Attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti: come si deve declinare il contributo del dipendente affinché egli sia suscettibile di incriminazione?

03 Nov 2022 | giurisprudenza, penale

di Giulia Rota

CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 28 aprile 2022 (dep. 27 maggio 2022), n. 20734 – Pres. Di Nicola, Est. Galtiero – ric. T.L.

Nel settore dei rifiuti vige il principio, sotteso all’esigenza di assicurare un elevato livello di tutela dell’ambiente di diretta derivazione dalla normativa comunitaria basata sulla regola del “chi inquina paga”, della “responsabilità condivisa” e della vicendevole cooperazione per la corretta gestione dei rifiuti, sancito dal combinato disposto degli artt. 178 e 188 D.Lgs. n. 152/2006, che grava su tutti i soggetti coinvolti a qualunque titolo nel ciclo della gestione dei rifiuti, comprensivo di tutte le attività di produzione, detenzione, trasporto e smaltimento, e che si estende al di là della sfera di operatività della condotta del singolo, chiamato a rispondere per omesso controllo anche dell’operato di tutti i soggetti le cui condotte si intersechino con la propria.

  1. Con la pronuncia in commento, la Cassazione tenta di districare l’ingarbugliato intreccio delle responsabilità connesse all’attività di gestione dei rifiuti da parte di una società intermediaria, individuando i criteri attraverso i quali poter ascrivere una responsabilità in forma sia commissiva, sia omissiva anche in capo al dipendente.

Si anticipa sin da subito quel che si approfondirà dopo: in applicazione del principio di ispirazione comunitaria “chi inquina paga” e dei suoi corollari (i principi di responsabilizzazione e cooperazione), la Corte ritiene responsabile del delitto di attività organizzata per traffico illecito di rifiuti anche il dipendente di una società appaltatrice della messa in riserva e del recupero di rifiuti a base cellulosica, poiché avrebbe avviato direttamente allo smaltimento, evitando le dovute operazioni di recupero, composti plastici che la società intermediaria non avrebbe nemmeno potuto gestire, in quanto tipologia di rifiuti non compresa nel titolo autorizzatorio.

  1. Il caso in questione.

La dipendente di una società autorizzata alla messa in sicurezza e recupero di rifiuti a base cellulosica (quali carta, cartone e cartoncino, anche se di natura poli-accoppiata, tutti contrassegnati con il CER 150106) veniva accusata del reato di cui all’art. 452 quaterdecies c.p. in concorso con altri indagati poiché avrebbe agevolato e contribuito alla gestione di un composto plastico, il c.d. “argentato”, non compreso nel titolo autorizzatorio, consentendo alla società intermediaria per la quale lavorava di omettere le dovute operazioni di recupero e di destinare tale rifiuto direttamente allo smaltimento con il codice CER 191212.

In sede cautelare veniva altresì disposta in capo alla dipendente la misura interdittiva della durata di otto mesi del divieto di esercizio dell’attività di impresa nello specifico settore dei rifiuti. Il Tribunale rigettava l’appello proposto dall’indagata, la quale proponeva, avverso tale ultimo provvedimento, ricorso per cassazione, lamentando anzitutto come non fosse stato adeguatamente considerato il ruolo marginale rivestito in tutta la vicenda oggetto di procedimento, in quanto la stessa si sarebbe limitata ad eseguire le direttive dei vertici societari, peraltro solo per gli ultimi due mesi prima della chiusura delle indagini. In secondo luogo, sosteneva che in realtà il codice utilizzato per indirizzare allo smaltimento l’argentato (il CER 191212) era corretto; corrispondeva infatti alla specifica categoria di rifiuto avviato allo smaltimento, tanto è vero che mai gli impianti di destinazione avevano formulato rilievi sul punto.

La Corte dichiarava il ricorso inammissibile e condannava la ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre al pagamento di 3.000 euro di ammenda. Nella motivazione, la Cassazione tenta di definire i profili di responsabilità dell’indagata, ma solo dopo aver ricostruito i tratti essenziali del fatto contestato e gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 452 quaterdecies c.p.

