mentre sarebbe rimasto estraneo (parzialmente) a quelle di esecuzione e (integralmente) a quelle di consumazione del reato, dato che, all’epoca in cui erano stati effettuati i conferimenti illeciti nel capannone, lo stesso avrebbe cessato il proprio contributo concorsuale.

L’impugnazione in sede di legittimità prospettava, pertanto, l’inosservanza dell’art. 56 c.p., atteso che, ad avviso del ricorrente, lo stesso avrebbe volontariamente desistito dal portare a compimento il reato, avendo al più partecipato alla commissione dello stesso sino ad uno stadio di tentativo.

La Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo non configurabile la desistenza volontaria e ravvisando, al contrario, che all’epoca in cui l’interessato aveva cessato il proprio contributo il reato si era già perfezionato, in quanto si erano già realizzati gli elementi tipici della fattispecie incriminatrice.

Per giungere a tale conclusione, la Corte parte dal richiamo alla consolidata giurisprudenza secondo cui il reato di cui all’art. 452 quaterdecies c.p., in quanto necessariamente caratterizzato da una serie di condotte, alcune delle quali, singolarmente considerate, potrebbero costituire reato ad altro titolo, “ha natura di reato abituale proprio e si consuma, pertanto, con la cessazione dell’attività organizzata, finalizzata al traffico illecito”.

In tal senso, la ratio dell’incriminazione si trova, appunto, nella reiterazione degli illeciti, che si protrae nel tempo, e nella persistenza dell’elemento intenzionale.

La sentenza precisa tuttavia che, proprio in quanto “i fatti debbono essere molteplici e la reiterazione presuppone un arco di tempo che può essere più o meno lungo, ma comunque apprezzabile, la consumazione del reato abituale si ha con l’ultimo atto di questa serie di fatti, mentre il reato stesso si perfeziona nel momento e nel luogo in cui le condotte poste in essere diventano complessivamente riconoscibili, e ciò avviene quando l’agente realizza un minimo di condotte tipizzate nella norma incriminatrice e, nella specie, dirette alla gestione abusiva di ingenti quantitativi di rifiuti, collegate tra loro da un nesso di abitualità”.

La Corte conclude la propria argomentazione affermando che “attesa la struttura persistente e continuativa del reato, ogni successiva condotta di gestione illecita dei rifiuti, compiuta in costanza del nesso di abitualità, si riallaccia a quelle in precedenza realizzate, saldandosi con esse e dando vita un illecito strutturalmente unitaria” (conseguenza di ciò, esemplifica la decisione, è ad esempio il decorso della prescrizione dall’ultima condotta tenuta).

In buona sostanza, dunque, la decisione della Cassazione, pur collocandosi nel solco già ben tracciato in punto di consumazione del reato (da collegarsi all’ultima condotta abituale), rappresenta che esiste un pregresso momento in cui il reato deve già intendersi venuto ad esistenza nei suoi tratti essenziali (con valorizzazione anche delle condotte semplicemente “dirette” alla gestione illecita dei rifiuti), e ciò consente l’incriminazione del concorrente, sebbene non si sia ancora verificata la consumazione “finale” del reato.

  1. Considerazioni in tema di competenza territoriale

L’argomento sviluppato nella decisione in esame merita di essere approfondito in relazione ad un tema che risulta sempre fortemente dibattuto (e non sempre con soluzioni univoche) nella casistica sul reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti.

Ferma infatti, la regola dettata dall’art. 8, comma 1, c.p.p., in base alla quale la competenza del reato (incluso il reato abituale) va individuata nel luogo in cui lo stesso si è consumato, la distinzione tra il luogo in cui è avvenuta la “consumazione finale” (ovvero l’ultima delle condotte avvinte da un nesso di abitualità) o quello in cui può ritenersi riconoscibile quel perfezionamento (o, per così dire, “consumazione iniziale”), comporta esiti radicalmente differenti circa l’effettiva individuazione del locus commissi delicti, tenuto conto della complessa articolazione della c.d. filiera del rifiuto.

Se, infatti, per la determinazione della competenza territoriale si ritiene sufficiente la riconoscibilità del delitto nella sua fase ideativa (o, quantomeno di prima esecuzione), potrebbero venire principalmente in luce condotte “dirette” alla gestione abusiva sin dalla fase della produzione del rifiuto, e riferibili – in ipotesi – ad una non corretta classificazione del rifiuto stesso, al fine di consentirne uno smaltimento in un sito non autorizzato; cosiccome, in diversa ipotesi, il traffico illecito potrebbe considerarsi riconoscibile e perfezionato nel luogo ove il rifiuto subisce un trattamento (o quello in cui il trattamento previsto dall’autorizzazione viene omesso).