  1. La rilevanza penale della condotta ai sensi dell’art. 452 quaterdecies p.: la gestione del rifiuto deve avvenire in forma organizzata.

È proprio da quest’ultimo punto che la Cassazione prende le mosse: il ricorso è dichiarato inammissibile poiché mancherebbe del tutto il confronto «con gli elementi costitutivi del delitto in contestazione».

L’accusa nasce da alcune intercettazioni eseguite sulle utenze aziendali utilizzate anche dalla dipendente, dall’analisi delle quali era emerso «un complesso meccanismo fraudolento, ricostruito dagli inquirenti fondamentalmente dal raffronto tra le quantità rilevate da registri di carico e scarico dei rifiuti e i FIR sottoposti a sequestro (…), attraverso il quale [la società] riceveva (…) all’interno del proprio stabilimento rifiuti di altra natura [rispetto a quelli che era autorizzata a ricevere] che contrassegnava indebitamente con il codice CER 150106 e destinava direttamente allo smaltimento, così bypassando la procedura di recupero perché troppo costosa, etichettandoli in uscita con il CER 191212, codice relativo ai rifiuti destinati allo smaltimento»[i].

Qui sorge però subito un dubbio, ovvero se l’attività di intermediazione[ii] svolta dalla società, ossia – come già accennato – la messa in riserva (indicata con la sigla R 13, cfr. allegato C alla parte IV, T.U.A.) e il recupero dei rifiuti (indicata con la sigla R 3, allegato C alla parte IV, T.U.A.), possa o meno esser considerata attività di gestione dei rifiuti rilevante ai sensi dell’art. 452 quaterdecies c.p.

Stando a quanto riportato in motivazione, la Cassazione non si interroga sul punto. La questione tuttavia non è di poco momento. In tema, infatti, la Corte ha avuto modo di precisare che tra le condotte rilevanti ai sensi della fattispecie codicistica qui in esame rientra qualsiasi forma di gestione dei rifiuti[iii], purché in forma organizzata[iv]. Due sono dunque gli elementi individuati dagli interpreti al fine di considerare integrato l’elemento oggettivo dell’art. 452 quaterdecies c.p.: la possibilità di classificare l’attività svolta come fase di gestione del rifiuto e, appunto, la forma organizzata.

Se non sussistono particolari dubbi in merito alla possibilità di ricondurre l’attività di messa in riserva e di recupero alla nozione di “gestione”, la stessa cosa non può dirsi per il secondo requisito.

Soffermiamoci brevemente sul primo. Come è noto, l’attività di messa in riserva è definita all’art. 183 c. 1 lett. aa) T.U.A.[v] come forma di stoccaggio di rifiuti finalizzata al loro recupero. Operazione, quest’ultima, che l’art. 183, lett. n, T.U.A. considera parte del ciclo di gestione del rifiuto (raccolta – trasporto – recupero). All’art. 6 commi 4, 5, e 6 del D.M. 5 febbraio 1998, si precisa inoltre che i rifiuti sottoposti ad operazioni di messa in riserva «devono essere avviati ad operazioni di recupero entro un anno dalla data di produzione»[vi]. Non vi è dubbio, pertanto, che l’attività di messa in riserva possa essere considerata condotta rilevante ai sensi dell’art. 452 quaterdecies c.p.

Con riferimento al secondo requisito, è stato sottolineato come la condotta descritta al comma 1 debba necessariamente estrinsecarsi nella realizzazione di una molteplicità di operazioni di gestione illecita per il tramite di un allestimento di mezzi e attività organizzate in modo continuativo nel tempo[vii]. Deve esservi cioè una struttura organizzativa che presuppone necessariamente il coinvolgimento di plurimi soggetti[viii] accomunati da un comune interesse economico, oltre all’utilizzo di mezzi documentali, analitici, informatici o meccanici.

Per quel che si è potuto comprendere vista la particolare stringatezza della motivazione sul punto, l’ipotesi d’accusa formulata a carico della dipendente è incentrata su una serie di episodi criminosi (in totale nove conferimenti di rifiuti), posti in essere per il tramite di un’organizzazione che nasce ed essenzialmente si esaurisce all’interno dell’attività imprenditoriale lecitamente svolta. Dell’organizzazione farebbero parte i vertici societari oltre ad altri soggetti inseriti a vario titolo nell’organigramma aziendale, e i mezzi della contestata organizzazione coincidono – nella prospettiva accusatoria – con le strutture societarie.

Ciò premesso, un primo tema si pone con riferimento ad uno dei requisiti dell’art. 452 quaterdecies c.p. [ix], ovvero la presenza di una struttura organizzativa adeguata e idonea alla gestione illecita di un ingente quantitativo di rifiuti. Nel caso di specie è evidente che, nella ricostruzione accusatoria, l’attività organizzata si sovrappone perfettamente con l’organizzazione imprenditoriale nel cui ambito sarebbero state commesse le gestioni illecite. Ne consegue che la “struttura organizzativa” dell’associazione, intesa come apprestamento di risorse umane e mezzi volti al perseguimento degli obiettivi criminosi, si identifica – e di fatto si immedesima – con un’attività di impresa del tutto lecita.

La sovrapponibilità tra organizzazione criminale e impresa non è un tema puramente accademico per una serie di riflessi concreti.

Innanzitutto, come detto, esso attiene all’accertamento di uno degli elementi costitutivi del reato, vale a dire quel requisito strutturale di predisposizione di uomini e mezzi dotata di sufficiente stabilità tanto da poter mobilitare ingenti quantitativi di rifiuti e che diventa oggettivamente pericolosa per l’ordine pubblico e l’ambiente. Della questione, si è di recente occupata anche la giurisprudenza, in un caso – già richiamato in nota – ove si è avuto occasione di precisare che il reato in esame può configurarsi in presenza di una struttura organizzata di tipo imprenditoriale, anche quando l’attività criminosa sia marginale o secondaria rispetto all’attività principale lecitamente svolta[x].

Ma non si può nemmeno ignorare che la peculiarità della identificazione della struttura dell’organizzazione con la struttura societaria si riverbera anche sui criteri di imputazione del fatto al mero concorrente, laddove quest’ultimo si identifica con un soggetto che svolge regolare (e lecita) attività lavorativa all’interno della struttura societaria.

In altre parole, si tratta di declinare l’apporto fornito dal dipendente affinché egli sia suscettibile di incriminazione ex art. 452 quaterdecies c.p. Snodo problematico è evidentemente quello che attiene alla dimostrazione del cosciente e volontario apporto che arricchisca la stabilità e continuità dell’attività organizzata, con relativo ingiusto profitto, laddove il detto apporto si svolge nell’ambito di un’attività legalmente esercitata per di più nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato.

Ed è proprio sull’elemento soggettivo del partecipe che la Corte si sofferma nel caso di specie, chiamando in causa il principio della “responsabilità condivisa”.

  1. L’elemento soggettivo del reato: il principio della “responsabilità condivisa”.

La Corte risponde alla questione sollevata dalla difesa della dipendente in merito alla rimproverabilità soggettiva del fatto sottolineando due circostanze. Con la prima, si evidenzia come, in realtà, vi fosse prova di un contributo causale di tipo commissivo, avendo  la stessa avviato direttamente allo smaltimento con codice CER 191212 composti plastici che la società non avrebbe nemmeno potuto ricevere, in violazione dell’autorizzazione che consentiva solo attività di messa in riserva e recupero (non di smaltimento). Con la seconda, si fa appello al principio – qui di particolare interesse – della “responsabilità condivisa” derivato dal combinato disposto degli artt. 178 e 188 T.U.A.

In sostanza, la Corte sembra sostenere che, a prescindere dalla dimostrazione dell’oggetto del dolo del partecipe (riferito sia al fatto principale sia al contributo causale recato dalla condotta atipica), l’applicazione del principio comunitario sopra richiamato, che affonda le proprie radici in un altro principio, quello del “chi inquina paga”[xi], costituisce la base giuridica per imputare la responsabilità penale del fatto a chiunque si trovi, in qualsiasi modo, coinvolto nella filiera della gestione del rifiuto.