Se, invece, si ritiene fondante la sola condotta finale di destinazione del rifiuto, il reato dovrà necessariamente considerarsi consumato (anche ai fini della competenza territoriale) nel luogo ove è avvenuto l’ultimo smaltimento.

Sul punto, la giurisprudenza, pur aderendo alla qualificazione giuridica del fatto come reato abituale, presenta posizioni non univoche, in quanto talvolta l’orientamento sulla competenza si incentra sulla fase di perfezionamento (intesa come luogo ove trova manifestazione la reiterazione della condotta illecita), talaltra valorizza la consumazione finale (quindi il luogo di smaltimento)[i].

Particolarmente esemplificativa della prima lettura è la sentenza Corte Cass. pen., Sez. III, 28 dicembre 2018, n. 54484, che ha disatteso le prospettazioni delle difese volte ad individuare quale luogo di radicamento della competenza quello ove era ubicato il cantiere di destinazione, individuando invece la competenza nel luogo ove aveva sede l’impianto di trattamento dei rifiuti in contestazione; in tal senso, la Corte ha espressamente escluso la rilevanza dell’attività di “interramento” (con ciò dovendosi intendere lo smaltimento ultimo).

In senso opposto, Corte Cass. pen., Sez. III, 3 dicembre 2009, n. 46705, aveva ricondotto la competenza al luogo di smaltimento (denominato anche in tale sentenza “interramento”), ove si sarebbe realizzato il requisito per l’accumulo di ingenti quantitativi di rifiuti.

Dello stesso orientamento è espressione Corte Cass. pen., Sez. III, 12 aprile 2019, n. 16123, che ha individuato la competenza in base al sito di destinazione del rifiuto ove avveniva l’indebita miscelazione in violazione della disciplina sul recupero; va detto, peraltro, che anche in questa sentenza si fa riferimento, contestualmente, sia al concetto di consumazione del reato abituale (parametrata alla cessazione dell’attività illecita), sia al concetto di reiterazione (che, per il vero, possono non coincidere).

In termini ambivalenti si pone Corte Cass. pen., Sez. III, 7 giugno 2017, n. 28329: nel risolvere un conflitto di competenza, la decisione ha rilevato come una prima fase di smaltimento (presso una discarica nel circondario di Brescia, ove si può supporre avesse avuto manifestazione la reiterazione dell’illecito) non fosse idonea a determinare il radicamento della competenza, in quanto avrebbero avuto luogo ulteriori illeciti smaltimenti presso un sito nell’ambito di competenza distrettuale dell’Autorità Giudiziaria di Milano; pur schierandosi, apparentemente, verso la valorizzazione della “consumazione finale” del reato, correlata al luogo in cui sono avvenuti gli ultimi smaltimenti, la Corte ha però affermato che la competenza di Milano avrebbe dovuto essere a monte individuata per una ragione “preliminare ed assorbente”, ovvero che la “organizzazione del sistema illecito complessivo” fosse “collegata all’assetto dirigenziale” della società (avente appunto sede nel circondario milanese), i cui dirigenti erano sottoposti ad indagine[ii].

In definitiva, pur in una apparente condivisione dei principi, la giurisprudenza tende a valorizzare diversi fattori, individuando il locus commissi delicti caso per caso.

Ciò, tuttavia, rende piuttosto labile la determinazione con criteri di certezza del giudice naturale, lasciando – vuoi in una lettura, vuoi nell’altra – significativi margini di arbitrarietà, se non anche di casualità.

Laddove, infatti, si propenda per valorizzare la “consumazione iniziale”, cioè il luogo in cui si manifesti l’abitualità, l’apprezzamento del luogo ove la reiterazione del reato risulti riconoscibile (escludendo, in ipotesi, la rilevanza del luogo di conferimento dei rifiuti) potrebbe essere soggetto a discrezionalità, se non ancorato a precisi riferimenti fattuali; inoltre, se tale prima manifestazione del reato si dovesse riferire ad una fase di gestione del rifiuto poi seguita, nella filiera, da un’ulteriore fase di trattamento o smaltimento, il reato non potrebbe considerarsi compiutamente consumato.

Parimenti, il mero collegamento all’assetto dirigenziale della persona giuridica coinvolta nel procedimento potrebbe essere non indicativo del perfezionamento della condotta di “traffico”, ovvero dell’operatività (in tal senso, l’indicazione della sentenza in commento per cui sarebbe sufficiente a perfezionare il reato anche una mera condotta “diretta” alla gestione illecita dei rifiuti pare arretrare eccessivamente l’ambito di tutela della fattispecie).