Ora, è nota la difficoltà di distinguere tra concorso nel o nei reati o illeciti amministrativi in materia di rifiuti e il reato complesso di cui all’art. 452 quaterdecies c.p.[xii]. Il filo d’Arianna che deve guidare l’interprete è la prova (anche indiziaria) della consapevolezza dell’agente di apportare un contributo che arricchisca la stabilità e continuità dell’attività organizzata, con il correlato ingiusto profitto, e non invece la semplice e più circoscritta consapevolezza di svolgere singole operazioni illecite, al di fuori della stabile organizzazione e (magari) anche eseguendo la propria mansione lavorativa.

Si consenta una precisazione. Secondo recente giurisprudenza, basta la consapevolezza di contribuire all’arricchimento ingiusto dell’organizzazione, non è richiesta invece la compartecipazione effettiva ai profitti. È stato infatti sottolineato che «in caso di concorso, la responsabilità causale sussiste anche in capo al concorrente che di per sé non partecipi (o vi partecipi in misura anche minimale) ai (maggiori) profitti illeciti dei correi di cui egli sia comunque consapevole»[xiii].

Nella sentenza in commento, la Cassazione non si sofferma sul punto in questi esatti termini. Non si interroga cioè sull’esistenza di una effettiva consapevolezza della dipendente di essere parte di un più ampio e complesso meccanismo fraudolento volto – citando quanto scritto in motivazione – a «ritagliarsi una posizione di sostanziale monopolio nel contesto territoriale in cui [la società] operava». Le considerazioni svolte si appiattiscono, al contrario, sulla consapevolezza dell’illiceità delle condotte singolarmente intese, tralasciando qualsiasi valutazione in ordine al contesto organizzativo nel quale esse si inseriscono.

La Corte sembra piuttosto utilizzare i principi comunitari della responsabilizzazione e cooperazione quali espedienti per ovviare all’accertamento di tali presupposti sostanziali e giuridici, arrivando a sostenere che l’operatività del principio della responsabilità condivisa si «estende al di là della sfera di operatività della condotta del singolo».

Al di là del caso di specie, ove la gravità indiziaria sembra sia stata rivenuta nelle anomalie organizzative della società intermediaria più che nell’operato della ricorrente, la prospettiva assunta dai Giudici di legittimità non convince del tutto: considerare i principi comunitari quali fonti di precisi obblighi di garanzia in capo a chiunque gestisca il rifiuto rischia, non di rado, di dare quasi per scontata la rimproverabilità soggettiva della condotta così come tipizzata dalla singola norma incriminatrice.

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Rota – C. pen. n. 20734-22

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Cass. III, 20734_2022

NOTE

[i] Queste le parole utilizzate in sentenza.

[ii] Per un approfondimento sulla nozione di “intermediario”, si rimanda a P. Fimiani, La tutela penale dell’ambiente, Milano, 2015, p. 378 ss.

[iii] Considera l’attività di intermediazione come parte del ciclo di gestione di rifiuti, Cass. pen., ud. 4 maggio 2006, dep. 9 agosto 2006, n. 28685, in Dejure, per quanto riguarda la fattispecie prevista all’art. 260 T.U.A. che è stata trasferita, senza alcuna modifica, del nuovo art. 452 quaterdecies c.p. per opera del d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21. In particolare, si precisa che «la condotta delittuosa non può ritenersi agganciata alla nozione di “gestione” di cui all’art. 183, lett. n., d.lgs. n. 152/2006, né limitata ai casi in cui l’attività venga svolta al di fuori delle prescritte autorizzazioni».

[iv] Cfr. Cass. pen., ud. 23 maggio 2019, dep. 20 ottobre 2019, n. 43710, RV 276937, in CED Cassazione, nella quale è stata ritenuta integrata la fattispecie in esame nell’ambito della fase cautelare di un procedimento relativo ad un’ipotesi di illecita miscelazione di rifiuti sanitari infetti prodotti a bordo di navi con quelli solidi urbani, ascrivibile al titolare di un’agenzia marittima che si occupava di predisporre i documenti relativi agli arrivi e alle partenze delle navi ONG operanti per il soccorso di migranti. Di tale pronuncia dà conto anche A. Aceto, Art. 452 quaterdecies c.p., in Aa. Vv., Codice dell’ambiente, Profili generali e penali, a cura di S. Nespor e L. Ramacci, Giuffrè, 2022, p. 403.

[v] Cfr. art. 183 c. 1 lett. aa) D.Lgs. n. 152/2006 «stoccaggio: le attività di smaltimento consistenti nelle operazioni di deposito preliminare di rifiuti di cui al punto D15 dell’allegato B alla parte IV del presente decreto, nonché le attività di recupero consistenti nelle operazioni di messa in riserva di rifiuti di cui al punto R13 dell’allegato C alla medesima parte IV».

[vi] Si sofferma sul tema, R. Tonoli, Esistono limiti temporali alla messa in riserva di rifiuti (R13), nel silenzio dell’autorizzazione?, in www.tuttoambiente.it, 27 luglio 2015.

[vii] Seppur con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 260 T.U.A., si veda Cass. pen., sez. III, ud. 6 novembre 2012, dep. 6 dicembre 2012, n. 47229, in Dejure; in dottrina, si soffermano sulla questione, P. Fimiani, La tutela penale dell’ambiente, op. cit., p. 663. Lo sottolinea in modo molto efficace, E. Napoletano, I reati nella gestione dei rifiuti e della bonifica dei siti inquinati, Pisa, 2022, p. 213.

[viii] Sul tema, si sofferma C. Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, Torino, 2021, pp. 294-295, il quale precisa che il delitto di cui all’art. 452 quaterdecies c.p. «almeno in linea teorica (…) potrebbe essere commesso da una sola persona, la quale riesca a gestire abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti. (…) Di fatto, però, il requisito dell’“allestimento di mezzi e attività continuative ed organizzate” presuppone la creazione di una struttura di tipo imprenditoriale, quand’anche rudimentale, non importa se clandestina o “ufficiale”, al cui interno normalmente operano più persone, dando vita, nella realtà criminologica, ad un reato plurisoggettivo».

[ix] Affronta, più in generale, interessanti questioni sistematiche, R. Losengo, Attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti e diritto vivente: ancora attuale e ragionevole la collocazione tra il reato di cui all’art. 51, comma 3 bis c.p.p.?, in Lexambiente Riv. Giur., fasc. 4/2020.

[x] Più precisamente nella già citata sentenza 43710/2019 si afferma che «la condotta sanzionata (…) richiede una, seppure rudimentale, organizzazione professionale (mezzi e capitali), che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo. Con la precisazione che tale struttura organizzata (che ben può configurarsi anche in presenza di una struttura organizzativa di tipo imprenditoriale) può ritenersi idonea e adeguata a realizzare l’obiettivo criminoso, anche quando essa non sia destinata, in via esclusiva, alla commissione di attività lecite, con la conseguenza che il reato si realizza anche quando l’attività criminosa sia marginale o secondaria rispetto all’attività principale lecitamente svolta», Cass. pen., sez. III, 23 maggio 2019, n. 43710, cit; in senso conforme, anche se relative alla fattispecie di cui all’art. 260 T.U.A., si veda Cass. pen., sez. III, ud. 12 luglio 2012, dep. 10 giugno 2013, n. 26614, RV 257075, in CED Cassazione e Cass. pen., sez. III, ud. 19 ottobre 2011, dep. 22 dicembre 2011, n. 47870, RV 251965, in CED Cassazione.

[xi] Per ogni approfondimento sul punto, si rimanda a F. Peres, Rifiuti e economia circolare, in Aa.Vv., Codice dell’ambiente, op. cit., pp. 2512 ss.

[xii] Lo sottolinea in questi termini, C. Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, op. cit., p. 295.

[xiii] Cfr. Cass. pen., sez. III, ud. 18 novembre 2021, dep. 25 gennaio 2022, n. 2842, in questa Rivista, con nota di A. Ranghino, Attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti: i presupposti del concorso nel reato del terzo gestore dell’impianto che non ha conseguito alcun ingiusto profitto, 1° aprile 2022.

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