Di converso, ancorare la competenza esclusivamente al dato formale relativo alla cessazione dell’abitualità nel luogo di ultimo conferimento del rifiuto (che pure parrebbe maggiormente aderente al canone di cui all’art. 8, comma 1, c.p.p.) potrebbe portare ad esiti distonici, in quanto nella normale prassi la destinazione finale di un rifiuto può essere legata a vari fattori di convenienza commerciale o di contingente disponibilità degli impianti, sicché l’ubicazione del sito in cui avvenga l’ultimo dei conferimenti potrebbe, di fatto, essere non “sintomatica” rispetto all’effettivo sviluppo dell’attività illecita.

Per non infrequente esperienza processuale, inoltre, nel caso di processi che vedano una molteplicità di operazioni di conferimento di rifiuti presso differenti siti, e ad opera di numerosi operatori (i quali, solitamente, partecipano solo ad alcune delle operazioni in contestazione), vi è il rischio che l’unitarietà del procedimento si sgretoli per effetto di sentenze di incompetenza territoriale basate sull’applicazione dei criteri di reiterazione o di destinazione finale del rifiuto.

Né tali situazioni trovano un limite per effetto delle regole sulla connessione, in quanto in base ai principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità “la connessione fondata sull’astratta configurabilità del vincolo della continuazione è idonea a determinare lo spostamento della competenza soltanto quando l’identità del disegno criminoso sia comune a tutti i compartecipi, giacché l’interesse di un imputato alla trattazione unitaria di fatti in continuazione non può pregiudicare quello del coimputato a non essere sottratto al giudice naturale” (cfr. ad es. Corte Cass. pen., Sez. II, 28 febbraio 2017, n. 17090) l’esistenza di profili di connessione ex art. 12, lett. b) c.p.p. per uno o più degli imputati non può determinare lo sviamento dal giudice naturale per gli imputati le cui condotte non si trovino invece in tale nesso di connessione[iii] (diversa rimane la sola ipotesi di connessione teleologica, che invece non richiede l’identità degli autori dei reati – cfr. Corte Cass. pen., Sez. Un., 24 novembre 2017, n. 53390).

Con la conseguenza che, nel caso di “spezzettamento” del processo con attribuzione della competenza, in relazione al medesimo fatto, a diverse Autorità Giudiziarie territoriali, si manifesta un concreto pericolo che venga in essere un contrasto tra giudicati.

Dall’esame della giurisprudenza appare, in conclusione, prospettarsi una divergenza che, più che sui principi, verte talvolta sull’applicazione che di tali principi è fatta dai giudici del merito; sarebbe dunque auspicabile un intervento di chiarezza delle Sezioni Unite, che offra parametri univoci a cui ancorare la decisione circa il momento in cui si manifesta la rilevanza penale del fatto tipico e circa i criteri di determinazione della competenza.

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losengo – traffico illecito di rifiuti – cass. III 14248.2021 (rev.)

Per il testo della sentenza (estratto dal sito della Corte di Cassazione) cliccare sul pdf allegato

Cass. III 14248_2021

Note:

[i] Per un approfondimento sui temi della competenza territoriale, si veda A. Galanti, Traffico illecito di rifiuti: il punto sulla giurisprudenza di legittimità, in Diritto Penale Contemporaneo, 12/2018.

[ii] La sentenza è stata criticata, sul punto, da B. Stefanelli, Traffico illecito di rifiuti e competenza territoriale, in www.ambientesicurezzaweb.it n. 8/2017, ribadendo che “solo con l’arrivo dei rifiuti nei siti di destino si determina il perfezionamento del reato e con la cessazione della reiterazione di questa condotta qualificante il reato la consumazione del medesimo”.

[iii] In tal senso si è espresso recentemente il GUP presso il Tribunale di Brescia (sentenza 14 aprile 2021, inedita) che, nell’ambito di un medesimo procedimento relativo alla gestione di diverse tipologie di rifiuti (con plurime contestazioni del previgente art. 260 D.Lgs. n. 152/2006) ha accolto la questione di competenza territoriale avanzata da alcune difense, mantenendo la competenza di Brescia (ove è ipotizzata la commissione del reato antecedente tra quelli di pari gravità) in relazione ai soli imputati la cui posizione presentasse profili di connessione tra il reato contestato a Brescia e quelli per i quali – in relazione a posizioni non connesse – è stata disposta la trasmissione degli atti ad una diversa Procura.

 

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